Sono bloccato in mezzo alla strada. Da giorni infiniti non ho più un obiettivo, neanche guardare un porno russo nel cuore della notte. L’unica attività che mi suggerisce un eco di vita è osservare gli altri darsi da fare per vivere qualcosa che possa essere definita vita. Lo stipendio a fine mese, qualche post interessante sui social oppure la ricerca dell’anima gemella: io, invece, ho rinunciato a tutto.
Trascorro le giornate a rivedere film già visti in modo tale che posso distrarmi evitando la maledizione dei sensi di colpa. In questo momento ho riavviato il nastro dell’ennesima commedia con Adam Sandler e sento il respiro finalmente un po’ più lungo. Le disgrazie del mondo sono lontane dalla mia stanza, almeno per oggi.
Ora stacco di telecamera sui ricordi resistenti alla mia depressione (parola della settimana): il primo romanzo a cui non è seguito più un cazzo, le foto di me con i capelli intento a catturare il tramonto per dedicarglielo, le poesie scritte ovunque, i dischi impolverati, le penne con i tappi morsi dalla rabbia.
Io non so cosa sia accaduto, ma so che ad un certo punto ho smesso di agire. Capita una mattina che ti alzi e non sai cosa vuoi per colazione. Ti accontenti di quello che c’è, è commestibile persino quella fetta biscottata rigurgitata dal cane.
Incomincia a pesare ogni passo, la vista ti si annebbia e senti soltanto che tutto ti scivola dalle mani. Non so spiegarvelo in maniera efficace, ma la scena è questa: tu incatenato ad una sedia in una cantina desolata e a turno rabbia, dolore, noia che ti torturano con ogni mezzo. Ed è inutile urlare, chiedere aiuto: le parole si bloccano in gola e se ti specchi puoi vedere la tua faccia che sorride.
È tardi anche per me. Sento le palpebre pesanti. Il buio è ad un palmo di mano da me. La stanza si sta raggomitolando su di sé. Qualcuno sta commettendo un delitto nel vicolo. Ma qui i supereroi sono sovrappeso ed alcolizzati.
Mi addormento con le mani in mezzo alle gambe. Lasciatemi in pace.
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