
Tra qualche settimana ricorre l’anniversario del primo lockdown: una condizione mai sperimentata prima su scala sia nazionale che mondiale, la quale ha limitato le nostre possibilità di spostamento e ha rimodulato le priorità essenziali alla sopravvivenza. Questa immobilità forzata ha alimentato le insicurezze individuali, amplificandole; contemporaneamente ha normalizzato alcuni comportamenti che prima si ritenevano indizi di patologia della mente, basti pensare alla pratica del lavaggio delle mani che, fino a febbraio del 2020, era considerata una prassi igienica se limitata, sintomo di una compulsione se praticata con le modalità e i tempi raccomandati in tempi di pandemia.
L’altro grande aspetto che la pandemia ha posto al centro dell’attenzione è il bisogno umano di socialità, sia essa l’incontro con gli amici, la passeggiata per il centro città o il semplice passaggio su di un marciapiede affollato. Il tema del viaggio può essere inquadrato come una continua scoperta di parti di sé in relazione con persone diverse da sé stessi, il che, fino all’anno scorso, sembrava un concetto scontato. Oggi invece, migliaia di persone che vivono soli a casa e che sono state costrette a rimanere isolati da qualsiasi forma di relazione vis à vis sanno bene cosa significa relazionarsi con sé stessi e con persone diverse da sé. Paradossalmente, infatti, ci si scopre solo quando ci si rapporta con le persone, mentre parlare a sé stessi può aiutare a chiarire alcuni aspetti di sé o a prendere una decisione sulla base di quanto appreso in precedenza, ma non è una buona pratica per scoprirsi o per capirsi meglio e, come si pensava per il lavaggio delle mani in tempi di pandemia non sospetta, se esasperata indica una forma di disagio mentale.

Viaggiare significa recarsi in posti poco o per nulla familiari, magari visti in tv o su qualche rivista, ma mai visitati di persona. Trovarsi in un posto del genere pone il viaggiatore in una particolare condizione mentale in cui si è aperti alla novità proprio perché la certezza di chi visita un luogo è che tutto è nuovo: dalle strade alle persone. Le abitudini locali, la lingua (inflessione italica o lingua straniera che sia), la cucina e ogni cosa che caratterizza la meta del viaggio obbligano il viaggiatore a cambiare atteggiamento e modi di fare, ponendosi in maniera differente rispetto a come si comporta nei luoghi in cui vive abitualmente.
Rileggendo l’ultima frase mi sono reso conto che poteva sembrare un’ovvietà; “paese che vai, usanze che trovi”, “chi non viaggia non conosce il valore degli uomini”, “dalla valigia si conosce il forestiero” eccetera: esiste una mole di proverbi e modi di dire sul viaggio che lasciano trasparire la consapevolezza popolare dell’importanza del viaggio. D’altra parte l’impossibilità di poter viaggiare, il cui concetto estremizzato al massimo è il lockdown stesso, ha in un certo senso sbiadito il significato della mole di conoscenza popolare sul viaggio, rendendolo una chimera attualmente irrealizzabile e, di conseguenza, idealizzandolo quale simbolo di una libertà e di una normalità riconquistata. Il modo di dire più utile al mio modo di concepire il viaggio, però, si rifà alle mie origini perché, benché ne esista la versione in italiano, l’ho imparata così da bambino: “Chi lassa a via vecchia p’a via nova, sape quillo che lassa e nun sape quillo che trova”.

Dopo un anno in cui ciascuno di noi ha percorso “a via vecchia” obbligatoriamente e in maniera ricorsiva, quasi automatizzata, il desiderio di non conoscere “quillo che trova” diviene un appiglio a cui aggrapparsi per attendere la fine dell’angoscia conseguente alla pandemia. La ruotine obbligata ci ha condotto verso una relazione automatica con noi stessi che ci ha permesso, anche se malvolentieri, a conoscerci meglio senza la possibilità di trovare una soluzione ai nostri problemi. Tali soluzioni, infatti, si trovano nell’incontro con l’altro da sé che, quando è straniero in terra propria e ci accoglie in qualità di viaggiatori, ci pone in una condizione di svantaggio iniziale che ci obbliga a comportarci in modo più aperto del solito, permettendo di conseguenza di apprendere di più dall’esperienza di relazione rispetto a quelle che si possono avere con i propri compaesani proprio perché, durante un viaggio, si sente il bisogno di apprendere di più dall’esperienza, consapevoli di essere stranieri in terra d’altri.

Un proverbio cinese recita: “La persona che parte per un viaggio non è la stessa persona che torna”. Un altro, arabo, invece: “Chi vive vede molto, chi viaggia, vede di più”. In fondo, stiamo tutti aspettando di riscoprirci.
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