Era una domenica del 2002. Non una domenica qualsiasi ma era l’ultimo giorno delle vacanze di Pasqua ed io ero seduto in macchina e tornavo a casa mia dopo aver trascorso quel periodo con mio padre, tra varie delizie pasquali e libri.
Mi ricordo in macchina, mentre tornavo da mia madre, come mi veniva consigliato di studiare una volta a casa e di non perder tempo, di non uscire quella domenica. Ah quanto ero ingenuo! Se avessi seguito quel consiglio paterno, avrei evitato gli eventi che si sarebbero andati a consumare da lì a poco.
Ma non ascoltai quei consigli e anzi una volta a casa, salutata mia madre, andai a bussare il mio amico e vicino con la voglia di uscire e andare dalle parti di Piazzetta Monteoliveto. Di sentirmi “libero” dopo aver trascorso tutte le vacanze pasquali sui libri scolastici.
Ero contento in fin dei conti, mi cambiai in un attimo ed uscii dalla porta per bussare a quella di fronte. “Ciao! Come stai? Ti va di andare a Monteoliveto a fare un giro? Son giorni che son chiuso a casa sui libri e domani riprende anche la scuola, voglio uscire!”.
Era il 2002 e io frequentavo il primo anno del liceo scientifico, non avevo una media altissima ma ero tra quelli che i prof dicevano “è intelligente ma non si applica”. Ed ero consapevole di non applicarmi, nessun merito, nessuna parola di incoraggiamento negli anni mi avevano portato a non impegnarmi più del dovuto.
Era una domenica del 2002, le vacanze pasquali volgevano al termine e due ragazzi erano per strada, allegri a raccontarsi come fossero stati quei giorni festivi. Si raccontarono di tutto, spensierati senza preoccuparsi di chi potevano incontrare per strada ma la loro conversazione fu interrotta a Via Foria da altri due ragazzi.
“Dateci tutto quello che avete” minacciò uno dei due. Non capimmo subito la situazione e cosa stesse succedendo quando mi arrivò un primo schiaffo che mi intontí e vidi nello stesso momento il mio amico che consegnava il portafoglio, impaurito dalla situazione. Forse fu lo schiaffo o l’adrenalina ma l’unica cosa che riuscì a dire fu “Non ho nulla…”
E un altro schiaffo!
“Forza dacci tutto quello che hai!” era ancora più minaccioso ma io non avevo nulla con me, se non paura. Nessuno si accorse della pugnalata alla gamba fu rapida e indolore, forse per via dell’adrenalina in circolo. Mi fu data per “ammorbidirmi” convinti che il mio fosse cieco coraggio ma non visibile paura.
“Allora ci vuoi dare i soldi?!” e un altro schiaffo mi colpì in volto. Ero impotente in quella situazione, non sapevo come reagire e non sapevo cosa dire. Continuavo a ripetere che non avevo nulla ma quell’affermazione dava fastidio,dava così fastidio che uno dei due ragazzi, spazientito, invitò l’altro a “dagli un’altra pugnalata e andiamocene”
Anche in quel momento non feci caso a quello che accadeva, incredulo e stordito ancora ricevetti la seconda e ultima pugnalata. Fuggirono e noi facemmo l’unica cosa sensata da fare, continuare a camminare e dirigerci verso la nostra meta. Neanche qualche metro che il mio amico notò qualcosa di strano, perdevo sangue dalla gamba.
Ci fermammo, cercando in qualche modo di bloccare l’emorragia. Per strada nessuno, nessuno che ci potesse aiutare fino a quando passarono prima due donne che ci guardarono con sdegno,fredde e distaccate continuarono la loro passeggiata e noi ancora li impauriti in cerca di aiuto in una domenica pomeriggio, aiuto che arrivò dopo qualche minuto. Si avvicinò un signore che disse che ci stava cercando poichè la moglie, da sopra un palazzo, aveva visto tutta la scena e aveva allertato il marito di ciò che stava avvenendo e l’uomo era corso in strada per cercarci. Nell’esperienza appena vissuta, la fiducia nel prossimo vacillava ma affidarsi a quella figura gentile era l’unica cosa da fare e così salimmo sulla vettura dell’uomo diretti all’ospedale.
L’ospedale
Arrivammo all’ospedale e subito mi caricarono su una sedia a rotelle, nell’ascensore un infermiere mi chiese se la ferita fosse una “pistolettata” e io risposi che non era quella ma una coltellata. L’ascensore si fermò, mi portarono dentro all’ambulatorio dove mi fecero stendere su un lettino, poco dopo entrò un medico che domandò cosa fosse successo.
Risposi e il medico senza perder tempo prese prima una siringa, penso fosse antitetanica, poi prese ago e filo per chiudere la ferita. Fu tutto rapido anche quel momento, riuscì a pensare solamente “No la siringa, no” poichè ho sempre avuto il terrore per gli aghi e poi il buio ed un dolore mai provato prima. Sentivo l’ago entrare ed uscire e il filo che “stringeva”, sentivo quest’operazione senza nessuna anestesia, sentivo la carne “richiudersi”, sentivo l’impotenza per ciò che era avvenuto. Finirono di cucire la ferita e poco dopo entrarono i miei genitori, accompagnati da un carabiniere che chiese la testimonianza prima del mio amico e poi la mia.
Passò un pò di tempo prima di rivedere l’agente, portatore di nefaste notizie
“Non so quanto vi convenga fare la denuncia. Sia perché potrebbero creare piu’ problemi a voi sia perché una volta presi, nel giro di qualche giorno sono fuori. Ma la decisione spetta a voi, io vi sconsiglio di farla.”
Un uomo di giustizia che consigliava una cosa del genere, la sensazione di impotenza che non accennava a diminuire e la tristezza che si sostituiva alla paura. Non fu fatta nessuna denuncia e mi riportarono a casa, una volta lì avvisai un amico e compagno di classe che non sarei potuto andare a scuola il giorno dopo, spiegando tutto.
Passai tuto il periodo della guarigione in casa da solo, con qualche visita del mio amico di sventura o di qualche familiare. Ma della classe con cui avrei passato gli anni del liceo, nessuna notizia.
Sono passati anni e qualche volta mi son domandato se i due ragazzi di quel pomeriggio siano mai stati presi o se hanno continuato con le loro attività indisturbati. L’unica cosa che so è che con quell’esperienza ho capito che l’empatia e il supporto sono valori abbastanza rari e che la giustizia a volte viene messa da parte, lasciando la violenza libera di spadroneggiare.
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