Arrivo venerdì ma ho il pullman la domenica

da | Nov 5, 2020 | Lo sbriglialacci | 0 commenti

Il fenomeno dell’emigrazione interna ha, di recente, perso la ribalta e l’eco nazionale in favore dell’immigrazione estera; tuttavia, questo fenomeno non ha mai cessato di esportare ragazzi (meridionali) che, per mancanza di opportunità di lavoro concrete, scelgono di trasferirsi in città più o meno lontane per continuare gli studi universitari o per cercare un lavoro ben retribuito all’ombra di una chimera lavorativa che diviene sempre più lontana ed utopistica.

La rappresentazione della terra d’origine nel giovane emigrante si riassume in alcuni versi di tre canzoni: Pino Daniele canta una Terra Mia, “…cumm’è bell a la penzà…cumm’è bell a la guardà…”; Rino Gaetano, invece, narra le storie di un emigrante “che portava le provviste e due tre pacchi di riviste” mentre “cantava le canzone che sentiva sempre a lu mare” e ci parla di suo fratello, figlio unico “sfruttato, represso, calpestato, odiato…deriso, frustrato, picchiato, derubato, e ti amo Mario”. L’immaginario collettivo è ricco di figure simili, il dato interessante è che queste canzoni, scritte negli anni ’70 – ’80, restituiscono scenari ancora attuali. Tutti gli emigranti portano con sé i cibi della propria terra, la idealizzano e, al tempo stesso, quando pensano alla realtà dei fatti, la svalutano ma, sempre e comunque, la amano.

L’idea che le giovani menti si formano della terra natìa è quindi mediata da meccanismi mentali che ne enfatizzano le caratteristiche positive e ne descrivono la “cartolina”, da un lato, e pongono l’accento sui motivi che li hanno portati lontani da essa e su come la loro terra è vista da fuori, dagli abitanti della terra che ora li ospita, dall’altro. Questi meccanismi vengono chiamati idealizzazione e svalutazione e, di solito, sottendono uno scompenso mentale che disorganizza la personalità di chi li esperisce, nel tentativo di dare un senso agli eventi che lo hanno portato nello status quo. La “Terra Mia” non ha vie di mezzo: o è perfetta o è demoniaca.

La causa scatenante che porta la mente del giovane (e anche del vecchio) emigrante a vedere il mondo in bianco o in nero, e che scompensa l’organizzazione di personalità addirittura, deriva dal pensiero di aver abbandonato “Mario”, il fratello – figlio unico perso, figurativamente morto che rinasce nella mente e chiama suo fratello – anch’egli figlio unico – chiedendogli di tornare. Si genera così un conflitto interiore: da una parte il desiderio di ritornare in una terra idealizzata a mo’ di cartolina, dall’altra la consapevolezza di essere andato via da un posto svalutato e svalutante.

In quest’ottica il ritorno a casa per le feste comandate e per le vacanze estive rappresenta il giusto compromesso che tutti noi immigrati interni abbiamo a portata di mano per far fronte allo scompenso di cui sopra; una sorta di equilibrato che dà modo alla mente di fare pace con sé stessa, permettendoci di tornare a casa sotto l’euforia dell’idealizzazione che, dopo qualche giorno, cede il passo alla svalutazione; avere la possibilità di dare sfogo alle fantasie bianche e nere dà la possibilità di elaborarle sotto un profilo più realistico, che permette il ricongiungimento delle forze che ci tengono lontani dalla Terra Nostra ma che, in fondo, ce la fanno amare.

Ci sarebbero, poi, quegli emigranti esteri che vedono il ritorno solo nei loro sogni, ma questa è un’altra storia

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