Instagram, Facebook, Twitter e tutta l’allegra comitiva del mondo social di internet ha creato un luogo etereo in cui ciascuno di noi si immerge con la sua identità, frutto dell’interazione tra esperienze di vita e caratteristiche innate come temperamento e sensibilità agli stimoli. Questo mondo permette a chi ne fa parte di mettere in mostra gli aspetti di sé che ciascuno dei partecipanti ritiene più importanti per permettere al resto della comunità di conoscerlo. Ma perché l’immagine proposta, spesso, si allontana così tanto da quella propinata nel mondo reale e tangibile? Tutto merito del narcisismo…o colpa!
Fin dalla nascita ognuno di noi è impegnato a costruire il mondo in cui vive attraverso la percezione dell’ambiente circostante: quando questo mondo assume una struttura abbastanza stabile (parliamo di un’età che si aggira intorno ai 3 anni) inizia quel processo di costruzione che camminerà in parallelo con noi fino alla fine: la costruzione dell’identità. Questo perché, in poche parole, durante i primi anni di vita impariamo, per prima cosa, che siamo un’entità distinta e fisicamente separata da nostra madre, dalla persona, cioè, che ci nutre sia concretamente che psichicamente. Difatti, oltre al latte, nostra madre ci insegna a pensare nel vero senso della parola e in questa sede sarebbe troppo lungo approfondire il concetto. Sta di fatto che la costruzione dell’identità prende inizio dal momento in cui ci si rende conto di poter fare cose anche lontani dalla mamma e, non a caso, questo processo inizia con la scuola materna, ossia, dal momento in cui entriamo in relazione con altri bambini. Se capiamo che siamo enti separati da nostra madre quando ci rendiamo conto che sappiamo fare delle cose in autonomia (per rendere l’idea, mi riferisco banalmente al momento in cui un bambino impara a mangiare da solo senza dover essere imboccato per forza), ci rendiamo subito conto che ci sono azioni accettate e altre no a partire dalle risposte che nostra madre ci fornisce.
Arriva un momento in cui le risposte materne non bastano semplicemente perché, intanto, il mondo è diventato più grande e si è popolato di altre persone. Per questo ognuno di noi sente di dover cercare conferma della bontà del proprio operato attraverso quello che la gente pensa di ciò che fa. Ma perché è così importante sapere cosa ne pensa la gente di noi?
La risposta sta nel fatto che, per completare quel processo di distinzione dalla propria madre, lo scatto in avanti è costituito in prima istanza dall’innamorarsi di sé. Mi spiego meglio: fino a un certo punto pensavamo fossimo una sola cosa con chi ci dava da mangiare, ci calmava per farci dormire e ci insegnava letteralmente a pensare; poi iniziamo a fare cose autonomamente e il semplice fatto di riuscire a farlo da soli ci piace e ci restituisce la sensazione di poter dominare il mondo (sì, a 2-3 anni ci si sente proprio onnipotenti solo perché siamo riusciti ad inserire il triangolo nel foro giusto del giochino); questa sensazione, perché ci piace, la ricerchiamo e proviamo ad aumentarne l’intensità, per questo abbiamo bisogno che nostra madre confermi la nostra teoria di essere onnipotenti (e lo fa ogni volta che ci dice “Bravooo” ad ogni minima cosa che impariamo a fare); quando il nostro mondo aumenta di popolazione proviamo a ricercare la stessa sensazione ma ci rendiamo conto di non avere a che fare con colei che ci nutre e ci calma e, quindi, impariamo ad ottenere gratificazione per quel che facciamo in modi che, col passare degli anni, diventano sempre più raffinati. Tutto questo polpettone serve a capire cos’è quello che qualcuno più bravo di me ha definito più di 100 anni fa narcisismo primario. Da quel momento la teoria, ovviamente, è cambiata e anche di molto, ma il concetto alla base rimane sempre lo stesso che ho appena descritto.
La gratificazione narcisistica sarà uno dei principali promotori dello sviluppo della nostra identità e sarà uno degli indicatori della forza della nostra personalità. Fin qui abbiamo parlato del narcisismo primario, quello buono per intenderci, non il narcisismo che si può dedurre dal mito greco di Narciso. Quest’ultimo prende vita a partire dal narcisismo sano e se ne discosta per piccole caratteristiche che, coltivate nella psiche, diventano promotori di malessere psicologico. Se la ricerca di gratificazione è secondaria al compimento di un’azione finalizzata a modificare l’ambiente secondo un nostro obiettivo, quando l’obiettivo diventa soltanto quello di sentirsi riconosciuti come “bravi” dagli altri, in quel momento si passa dall’alimentare un narcisismo sano a uno patologico.
Il mondo dei social network permette di mettere in mostra le proprie opinioni in modo più rapido rispetto al mondo reale. La trappola, o meglio il trappolone social, risiede proprio nella facilità con cui è possibile pubblicare contenuti al solo scopo di ottenere un “Like”, un commento o un’interazione virtuale, lasciando in secondo piano ciò che dovrebbe essere più importante: esprimersi per apportare modifiche al mondo secondo un obiettivo prefissato.
I social network, di per sé, non sono intrinsecamente programmati per permettere l’autoesaltazione a tutti i costi. Il problema è che chi li ha diffusi non si è reso conto che il meccanismo alla loro base ricalca un processo mentale che sta alla base della vita psichica e della costruzione dell’identità; un qualcosa che noi operiamo senza nemmeno rendercene conto fin dai primi giorni della nostra esistenza, nessuno escluso!
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