Concorso INPS– resoconto emozionale di una Scarpasciuota

Concorso INPS– resoconto emozionale di una Scarpasciuota

Fa caldo a Roma, nonostante siano le 6:30 del mattino, le strade che attraverso a piedi sono ancora coperte dall’ombra e ogni tanto soffia una leggera brezza. Mi mantengo ottimista, dovrò camminare per quasi 5 chilometri, zaino in spalla in quella che considero la Città Torrida più che la Città Eterna, per raggiungere la stazione di Tuscolana dove grazie ad una coincidenza troverò il regionale che mi condurrà a Fiera di Roma. Lì, insieme ad altri 6.000, parteciperò alla prima e seconda prova del concorso Inps.

È la seconda volta, in poche settimane, che percorro questa strada e anche se ricordo ogni piccolo dettaglio, decido per sicurezza, di non affidarmi completamente alla mia memoria e rischiare di mancare, per qualche strano motivo la coincidenza con il treno. Per questo, anche questa volta, decido di affidarmi, seppur svogliatamente, al navigatore.

Durata del tragitto: 45 minuti, ma non mi preoccupo, il mio è un passo svelto e in media riesco sempre a guadagnare 15 minuti sul tempo previsto. Attraverso e taglio in due strade, parchi e quartieri, mi lascio alle spalle il Pigneto, silenzioso come non mai per le mie orecchie e per il mio immaginario. Superato il ponte mi accorgo che manca davvero poco alla mia destinazione e come previsto dalla mia tabella di marcia, sono in largo anticipo.

Giunto in stazione il treno non è ancora arrivato, intanto sulla banchina del binario 5 c’è già una gran moltitudine di persone, per lo più viaggiatori diretti a Fiumicino. Loro non parlano, sono le 7 del mattino e nessuno ha voglia di dire niente, ma le grandi valige con le rotelle sono estremamente eloquenti e testimoniano la loro imminente partenza. Nell’attesa mi lascio raccontare da quest’ultime le loro possibili destinazioni, immagino i loro itinerari esotici, luoghi dove riposarsi da una vita di stanchezze per poi fare ritorno di nuovo a casa, sgobbare per un altro intero anno senza possibilità di uscita.

Ma tutto dura poco, giusto qualche minuto, il tempo di vedere in lontananza il treno che, in affanno, raggiunge la banchina. Sembra anche lui un essere senziente e sembra che anche lui abbia notato il cambiamento di clima, la leggera brezza di prima non soffia più, ora ha lasciato spazio ad un vento che si fa man mano sempre più caldo.

Alla fermata, intanto, siamo tutti pronti, mentre la voce metallica standard ci raccomanda cautela nella salita, io penso tra me e me che come per tutti i mezzi con le carrozze la regola è sempre e solo una “Non prendere mai le prime in ordine di arrivo! Sono sempre strapiene!”; non faccio in tempo a ripetermelo che sono già sul secondo vagone del treno che, ovviamente, risulta essere strapieno. Il sonno e la stanchezza sono talmente tanti che decido di infischiarmene e tento comunque la sorte, sperando di trovare qualche posto.

Lo trovo quasi a primo colpo. Dovrò stare stretto, in mezzo ad altri passeggeri, ma con buona pace della mia misantropia da viaggio, decido che è sempre meglio dello stare all’in piedi. La carrozza è piena quasi in ogni ordine di posto, ma non è silente come la banchina di pochi minuti prima, è piena di voci e soprattutto piena di accenti e cadenze.

Sono quasi tutte cadenze meridionali quelle che riesco a percepire, la stragrande maggioranza è calabrese e siciliana. Le percepisco distintamente, tutte parlano del concorso: un groviglio di voci ed esistenze, quasi tutte piccolo borghesi, sono tutte qui per il concorso INPS. Hanno trovato, lungo il tragitto, altre voci affini, accomunate, per di più, dal recente destino e così si confrontano nelle loro aspirazioni e nelle loro preoccupazioni, o addirittura, si raccontano. Provo ad ascoltarle tutte, ne sono attratto e non riesco a farne a meno. Qualche d’una parla delle materie d’esame, ma qualche altra comincia a parlare di altro ed è così che vengo attirato dalle voci di 4 ragazze che sono sedute vicino a me. Si sono conosciute in treno, dicono di essere calabresi e siciliane, ma nessuna di loro vive più nelle rispettive regioni. Per lavoro hanno tutte abbandonato le proprie città per altre. Ragionano tanto sulle prove di oggi, commentano (non senza qualche pregiudizio) l’impreparazione che, a loro dire, alcuni candidati hanno esternato sui diversi gruppi Facebook e Telegram. Le trovo quasi antipatiche, lontane da qualsiasi condizione di comunanza e solidarietà che ci dovrebbe unire, i loro discorsi risultano insensibili e a tratti qualunquisti. Una di loro dice “Tanto si sa  che alla fine dei giochi passano il turno i più ignoranti, quelli che tutte queste cose non le sanno!”. Ma il tempo di una fermata e i discorsi ritornano su di un altro binario. Adesso si raccontano i loro viaggi per arrivare puntuali a questo appuntamento. Tutte hanno dovuto prendere diversi mezzi e si sono dovute appellare, anche loro, a Santa Coincidenza, protettrice di tutti i viaggiatori. Sono viaggi di sacrificio, improvvisati alla buona e meglio, come i tanti che adesso in questa carrozza si raccontano e si parlano per poi non parlarsi mai più.

