Le misure di contenimento della diffusione relativa al Covid-19 hanno reso la cartina geografica dell’Italia una sorta di decorazione luminosa, anticipando di qualche giorno le luminarie natalizie e rendendo la celebrazione delle festività secondaria alla tutela dell’incolumità popolare (come giusto che sia).
La metafora più semplice è quella di un farmaco: quando vado dal medico e lui mi prescrive un medicinale, al suo interno trovo il foglietto illustrativo che, tra le varie, fornisce una lista di effetti indesiderati a cui si va incontro assumendo quello specifico farmaco; parimenti, la prevenzione della diffusione del Covid viene attuata “somministrando” alla popolazione il “farmaco” delle zone gialle, arancioni e rosse che, come ogni farmaco, ha i suoi “effetti indesiderati”.
E quali sono? Sono uguali per tutti?

Per rispondere a queste domande, è necessario considerare alcune delle tematiche affrontate in precedenza quali lo spazio, il tempo, la comunicazione e la famiglia; inquadrando la problematica in questo modo, è possibile avere una prima idea della sensibilità al rischio di sviluppare gli effetti indesiderati di cui sopra. L’effetto indesiderato per eccellenza è lo sviluppo di psicopatologia: la cronica limitazione delle libertà personali, pur se finalizzate alla tutela della salute fisica e della vita, ha delle ripercussioni sulla salute mentale che, in questi mesi, ha ricevuto particolare attenzione dalla comunità scientifica.
Ciò che rende complesso e articolato il panorama dei possibili esiti psicopatologici è il fatto che tutto il mondo sta fronteggiando un evento inaspettato e inusuale, assimilabile ad un evento stressante dalle caratteristiche traumatiche cronicizzanti. C’è differenza tra evento traumatico e trauma cronico o complesso: il primo deriva da un evento che accade e di cui si subiscono le conseguenze (cataclisma naturale, attentato alla vita, violenza eccetera), il secondo interessa un arco temporale dilatato, è un evento che dura nel tempo e produce delle conseguenze che vengono affrontate contemporaneamente al trauma stesso.
Per essere più chiari, sopravvivere al terremoto significa affrontare la scossa, capacitarsi di cosa sia accaduto e fronteggiare le conseguenze; sopravvivere al Covid vorrà dire aver affrontato lunghi mesi di esposizione al rischio di essere contagiati e, nel frattempo, capacitarsi di cosa stia accadendo per poter fronteggiare le conseguenze prima che l’evento stressante finisca. Su quest’ultimo evento, inoltre, bisogna considerare che, al rischio di essere contagiati, va aggiunta la capacità individuale di gestire le limitazioni alle proprie libertà: gli effetti indesiderati di cui sopra.

E così la fobia del contagio, l’ipocondria, il ritiro sociale, la compulsione alla sanificazione legata all’ossessione di evitare il contagio e tutto quanto sia assimilabile all’esposizione al rischio di essere contagiati si somma ai sintomi ansiosi in ogni loro forma, ai conflitti familiari, alla depressione, alla paranoia, ai disturbi del sonno e a tutto quanto possa essere collegato alla modalità individuale di far fronte alle limitazioni a noi imposte.
Leggendo tutta questa serie di sintomi scommetto di aver creato non poco disagio nel lettore, tuttavia questo è l’effetto che si ha quando, dopo un pasto ricco di portate come quello che ci apprestiamo a fare in onore e memoria della nascita di Gesù (anche se con limitazioni sul numero di commensali), legge la voce degli effetti indesiderati del bugiardino di un antiacido prima di assumerlo: anche un banale Malox alla fine del cenone può portare a complicazioni mediche serie, vuoi vedere che un “farmaco” che prevenga l’insorgenza del Covid (mica pizza e fichi) non abbia una voce “effetti indesiderati” di quelle da farcela fare addosso?

Certo, potremmo parlare della modalità di comunicazione delle misure adottate, della mancata distinzione tra comuni grandi (vedi Roma) e comuni piccoli (vedi Andretta) e della maggiore esposizione ai suddetti effetti indesiderati che tale mancanza, unita alle altre, ha comportato in famiglia e nella società; ritengo invece, che sia più opportuno evitare di sfogare l’ovvia aggressività che si è cresciuta in noi proiettandola all’esterno e dando la colpa a chi “poteva fare meglio” perché l’iniziale sensazione di appagamento che poggia su di una base per nulla solida, cederà subito il passo a nuovi sintomi psicopatologici che faranno da serbatoio a nuova aggressività. Meglio provare a sublimarla questa aggressività, cercando di scorgere la sensualità dell’eterno pigiama indossato dal partner o progettando un tour di concerti non appena la pandemia finirà…perché, come diceva Eduardo, adda passà a nuttata.

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