Mentre la processione della Madonna illumina i visi di persone sfiancate dall’attesa di un miracolo, io, nella mia stanzetta umida, rimpiango ciò che non è stato: è la mia reazione dinanzi ad un fallimento, l’ennesimo della mia vita. E non voglio rispondere al mio amico che mi invita a guardare il bicchiere mezzo pieno e che tutto sta nella reazione. Io non riesco a dire addio ad un fallimento e costruire qualcosa di più forte. Ad esempio quando un terremoto travolge tutto, si progetta subito una città più resistente e magari più bella– tranne in Italia – e così ognuno di noi dovrebbe fare quando un’idea oppure un progetto naufraga dolorosamente. Ed invece io non ci riesco. Sto lì a darmi pugni in petto, a credere che sia giunta la fine perché le cose non sono andate come desideravo.
Alcuni lo chiamano masochismo, ma io mica ci provo piacere. Cioè forse un po’ sì, soprattutto quando mi porto la testa tra le mani e confido alla mia compagna che non è andata bene e allora lei mi abbraccia e se sono fortunato scopiamo anche. Ma non si tratta di masochismo, ne sono certo. Più probabile, invece, che la colpa delle mie reazioni sbagliate dinanzi ad un fallimento sia da ricercare nella pigrizia che echeggia con insistenza dentro di me e forse in altri miliardi di corpi. Attenzione, però: con il termine pigrizia non mi riferisco a chi non ha voglia di fare un cazzo, bensì a quella malsana dipendenza che abbiamo sviluppato nei confronti del “primo colpo”.
Soprattutto negli ultimi anni, ci siamo auto-imposti una regola: tutto al primo tentativo, vietato insistere e nel mentre collezionare fallimenti. Quindi ad un colloquio di lavoro, ad un test universitario, ad una relazione, non concediamo più nessuna seconda o terza possibilità. Se il primo tentativo va in malora non rimane altro che la depressione, gli occhi lucidi, le sedie in aria e l’inquietante insorgere di un profondo odio nei confronti della vita.
Dimentichiamo, colpevolmente, il nostro talento, il coraggio di abbattere i muri anche quando fuori e dentro è buio. Dimentichiamo, in particolar modo, che le cose belle per accadere hanno la vitale necessità della sconfitta. Il motivo? Credo, ma non ne sono certo, che le cose belle, così come le persone belle, richiedono il nostro meglio ed il nostro meglio arriva soltanto quando abbiamo assaggiato, magari con tanti calci in culo, l’altra faccia del successo: il fallimento. Il sapore amaro, il cosiddetto “peso in petto”, è necessario per far crescere quel fuoco irrazionale e meraviglioso che aiuta ognuno di noi a trovare la propria strada.
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