Avrei voluto iniziare prima, forse avrei dovuto, ma dentro di me sapevo che non sarebbe stato giusto. Ho aspettato sette giorni per iniziare questa nuova avventura, forse in cuor mio sapevo che sarebbe stato necessario un certo distacco cosa che non avrei certo avuto qualche giorno fa. Dato che è la prima pubblicazione mi sembra doveroso spiegare le motivazioni che mi hanno spinto a creare questo piccolo spazio: potrebbe essere una storia romanzata, ma purtroppo non è così, tutto è iniziato un mercoledì imprecisato.
Qui potrebbe già esserci la prima perplessità di qualcuno che potrebbe obiettare il giorno, potrebbe esclamare: “come fai a sapere che è stato proprio un mercoledì, imprecisato per giunta”. La spiegazione sta nel mio precedente lavoro, infatti ho passato tre anni a lavorare in una cooperativa sociale della mia provincia che si occupava di servizio civile e in questi tre anni di contratti collaterali ed imprecisate mansioni l’unica costante che ho avuto è che il mercoledì qualcuno dei miei pochi diritti veniva meno. Capitava sempre qualcosa, di improvviso che mi portava ad avere problemi soprattutto quel giorno; un esempio su tutti: le improvvise e situazioniste riunioni organizzate ad orari improbabili del pomeriggio, così anche se mi toccavano sei ore lavorative mi ritrovavo a dover attendere un’incredibile riunione alle 18 di sera per discutere di cose importanti come il trasferimento delle scrivanie da un ufficio all’altro e la cosa bella e che queste riunioni duravano anche tre ore.
Ecco, proprio in uno di questi mercoledì maletratati (per citare Vincenzo Rabito nella sua opera Terra Matta) ho preso la decisione di andarmene e di raccontare le mie esperienze al fine di condividere e trarre le dovute attenzioni per il futuro. La voglia di raccontarsi c’era tutta, ci voleva soltanto un nome, ma non c’è voluto molto per trovarlo, dopotutto ho quasi 31 anni, ho passato 3 anni a lavorare nella più totale precarietà contrattuale e sentimentale, provengo dalla provincia meridionale e l’unico appellativo che mi veniva in mente ogni volta che mi ripensavo era quello dialettale dello scarpe sciuote, scarpe sciolte.
La figura dello scarpe sciolte si potrebbe dire che ce l’ho cucita addosso da sempre, già quando ero piccolo gli anziani del mio rione erano soliti chiamarmi, in tono scherzoso, così, ma crescendo queste due parole hanno assunto un tono diverso.
Si definisce scarpe sciolte colui che si muove all’interno di un dato contesto con una fortissima dose di improvvisazione e proprio a causa di ciò rischia costantemente di cadere ed inciampare nelle diverse situazioni in cui viene a trovarsi. Giocando un poco con gli elementi uno scarpe sciuote potrebbe essere anche chi ogni giorno deve lottare quotidianamente nel mondo lavorativo, sociale, culturale perché si trova ad essere identificato come un improvvisato per comodità altrui, per convenienza o per ragioni sociali, culturali e politiche. L’aspetto interessante sta proprio in questo relegare qualcuno ai margini di una catena produttiva, di un contesto sociale e/o culturale è che quando ci si trova in questo limen è più facile osservare un dato ambiente e di conseguenza raccontarlo. Questo vuole essere uno spazio di narrazione di esperienze e di condivisione. Non mi resta che esclamare
“SCARPE SCIUOTE DI TUTTO IL MONDO UNITEVI!”
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