
Il tema della rinuncia è di strettissima attualità, considerando le rinunce che abbiamo dovuto affrontare nel primo lockdown, quelle che stiamo affrontando oggi e quelle che si prospettano nel futuro prossimo (vedi Natale). Rinunciare vuol dire “fare a meno di qualcosa che si sente ci appartenga di diritto”, in tal senso va dunque distinta la rinuncia come scelta consapevole dalle conseguenze, a breve ed a lungo termine, che essa comporta. Difatti, scegliere di rinunciare alla partita di calcetto o di andare allo stadio, rinunciare alla passeggiata o all’aperitivo tra amici e, più in generale, rinunciare a qualcosa che ci fa sentire bene può dare, all’inizio, una sensazione di euforia derivante dalla percezione di essere stoici, di poter perseguire un obiettivo sublime (quello della salute della comunità) in luogo di un piacere individuale; tutti noi, chi più chi meno, si è affacciato al balcone, a cavallo tra l’inverno e la primavera di quest’anno, fieri di contribuire al bene comune all’insegna del motto “andrà tutto bene”. Tuttavia, lo stoicismo presenta il conto prima o poi! Perché sentirsi stoici è bello, ma rinunciare al soddisfacimento delle proprie esigenze, alla lunga, stanca. La progressiva chiusura delle diverse attività commerciali corre di pari passo con la progressione delle rinunce che ognuno di noi sta compiendo: dalle attività sportive e ricreative si è passati per Pasqua e Pasquetta, compleanni, anniversari, e chi più ne ha più ne metta. È possibile affermare che il processo di graduale rinuncia abbia potuto condurre qualcuno a rinunciare alla speranza che prima o poi tutto finisca, a rinunciare, insomma, a tutte le aree della vita. Questo è il meccanismo alla base del disturbo psichico che caratterizza la nostra era: la depressione. È un po’ come se il lockdown abbia costretto tutti a sperimentare il vissuto depressivo in modo diverso per ciascuno di noi.

Rinunciare a qualcosa vuole anche dire sentirne la mancanza; questo termine indica qualcosa che non c’è ma che potrebbe esserci. Freud affermava che l’uomo, fin dalla nascita, è alla ricerca costante di un “oggetto perduto da sempre” e che il suo ritrovamento consiste nella scoperta di qualcosa che non si è mai avuto; Lacan, in epoca contemporanea, elabora il concetto del padre della psicoanalisi postulando che questo oggetto, perduto da sempre, diventa l’“oggetto causa del desiderio”. Alla base della vita psichica, propria della specie umana, vi è, dunque, la sensazione di “mancare di qualcosa”, questa stessa sensazione conduce l’individuo alla ricerca di un oggetto che, non essendo mai stato in nostro possesso, diventa esso (o egli) stesso la causa del desiderio: il desiderio di conoscere, di apprendere, di crescere e di evolversi come persona e come comunità. E il primo passo in avanti dello sviluppo psichico avviene quando il neonato impara a rinunciare all’immediato soddisfacimento dei bisogni (inteso qui come nutrimento o interazione con la madre), e ognuno di noi ha imparato a farlo tra i 3 e i 10 mesi di vita circa.

Noi tutti, quindi, siamo alle prese con la rinuncia fin da tempi immemorabili! L’imposizione dall’alto, tuttavia, rende la mancanza, che esita dalla rinuncia, un concetto attraverso il quale ci si può facilmente adagiare nei vissuti depressivi visto che si rinuncia per il bene dello Stato. Un metodo efficace per evitare di chiudersi a casa e abbandonare ogni speranza (o noi che siamo entrati nella seconda ondata pandemica)? Desiderare: qualcosa, qualcuno…tutto! Purché si desideri.
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