Le belle giornate invernali ad Atripalda sono riconoscibili sin da subito, dalle prime luci del mattino. Il sole, vigoroso, colpisce gli spigoli e le punte dei palazzi, dei balconi e dei tetti. In quel momento inizia la giornata di tanti e tra questi anche quella del sottoscritto. Un insieme di azioni, abitudinarie, quasi ritualizzate che mi accompagnano in casa prima di raggiungere la porta e conquistare così la strada. Ci sono cinque piani che mi separano dalla strada e in quei cinque piani di scale, ogni mattina cerco di preparare il mio futuro prossimo. Pochi secondi, meno di un minuto, per definire un’intera giornata. I piani diminuiscono e mi avvicino sempre di più alla strada.
Finalmente arriva, il momento in cui apro il portone per uscire di casa. La luce ha toccato l’asfalto e sono consapevole che, salvo in rare occasioni, sarò sempre secondo in questo stupido giochino. L’aria del mattino è fredda e rigenerante, se ne accorge subito il mio corpo, o meglio se ne accorge subito quella parte di viso direttamente esposto alla luce mattutina. Un momento di inconsapevole riscoperta. Come per gli spigoli e le punte dei palazzi, anche il nostro corpo risente dell’azione dell’ambiente esterno e lo percepisce in maniera diretta e non, a seconda della quantità di abiti che indossiamo per proteggerci dall’insopportabile freddo umido. Proprio lì riesco sempre a stupirmi dell’insensibilità che la mia bocca e il mio naso hanno a tutto questo processo. Ci metto qualche secondo per ricordarmi che una motivazione c’è ed è dettata dalla mascherina che ormai indosso per almeno 8 ore al giorno.
In quell’attimo, mentre cammino per andare in ufficio, ricordo quelli che sono stati gli ultimi mesi: la sensazione di spaesamento, una costante anche quella, dei primi giorni di marzo 2020, del silenzio irreale in pieno giorno, di una collettività ricercata sui balconi, dell’estate volare e dall’apprensione scaturita dopo aver appreso di essere positivo, tramutatasi in paura per quei contatti stretti e quotidiani riassumibili nella mia famiglia. Ma in quell’interminabile attimo riscopro anche una grande assenza, riscopro l’incapacità nel definire un futuro.
Le fredde mattine invernali mi portano sempre a questo punto a ricordare che di futuro abbiamo smesso di parlare, ma soprattutto abbiamo smesso di reclamarlo. Dopo un anno, sotto questo aspetto, nulla è cambiato: generazione dimenticata e precaria. Siamo diventati la generazione degli inoccupati, molti di noi non si possono nemmeno permettere il lusso di essere disoccupati, e degli eterni in formazione. Richiamati sempre alla responsabilità e al sacrificio con la promessa di essere finalmente ascoltati, rimaniamo eternamente giovani.
Una condizione questa che si ritrova in ogni sfera del mondo e che porta a conseguenze ben più ampie. Un requisito che poi porta ad esclamare ad alcuni, non senza una punta di disprezzo, “Dove sono i giovani?! Nessuno più si interessa della città, le nostre piazze sono morte, i nostri spazi escono sconfitti. I critici borbottano: le cause sono queste e quelle (esclamerebbe un famoso poeta russo)”. Ebbene i “vostri” giovani sono in qualche azienda a farsi sfruttare per una misera paga, a lavorare a cottimo, sono costretti a sorridere dentro un negozio con turni massacranti, sono dietro un pc ad ammazzarsi la vista, sono eterni concorsisti e via dicendo. Ritornano a casa, poi stremati. Vorrebbero dire e fare tanto sul futuro delle nostre città, ma restano sempre in bilico tra il mondo del lavoro che richiede sempre più sacrifici, consegnandoli comunque ad una incompletezza semi-permanente, e una città spesso sospettosa verso ogni azione.
Arrivati a questo punto dovrei giungere alla conclusione, ma come ogni bella giornata invernale che si rispetti anche io sono arrivato all’ingresso dell’ufficio e devo pensare al presente, al futuro ci penseremo poi…
0 commenti