Ad un certo punto ho smesso di darmi i cazzotti al petto

Ad un certo punto ho smesso di darmi i cazzotti al petto

È da tempo che non ci sentiamo. Come al solito avevamo promesso di aggiornarci presto ed invece il tempo è volato via. Come state? Io acciaccato, però resisto. È un gennaio uggioso, minaccioso e per certi versi preoccupante. I segnali, inclusi quelli politici, non sono incoraggianti. Persone che stimavo, me compreso, continuano a deludermi a furia di meme che non spostano di una virgola alcune convinzioni assurde delle persone. Non riusciamo a comprendere che non basta essere ironici, non è sufficiente ritenerci superiori a chi sbraita dalla mattina alla sera. E non è abbastanza nemmeno ripetere a cantilena slogan sbiaditi, più stanchi di certe madri di famiglia che di sera non sognano più: sperano soltanto che finisca presta, cosa non si sa, ma che finisca presto.

Io negli ultimi tempi ho commesso degli errori, ma da qualche giorno ho smesso di tirarmi cazzotti al petto. Sto provando a volermi bene, nonostante la fallibilità che in quanto essere umano mi scorre nelle vene. È stato un brusco risveglio il mio, convinto di essere immune da vizi e roba simile ed invece immune un cazzo. Tuttavia, superato lo shock iniziale, ho provato nei confronti di me stesso un senso di tenerezza, ho raccolto ciò che era rimasto e sono ripartito. Non so quale sia la meta e nemmeno mi importa, però i primi passi sono stati mossi e sono curioso di scoprire se e in quale lido approderò.

Ho capito che è lecito pretendere di più, soprattutto da noi stessi, ma ho sempre sottovalutato il tempestoso mare che vive tra questa aspirazione e la realtà. Ingenuamente credevo fosse sufficiente impegnarsi un pò, amare un pò, camminare un pò, lavorare un pò: insomma concedersi, ma tenendo sempre qualcosa in disparte, vuoi per pigrizia o per paura o per altre diavolerie. A furia di mal di stomaco e nausea, poi, ho compreso che questi tempi richiedono che tu, banalmente, ci sia al cento per cento. Ed ora voglio provarci, voglio tenere botta nonostante i motivi per mollare la presa siano sempre maggiori di quelli che ti spingono a vedere l’arcobaleno laddove ora si ammirano soltanto precarietà, desolazione e schifo.

In questi giorni all’insegna di tosse, influenza ed acciacchi vari, poi, ho avvertito un altro timore (oltre a quello della morte): quello di non essere più arrabbiato. Ho sempre creduto ciecamente nell’importanza sacrosanta di essere incazzato: ero convinto che fosse la benzina di qualsiasi cambiamento, a partire da quelli personali. Dopo aver smentito l’ipotesi legata agli aumenti, in me si è fatta spazio un’altra presunta verità: sono cresciuto – anche a cazzo di cane – e semplicemente sto iniziando ad essere stanco di sbraitare. La vera benzina di tutti i cambiamenti è la passione: quella di voler cambiare certi atteggiamenti, quella di raggiungere un traguardo sognato da bambino, quella di incrociare un paio di occhi e, per una volta, decidere di non tenersi tutto dentro. Certo, la passione include anche un pizzico di rabbia, però lasciamo spazio all’entusiasmo, alla voglia di ribaltare un pronostico già scritto, che ci vede perdenti su tutta la linea. Saranno i troppi antibiotici o l’assenza di sesso, ma voglio crederci.

Abbecedario di provincia: lettera B

Abbecedario di provincia: lettera B

Non sono mai stato bravo a capire quando fosse il momento di baciare la persona che avrei voluto baciare. Forse ora che ti vedo lì, con la spesa in mano e qualche pensiero in testa ti bacerei. E non so che tipo di bacio sarà, se quelli che poi uno si dimentica tra un servizio da sbrigare e le sigarette da comprare oppure un bacio che ti porti dentro, come se fosse stata l’imprevedibilità del destino più bella.

Ho sistemato anche gli occhiali sul naso, così da evitare infortuni fisici e qualche ferita sul tuo naso che non è perfetto ma nemmeno brutto. Però poi comprendo che non è il momento giusto, ma come si capisce quando arriva il momento giusto? Probabilmente quando si esauriscono le parole e comunque serve mettere un punto, come si fa con le frasi di senso compiuto.

Eppure qui non c’è un senso compiuto, non esiste alcun senso in un uomo immobile tra gli scaffali di un supermercato ad attendere che Dio o chi per esso gli dica “Vai, ora è il momento giusto, non puoi sbagliare”. Ed io inizio a sudare, vado in panico perché non so cosa fare, se avvicinarmi con una scusa e poi baciarti o in alternativa chiedertelo. Ecco, vigliaccamente potrei regalarti un “bonus bacio” che potrai consumare quando vuoi, tanto io sono pronto, ci sono sempre. Guarda, ti dirò qualcosa in più: anche se fossi in una pizzeria super buona e tu chiamassi io verrei. E direi al cameriere che non fa niente, che non cenerò stasera, che mi sazierei di baci, che sono poco calorici e comunque riempiono.

