Gli anni passano, ma non rappresentano un intoppo, almeno non ancora. Le trasformazioni del corpo e dell’animo si fanno ancora più evidenti. L’anno è il 2006, l’isolamento, per lo meno quello totale, è finito. L’Italia di lì a qualche mese avrebbe vissuto attimi di euforia grazie alla vittoria del mondiale che ci avrebbe portato sul tetto del mondo, ma in quel momento eravamo anche al centro di una parte della provincia.
La scuola, che ancora in quel momento rappresentava gran parte della nostra esistenza, era il liceo. L’affrontavamo con molti rimpianti, complici le fortissime restrizioni e un sistema di insegnamento per niente valido. Ma era anche il centro di raccolta dei numerosi altri giovani. Convergevano tutti lì dalle diverse parti dell’Irpinia. Condividendo noie, amori e bocciature, ma anche e soprattutto le prime consapevolezze politiche, sociali e musicali.
In quegli anni il pallone perde la sua egemonia e la crescita della consapevolezza della città comincia a seguire un altro oggetto, la chitarra. La si porta sempre in spalla, soprattutto nelle belle giornate di fine settimana, durante le scampagnate e in tutte l’estate.
I luoghi non sono più costituiti dagli ampi spiazzali, ma sono più appartati e più marginali. La villa diventa il centro di tutto. Gli spalti il luogo migliore per passare intere giornate a suonare, mentre si beve e si fuma.
La chitarra diventa l’oggetto di riconoscimento tra i gruppi di amici e per certi versi anche di esclusione. I generi musicali creano comunanza e coesione all’interno del gruppo stesso.
La chiave per un luogo temuto dai più piccoli, disprezzato dagli adulti e incompreso da molti. Nel 2006 ogni chitarra divenne la chiave alla nuova geografia cittadina degli adolescenti.
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