Intanto il treno è arrivato alla nostra destinazione e le carrozze, come per incanto, si svuotano. Una nutrita folla è lì ad attenderci, saremo in 6.000, 3.000 questa mattina e 3.000 questo pomeriggio. Ci guardano e si riconoscono. Mentre riparo sotto l’unica striscia di ombra possibile lo stesso groviglio del treno di dialetti e cadenze si libera nell’aria calda di Roma. C’è chi si incontra dopo 10 anni, come per due palermitani che colgono l’occasione per salutarsi e c’è chi invece ripete le ultime nozioni. Io tra i due schieramenti rappresento la maggioranza (silenziosa), non incontro nessun amico di vecchia data e non ho mai creduto ai ripassi dell’ultimo momento, così mi siedo a terra e decido di leggere le ultime pagine del romanzo di Erofeev, dopotutto quale momento migliore per leggere un poema ferroviario, se non questo.

Ma la mia solitudine dura poco, una voce da dietro mi chiama, mi rivolge alcune domande e gli rispondo come posso. È un ragazzo calabrese, mi rivolge alcune domande sulle modalità della prova, così gli racconto dell’andamento della prova di ieri (lunedì 18 luglio, nda). Mi accorgo che in queste occasioni basta davvero poco per entrare confidenza con gli altri e ci vuole ancor meno tempo per trovarsi a raccontare delle proprie esperienze. Capisco in breve tempo che sono in molti ad essere laureati in giurisprudenza e in economia, mentre sono pochi quelli che come me provengono dal mondo delle scienze sociali. Durante la chiacchierata viene fuori che è da una settimana che percorre lo stivale avanti e dietro per partecipare a diverse prove e selezioni. Lavora a Trento, ma è dovuto venire a Roma per la preselettiva, poi ha raggiunto Cosenza per un altro concorso ed infine è ritornato a Roma per queste due prove, prima di dover risalire nuovamente a Trento per lavoro.

Mentre mi racconta dei suoi viaggi, ripenso anche alle testimonianze raccolte qualche settimana prima, racconti che differiscono per le latitudini, ma non certo per i metodi. Quella volta erano stati i viaggi di una ragazza che in Sardegna aveva dovuto raggiungere Cagliari, prendere un aereo e poi svariati treni, o del siciliano che da Milano, dove lavorava, aveva preso il treno delle 5 per venire a fare le prove o della calabrese che da Catanzaro aveva dovuto fare diverse tappe per raggiungere Roma.

Sono le storie di questa generazione, in larga parte meridionale, impegnata in mille lavori e lavoretti, che si muove lungo la penisola, con poco preavviso, per partecipare a qualsiasi concorso. Una generazione che vede nel lavoro statale la sicurezza e la stabilità, antidoti contro ogni forma di precariato a cui è costretta.

Il tempo dei racconti dura poco, i cancelli si aprono, riusciamo solo ad augurarci buona fortuna. L’ingresso, come sempre è traumatico, quel poco di personalità tipica di qualsiasi ambiente urbano è completamente spazzata via. Cominciamo a passare tra metri e metri di nastro di delimitazione e insceniamo percorsi cervellotici come in aeroporto, mentre di fianco i responsabili della sicurezza ci richiamano alla serietà e all’ordine (temono infiltrazioni da un altro concorso). Passiamo un primo gate dove ci richiedono l’autorizzazione, raggiungiamo un padiglione dove ci consegnano una nuova mascherina e dove ci obbligano a posare tutti gli accessori che potrebbero essere d’intralcio ad un regolare svolgimento della prova. Anche qui siamo soggetti ad una serpentina snervante dove alla fine ad attenderci ci sono tre operatori muniti di metal detector è l’ultimo step per accedere ai padiglioni in cui svolgeremo la prova. È l’emblema del Non – Luogo, un’esercitazione celata ed inconsapevole alla burocrazia e alla spersonalizzazione.