Ecco cosa c’è dietro ad un bacio (almeno nel mio caso): la paura che tutto svanisca, la preoccupazione che le labbra che desidero desiderino altro da me, che ce l’ho anche screpolate e forse sporche di cornetto. E quindi rimango qui, nel supermercato, a controllare se la frutta è fresca, se la merce è sistemata al meglio negli scaffali, se in fondo troverò il coraggio di baciarti ed uccidere menate mentali che però rendono più romantico un imbranato bloccato davanti ai biscotti mentre gli altri li stanno già smezzando con l’amore.

Abbecedario di provincia: lettera F

Abbecedario di provincia: lettera F

L’ho persa quando lasciai un posto vuoto sul pullman accanto a me per quello che credevo fosse un amico – anzi “l’amico” – e lui beatamente scelse di sedersi altrove. Mi sono convinto che non esistesse quando guardandola negli occhi le promisi che lei sarebbe stata casa ovunque fossi ed invece poi il mio cuore decise di affittare un nuovo monolocale.

E non ho creduto a lei quando avrei potuto afferrare qualche sogno che avevo tipo da quando iniziai a capire che essere gentili mi avrebbe consentito di ottenere una caramella in più dalla maestra. E probabilmente l’ho mandata a fanculo definitivamente quando chiesi a Dio un miracolo ed in cambio io avrei dato qualsiasi cosa, anche i miei fumetti preferiti. Certo, forse qualcuno di nascosto l’avrei tenuto, ma non lo so.

Un giorno, al parco, mentre inseguivo qualche canzone su Spotify, un bambino mi sorrise e mi lanciò un pallone. La prima tentazione è stata quella di buttare la palla altrove, così da insegnargli che non puoi avere fiducia nel prossimo, che prima o poi verrai tradito. Tuttavia non lo feci. Non so se siano stati quei denti ancora incerti oppure la sua espressione di bene, ma gli restituì il pallone, anzi iniziammo a giocare insieme. Mi piace pensare che in minima parte abbia contribuito ad abbassare il livello di cattiveria che ormai ci arriva fino ai capelli. E, cosa ancora più importante visto il mio egoismo, quel bambino mi ha salvato la vita senza saperlo.

Da quel giorno, come un neonato che impara a camminare, giorno dopo giorno, ho fatto qualche piccolo passo affinché si riattivasse quantomeno il dialogo tra me e la fiducia. Ad esempio, l’altro ieri ho lasciato il mio cane senza guinzaglio, libero di andare dove volesse. Ho temuto di essere abbandonato per l’ennesima volta ed invece stava lì, accanto a me, probabilmente ancora più felice.

Ho confidato ad un’amica di non essere perfetto come credevo e che a volte i pensieri che faccio mi fanno assai male e temevo che non sarei stato compreso. Ed invece mi ha fatto un sorriso talmente largo che ci entrava dentro tutta la mia anima. Ho rincominciato a fare ciò che mi piace perché senza fiducia in sé stessi diventa difficile vivere, diventa complicato tipo come quando lei sta vicino a me ed io vorrei il suo Capo Nord ma so che non sarà così.

Piccoli gesti, piccoli progressi, perché è difficile avere fiducia in questo mondo di guerra e carestia, è impossibile avere fiducia nelle persone che da un momento all’altro si scordano il tuo nome. Eppure voglio giocarmi questo azzardo perché l’alternativa fa male, fa molto più male chiudere gli occhi e credere che sia tutto già scritto, che sia tutto uguale.

 

 

Abbecedario di provincia: lettera D

Abbecedario di provincia: lettera D

Io che sottolineo ancora le frasi che preferisco sui libri e tu che appunti tutto sul telefono. Io che rido alle battute demenziali e tu a quelle ben costruite, raffinate oserei dire. Io camicia nei jeans e tu che ti affidi alla diplomazia dei colori. Io cioccolata fondente – quella che sto mangiando ora è buona, scrivetemi in privato che vi dico qual è – e tu i dolci classici, quelli che nonna preparava quando eravamo tutti assieme ed io ancora non avevo sui coglioni metà della mia famiglia.

Io podcast perché mi piace avere il controllo sulle cose: stoppare, mandare avanti, riprendere più tardi, come faccio con le persone, come ho fatto con alcuni amici: non so perché ma ora ti metto pausa, poi vedremo; tu invece la radio perché ti lasci sorprendere dalla vita, perché in fondo ti piace non sapere cosa accadrà dopo. Io che non sorrido mai (quasi mai) e tu che lo fai per me, anche nelle foto. Credo che un giorno un tale che ci ha visti assieme abbia detto che prima o poi mi sarei suicidato. Ma la mia non è tristezza, bensì ho il brutto vizio di pensare che sia tutto una perdita di tempo: la nostra storia, i progetti che facciamo, la fiducia che diamo alle persone e che prima o poi verrà tradita. Non so se sia pessimismo oppure residui adolescenziali.

