Strano, ma vero: la memoria degli esseri umani è un meccanismo attrezzato per l’oblio. Lo è talmente tanto che in pochi mesi abbiamo già dimenticato tutto quello che abbiamo vissuto e quali sono stati i nostri sacrifici.
Di quei giorni, di primo impatto, ricordiamo alcuni simboli: il tricolore, l’inno di Mameli cantato ogni sera, gli applausi e cose simili. Ma di quei mesi, appena trascorsi, abbiamo dimenticato le tante sofferenze e privazioni che hanno scandito le ore, i minuti e i secondi. La prova di tutto ciò sta nel fatto che i miei ricordi sono lentamente emersi solo qualche settimana fa quando ritrovandomi fuori al balcone di casa ho ripetuto lo stesso gesto che tantissime volte avevo compiuto nel corso della pandemia, ovvero avevo rivolto lo sguardo verso quel piccolo spazio di città che ho davanti casa in cerca di vita, di persone e lo avevo fatto senza pensarci, d’istinto.
In quel momento la ripetizione di quel gesto mi ha catapultato indietro di qualche mese, dove la ricerca spasmodica e limitata a quei pochi metri di città era diventata un continuo rievocare, rievocare quel pezzo di centro storico vivo e chiassoso come lo era da sempre in estate e nei giorni più caldi di inverno.
Era lì che in tanti siamo passati negli anni scorsi e che in tanti continuano a passare parte delle proprie giornate portando con sé un unico oggetto, la palla.

Come per i film di Hitchcock- il pallone in questa storia rappresenta in un certo qual modo il McGuffin- i veri protagonisti sono i minori che nel corso degli anni hanno avuto un ruolo importante nella ridefinizione degli spazi cittadini. Anche per questa storia, come per le precedenti, il motore di tutto è stata la mancanza di spazi attrezzati e gratuiti utili allo svolgimento di questo sport e, come spesso accade, a questa privazione fa seguito la capacità di adattamento al fine di ricreare quanto sperato ed immaginato.
Così come in molte altre città sono comparsi negli anni i più disparati e fantasiosi campi di gioco, mettendo al centro di ciò la capacità immaginativa dei giovanissimi protagonisti e l’adattabilità a spazi pre-esistenti cittadini. Le forme che variavano da quadrilateri irregolari e a vere e proprie semicirconferenze hanno permesso ai più piccoli abitanti della città di vivere e far rivivere molteplici luoghi spogliandoli anche dei precedenti significati che questi avevano assunto, svecchiandoli e rendendoli accessibili a chiunque. Un processo democratizzante dei luoghi e delle loro nuove funzionalità, certo inconsapevole, ma pur sempre fondamentale e capace di ridare ossigeno a luoghi marginalizzati e abbandonati per troppo tempo e poco importa se qualche voce fuori dal coro ne è scontenta.

In fondo dopo i mesi in cui abbiamo dovuto ridefinire velocemente il nostro modo di vivere, immaginare la città a prova di pallone potrebbe essere un ottimo esercizio per combattere le disuguaglianze e le stratificazioni che da sempre la contraddistinguono.
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