Entrando nel padiglione di appartenenza mi ritrovo a dare le mie generalità ad un’ultima operatrice, la stessa mi darà un codice di accesso con cui poi potrò svolgere la prova. Superato quest’ultimo ostacolo i responsabili d’aula mi indirizzano al mio posto, mentre dall’alto e dai lati una voce ci scivola addosso raccomandando a tutti di usufruire dei servizi in questo momento perché in seguito non sarà più possibile. La cadenza è estenuante, si ripete spesso durante la lunga attesa.

Arriva, infine, il momento della prova, il silenzio è totale, l’agitazione e il panico di migliaia di persone è palpabile. Di tanto in tanto il rumore di qualche sedia spezza la monotonia, ma non c’è rumore che tenga, sono tutti intenti a sperare che la prossima risposta sia quella giusta e che con il suo punteggio possano raggiungere il tanto agognato esame orale, perché in fondo il concorso ci mette davanti alle nostre paure, a noi stessi e al nostro presente precario.

Il rifiuto!

Il rifiuto!

È passato un bel po’ di tempo da quando abbiamo scritto l’ultima cosa, ma vi possiamo assicurare che gli impegni degli ultimi mesi sono stati moltissimi e ci hanno costretto a sacrificare molto delle nostre piccole e modeste esistenze.

Nonostante tutto, in questi giorni ci siamo ritrovati virtualmente a discutere di come e quando riprendere tutto e la nostra amica Francesca Baciarelli, che insieme ad Alessandra cura Play ci ha servito un assist interessante: ha infatti proposto di parlare del rifiuto.

Ci siamo ritrovati tutti colpiti da questa insolita tematica. Crediamo che in questi due anni di attività una tematica, in qualche modo legata a una qualche accezione non positiva difficilmente è stata sviluppata da questo piccolo gruppo. Abbiamo, quasi sempre, sviluppato temi che, in qualche modo, cercassero di sviluppare una proposta o quanto meno una soluzione a quello che ci trovavamo ad affrontare.

Il rifiuto, ci ha spiazzato e ci ha attratto, al tempo stesso e ci ha portato a ripensare a quanti nel corso dei decenni sono ripartiti da un qualcosa del genere. Ci avviciniamo, con molta umiltà al pensiero negativo di cui scriveva Marcuse ne L’uomo a una dimensione (1964) e che parte da una consapevolezza simile.

Pertanto eccoci di nuovo in questo insolito e torrido luglio a parlare di rifiuto e di tutto ciò che vi orbita intorno.

Antonio Lepore

Andrea Famiglietti

La storia di una piccola cittadina e della sua aria

La storia di una piccola cittadina e della sua aria

«Lo senti, lo senti l’odore? Napalm figliolo, non c’è nient’altro al mondo che odora così! Mi piace l’odore del Napalm come aperitivo»

Tenente colonnello Kilgore – Apocalypse Now

Un vento freddo ha continuato a tirare in questi giorni in tutte le strade della città. Soffiando senza sosta e senza tregua, sulle bandiere tricolore, già sbiadite, rimaste esposte su qualche balcone dalla scorsa estate, tra le cime degli alberi ancora spogli, tra le strade strette e silenziose del centro storico, tra le vetrate malandate dei tanti palazzi cittadini. Continua a soffiare anche nelle infinite ed infinitesime piazze cittadine o nei grandi spazi aperti, anonimi come pochi, un tempo chiassosi e annoiati ritrovi di una gioventù che non c’è più e diventati sempre più un rifugio silenzioso di auto.

Un vento acre e pungente che si dirama nelle strade e nelle piazze di Atripalda, media cittadina, di una media provincia del Sud e ci prende tutti. Ci prende alla testa quando, rapidamente, risale le narici e quasi in contemporanea scende per la gola e ci lascia con un peso sul petto: respiriamo a fatica e ci costringe al silenzio o all’urlo disperato e ansimato. Due reazioni opposte, ma due reazioni di una stessa condizione.

Il vento di questi mesi, non è frutto di una questione atmosferica, non solo questo. In questi mesi il vento ha assunto un odore chiaro e definito e così Atripalda ha un suo nuovo odore, quello di una comunità frammentata, incattivita e priva di una qualsivoglia speranza.

