Perdere il tempo ad Atripalda

da | Set 2, 2020 | Caro diario | 39 commenti

Sono le 9 di una mattina di ottobre. Atripalda è già caotica, l’aria è calda e sono in fila al bar, una rarità per me e per i numerosi avventori miei conoscenti che in quel momento si erano già ritrovati lì davanti.

Siamo tutti lì, in quel piccolo bar che anticipa la piazza e che accoglie tutti coloro che la mattina camminano ancora assonnati nelle direzioni desiderate; siamo tutti lì, è il 2019 e di coronavirus nessuno ha ancora sentito parlare, o per lo meno la totalità delle persone che sono in fila per il caffè non ne hanno sentito parlare. La piccola folla si muove velocemente e proprio in questo suo progredire mi ritorna, d’improvviso, in mente un libro letto nei mesi precedenti: Binario morto di Luca Rastello, indimenticabile giornalista e scrittore scomparso 5 anni fa, e Andrea De Benedetti. L’opera, un’inchiesta sull’incredibile inutilità della costruzione dell’alta velocità in Val di Susa e più in generale in Europa, viene resa evidente attraverso un’unità di misura tutt’altro che convenzionale, un pacchetto di caffè che sarà l’unica merce a completare l’intero corridoio 5 Lisbona – Kiev. In quel momento di attesa ho ripensato al caffè sotto un’ottica differente, non più come sostanza da assumere per far fronte alla giornata, ma come unità di misura del tempo.

Nelle nostre aree, interne e meridionali, il tempo potrebbe essere ancora misurato con un caffè. Infatti se provassimo a ritornare nel piccolo bar del centro in quelle prime ore della giornata lavorativa dello scorso ottobre noteremmo subito che la velocità delle consumazioni potrebbe essere condensata tutta in pochi minuti, sapientemente divisi tra consumo della bevanda e lo scambio di veloci e semplici battute tra colleghi prima di congedarsi.

Ma sempre facendo fede alla nostra capacità immaginativa se provassimo invece a ritornare in quel bar all’imbrunire vedremmo gli stessi della mattina calmi, seduti al tavolino, intenti a consumare lentamente il proprio caffè e regalando all’aria intere sigarette.

Il caffè, dunque, ha svolto il compito desiderato: ci ha appena dimostrato che la fruizione del tempo è strettamente connessa alla produzione (lavoro) e che quando questo si conclude, il consumo del tempo tende a dilatarsi dandoci una sensazione di lentezza che non sempre ci entusiasma.

DAL TEMPO DI CONSUMO AL LUOGO DI CONSUMO

La dicotomia fruizione del tempo – produzione ci porta a vivere anche il tempo libero alla ricerca, spasmodica, di un qualcosa che possa essere speso, consumato, dando perciò ad esso un prezzo. Questa relazione porta con sé alcune conseguenze che si riflettono sulla ricerca dell’impiego ideale del tempo libero e che ci riportano a due reazioni fondamentali: la prima è riscontrabile in un atteggiamento nevrotico che ci conduce a ricercare disperatamente un qualcosa che ci faccia passare il tempo, anche e soprattutto prezzolato, mentre la seconda ci condanna all’immobilismo più totale. Infatti rassegnati dall’esito negativo di qualsiasi tipo di impegno non ci resta che aspettare che anche l’ultima parte della giornata termini e ci riporti, anima e corpo, alla solita routine giornaliera.

Una conseguenza non indifferente di questa condizione è vissuta dallo spazio che difatti si intromette in maniera dirompente in qualsiasi riflessione che vede al centro la relazione fruizione del tempo e consumo/produzione dello stesso. Gli spazi cittadini infatti sono attori passivi di questa relazione e sono caratterizzati dalle diverse modalità di impiego che gli conferiamo.

Così ci capita di vivere un luogo della nostra città più di un altro perché ci ritroviamo alla costante ricerca di una modalità di consumo del tempo caratterizzata dalla pratica di consumo/produzione. Un luogo cittadino svuotato da qualsiasi logica di consumo sarà costretto all’isolamento e al successivo abbandono.

TEMPO DI CONSUMO O TEMPO LIBERO? MEGLIO PERDERE IL TEMPO…

Ma per un momento, prima di proseguire, ritorniamo alla nostra unità di misura: sono le 6:30 di una mattina di agosto e al solito bar che fa da anticamera alla piazza, un drappello di ragazzi accompagna al caffè mattutino un cornetto, hanno passato la notte in quel piccolo lembo di città che fino a qualche anno fa veniva attraversato in tutta fretta per raggiungere i luoghi dove poter trascorrere le proprie giornate. Da qualche mese a questa parte questa piccola linea di frontiera è diventata il centro di una rinascita, dove oltre al tempo di lavoro, in molti ritornano per passare il proprio tempo libero.

 

Proprio questo cambio di pensiero ha portato alla nascita del Tricare, dal dialetto attardarsi, perdere tempo, fare tardi, la cui logica è stata proprio quella di ricercare non più luoghi soliti del consumo e di spendibilità del tempo, ma di rituffarsi in uno spazio come tanti a farlo rivivere condannandosi consapevolmente a quella immobilità tanto temuta.

Per due giorni alla settimana un’intera comunità ha provato a passare le giornate all’insegna della calma, dei ritmi lenti e della ridefinizione dei nostri momenti liberi.

Un insegnamento molto importante che, come nel precedente articolo, ha come centro noi, gli abitanti delle nostre città e la necessità ad un esercizio quanto meno interessante che ci permetta di vedere le nostre piazze e le nostre strade senza lasciarci condizionare dai significati sovrastrutturali pre-esistenti che alcuni luoghi hanno assunto nel corso degli anni.

Sarebbe bello misurare il tempo di un caffè non più in base al suo consumo, ma in base al percorso che siamo capaci di inventarci per arrivare al nostro bar di fiducia. Ricercando così, non la strada più veloce per massimizzare il nostro tempo libero, ma quella più interessante per perderlo.

Si ringraziano Sabino Battista ed Ilaria Piccirillo per le foto.

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39 Commenti

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