Torniamo alla classifica delle differenze tra me e te. Io che ricordo tutto perché ho una tremenda paura della solitudine e quindi mi serve ogni ricordo di questo momento per tenermi compagnia; tu che hai la memoria di un pesciolino rosso e non può essere altrimenti per chi è sempre al passo con il presente: mai un passo indietro né avanti e questo si vede dai tuoi occhi sempre aperti. Io che odio il mare e non perché non sappia nuotare: è una questione di sudore, di bambini che urlano a perdifiato e di maschi sempre troppo fieri di sé; tu che ti confondi con le onde al punto che io vorrei essere mare per accarezzare in contemporanea tutto il tuo corpo: vuoi vedere che la mia nei confronti del mare è soltanto gelosia?

Io che ogni giorno combatto contro i miei mostri per non lasciarmi trascinare sul fondo e tu lo sai e non so perché corri questo rischio, quello di essere coinvolta anche tu in questa sfida mortale tra me e la vita. E dimmi, io ho mai corso un rischio per te? Forse quando ho deciso di acquistare delle Nike invece delle classiche polacchine. Così, giusto per vederti contenta.

La cioccolata sta finendo, maledizione.

Io che vorrei esserci e tu che ci sei.

Abbecedario di provincia: lettera R

Abbecedario di provincia: lettera R

Stavo in macchina. Il semaforo era arancione ma io ho inchiodato, preferendo non rischiare. Ho svoltato a destra e alla prima posizione utile mi sono fermato. Sono sceso dall’auto, mi mancava l’aria, ero tutto sudato, solo una domanda mi circolava in testa “Da quando ho smesso di rischiare?”. Non lo ricordavo più.

Probabilmente l’ultima volta che ho rischiato è quando qualche anno fa ho baciato una ragazza che non mi aveva lanciato chissà quali segnali. Finì con uno schiaffo e con me che raccontavo in giro che in fondo avessi una zanzara sulla faccia e che il fatto che lei non si facesse più sentire è perché i tipi tatuati e maledetti, dall’alba dei tempi, tirano sempre di più. Insomma, un po’ di colpa al destino ed un’altra ai gusti ambigui delle persone.

Da lì, da quel bacio assolutamente ricambiato (sto scherzando, altrimenti una mia amica crede che io sia serio e mi potrebbe dire “guarda che lì c’è una contraddizione), non ho più rischiato, nemmeno al bar, sempre “Negroni”, nemmeno al cinema, la scelta è sempre di un altro, nemmeno nella mia vita, immobile ad aspettare semplicemente che le cose capitassero. Avevo la barba che cresceva sempre di più, quasi a non voler rischiare nemmeno più la faccia, avevo il cuore che “ma guarda, questo ostacolo è bello figo”. Avevo un corpo enorme: era l’unico modo per sfamare una tristezza che ti divora da dentro, che ti fa credere che senza di lei tu non possa vivere.

Poi ho rischiato e ho messo incinta una scema (sto scherzando).

Eppure adoravo inseguire le onde, giocarmi il tutto per tutto con le persone e con i giorni, che mica sono infiniti. Poi, tra un amore sbagliato ed un successo professionale, accade il freddo dentro di te, le gambe pesanti e la mente annebbiata. La tua vita diventa una stazione, ogni giorno a salutare chi va via perché la promessa di restare qualsiasi cosa accada è soltanto un tormentone estivo, una foto di due innamorati sui social.

E incominciano i dubbi sulle tue capacità, le paure ti marcano a uomo: semplicemente quello che ti faceva stare bene ora ti fa male. E non c’è nulla di peggio. Inizi a cambiare con ossessione ogni canzone, ogni film, ogni persona, ogni luogo, ogni pensiero, ogni obiettivo, ogni sogno. Desideri soltanto che tutto finisca nel giro di un secondo così da poter dare ragione a quello che il mostro dentro di te ti suggerisce quotidianamente: sei al mondo per utilizzare esclusivamente il telecomando.

Poi un giorno, con le mani in tasca, ti affacci giù e noti che quei calzini non si abbinano ai pantaloni, però ‘sto fatto ti strappa un sorriso, è come se ti desse uno strattone all’anima. E decidi comunque di uscire, anzi li metti in mostra: è un piccolo rischio per gli altri, ma un grande rischio per te (semicitazione). Le cose grandiose, in fondo, iniziano sempre a caso, a cazzo di cane come direbbe qualcuno.

E da lì, a poco a poco, ho compreso che il rischio di vivere, tra tutti i rischi, è quello a cui dire sempre sì, ogni giorno, anche quando la ciorta ti gira contro, anche quando giochi al nascondino ma gli altri non lo sanno.