Niente di originale per una cittadina, che ancora oggi, si nasconde dietro al suo passato perché incapace di lottare per un presente migliore e di costruire un futuro adeguato. E così ritornano aggettivi vecchi e che a tratti risuonano fastidiosi per chi vive tra mille difficoltà:

Atripalda, città del commercio, in mezzo alla recessione e alla crisi!

Atripalda, città della solidarietà, in mezzo alla calunnia e alla violenza verbale e sociale (di alcuni, divenuti tanti)!

Atripalda, città della cultura, dove la cultura deve essere un hobby che qualche giovane annoiato e frastornato dai fumi dell’alcool deve praticare negli anni scolastici a tempo perso, non certo un motivo di emancipazione lavorativa e vita!

Atripalda, città dei giovani, in mezzo a un fiume silenzioso che scorre in senso inverso al nostro fiume Sabato, (che a proposito, non se la passa tanto bene) e che ci consegna un’emigrazione spaventosa!

Mentre l’odore continua a spargersi nelle strade cittadine sempre più vuote, un luogo si riempie a dismisura nei giorni festivi della settimana: la piazza centrale. Vetrina di tanti fino a qualche anno fa sconosciuti ai radar geografici cittadini e che oggi si mettono in mostra, ricordandosi di far parte di una comunità che loro stessi hanno provveduto a frammentare e incattivire, ricordandosi di far parte di una città e dei suoi luoghi, fino a qualche mese fa sconosciuti. Incendiari in un conflitto, tutt’altro che a bassa intensità, dove si è tutti contro tutti.

E nel bel mezzo di questo vortice d’aria sempre più pungente, ci ritroviamo, in tanti, a fare i conti con un’esistenza sempre più difficoltosa. Cresciamo in spazi, fisici e simbolici, chiusi. Non esistono luoghi liberi dove incoraggiare l’aggregazione, non abbiamo la possibilità di creare occasioni di aggregazione senza percepire nell’aria (sempre lei) l’odore di qualche mefitico malessere, condito da quel tanto di malafede che vede nella voglia di far uscire in strada le persone un protagonismo che non ci interessa (e non ci compete). Sacrifichiamo le nostre esistenze individuali (è vero, nessuno ce lo chiede, ma lo facciamo per amore della nostra terra e di coloro che decidono di viverla) per restare e fare qualcosa. Non vogliamo andare via!

Ma quest’aria è troppo più forte di noi e si è già impossessata di tanti e ci troviamo sempre più fuori rotta.

Di questi tempi dovremmo lottare, tutti insieme, solidali gli uni con gli altri, contro una crisi economica (quasi ventennale) che ci ha reso tutti più poveri e disperati. Dovremmo lottare per portare avanti i valori e le ricchezze delle nostre diverse esistenze ed esperienze utili a battere nuove strade di rinascita culturale, sociale ed economica. Dovremmo lottare per ritornare in strada, tutti, e impegnarci direttamente per difendere i nostri spazi comuni dall’incuria e dall’abbandono, dimostrando che tutto questo lavoro può essere più efficace di qualsiasi telecamera. Dovremmo lottare per non lasciare più nessuno indietro, per far sentire tutte e tutti parte della Comunità, esaltando le differenze.

Dovremmo lottare per tanto, ma l’unica cosa che percepisco è sempre e solo quest’aria che continua a soffiare, anche dalle bocche di qualcuno.

Così mi ritrovo (costretto) a raccontare di Atripalda, una media cittadina, di una media provincia del Sud Italia di cui nessuno vuole sentir parlare.

Parlare di sicurezza in provincia

Parlare di sicurezza in provincia

Ho fissato per giorni la pagina bianca del mio computer, per settimane non sono riuscito a scrivere niente che avesse senso. Eppure sono sicuro che se dovessi parlare di sicurezza non la smetterei più, ma nonostante ciò non sono riuscito a scrivere nulla. Antonio, qualche giorno fa mi ha detto che il blocco dello scrittore (anche se non mi reputo tale) è un qualcosa che tende a verificarsi quando non ci si sente propriamente bene, quando i livelli di stress accumulati non ci consentono di essere lucidi al punto giusto per poter fare ordine ai mille pensieri che si rincorrono su e giù per la nostra testa.

Ha ragione Antonio!

Così ho deciso di affidarmi alla Treccani, un po’ come il Matto cantato da De André nel suo splendido riadattamento all’opera poetica di Edgar Lee Masters e ho cominciato a leggere e rileggere la definizione di sicurezza:

sicurezza: La condizione che rende e fa sentire di essere esente da pericoli, o che dà la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli, e simili.

La condizione che ci fa sentire lontani dai pericoli o la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi i danni, le difficoltà o le evenienze spiacevoli. L’ho letta talmente tante volte questa frase che alla fine le parole hanno cominciato ad assumere un significato diverso ogni volta e, non solo, hanno cominciato a risuonare così lontane.

Mi sono, dunque, chiesto: Ma chi sono io per parlare di sicurezza? Io sono lontano da condizioni di pericolo.

Ma poi ho focalizzato l’attenzione sulla seconda parte “rendere meno gravi i danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli, e simili”.

Le difficoltà sono tutte intorno e non bisogna arrivare in qualche zona diroccata per rendercene conto. Ogni giorno lo sento nelle voci e lo vedo nei pugni chiusi degli amici e dei coetanei con cui parliamo delle tante impossibilità: di non riuscire a trovare un lavoro dignitoso, di doversi accontentare di contratti e collaborazioni che tutt’al più ci possono portare 600 euro mensili che ci costringono ad essere eternamente giovani, di doversi reinventare quotidianamente, di doversi piegare ad una realtà sociale e culturale che ci vuole consumatori di esercizi commerciali e niente più.

Così mentre camminiamo in una strada secondaria della città, i miei occhi si perdono tra i raggi della ruota della vecchia bicicletta di un’amica e ripenso alle recenti difficoltà che ha dovuto affrontare per poter organizzare la sua prima mostra. Eccoci al punto, non più Esercito Industriale di Riserva, ma Esercito Socio – Culturale di Riserva, quelli di cui si scrivono grandi e belli articoli sui giornali quando da emigrati diventano famosi e affermati, ma che vengono criticati e sbeffeggiati se qui provano a dimostrare che la propria competenza in ambito culturale e sociale è anch’essa un lavoro e che pertanto merita e richiede rispetto. E dunque mentre ancora vago con lo sguardo perso tra i raggi della sua bici ripenso ai proclami dell’imbecille di turno che mi dice che forse per il paese è meglio una telecamera in più, che forse per una scritta su un muro è meglio la pubblica gogna e la legge del taglione, che questo significa sicurezza.

Per me sicurezza significa altro, significa dare a tutti la possibilità di vivere e poter costruire il proprio mondo nel pieno rispetto della propria e dell’altrui esistenza.

Mentre fisso per un’ultima volta questa pagina leggermente piena, ripenso a quel famoso diritto alla felicità che per molto abbiamo provato ad inseguire e a quanto sia ancora lontano dai nostri radar vista la nostra incapacità di parlare e pensare alla sicurezza degli individui in altre modalità.

E se parlassimo di sicurezza?

E se parlassimo di sicurezza?

Ci risiamo, abbiamo impiegato questo primo mese del 2022 per comprendere punti di forza e punti di debolezza di questa nostra giovane esperienza. Il risultato ci ha portato ad operare alcune scelte: la più importante è, senza ombra di dubbio, quella di dosare la nostra presenza e i nostri interventi.

Questo cosa significa? Non più una tematica ogni due settimane, ma una al mese e quale mese migliore per dare un nuovo inizio se non febbraio?

In questo mese breve (ogni riferimento ad Eric Hobsbawm non è per niente casuale) affronteremo una sola tematica. Vi promettiamo di farvi fronte con il solito impegno e la solita buona volontà. Speriamo di avervi come sempre, al nostro fianco.

Febbraio abbiamo deciso di dedicarlo ad una parola che spesso ritorna e spesso ritorna in diverse forme: sicurezza.

Siamo ben consapevoli della difficoltà che si legano ad ogni possibile discussione riguardante la sicurezza, ma ci sembrava doveroso affrontarla. Sicurezza è una parola che non è mai scomparsa e in quello che può essere considerato un dizionario collettivo italiano rappresenta senz’altro uno dei termini più in uso.

Non vogliamo, però, limitare il significato di sicurezza ad una sola ed univoca dimensione. In difesa delle nostre ragioni ci sono gli eventi recenti che riguardano i fatti di Milano del 31 dicembre, la morte del giovane Lorenzo Parelli, le proteste studentesche ad essa connesse, il nuovo servizio che la Bocconi ha presentato nei giorni scorsi e mille altri accadimenti che ci dimostrano come non smettiamo mai di parlare di sicurezza.

«La condizione che rende e fa sentire di essere esente da pericoli, o che dà la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli, e simili»

Partiremo dalla definizione che la Treccani dà di sicurezza per poi posizionarla nelle differenti dimensioni che ci competono. Non ci resta che augurarvi buona lettura.

Antonio Lepore

Andrea Famiglietti