Parlare di se stessi non è facile. A volte si ha paura di scoprirsi, altre, invece, è difficile aprirsi agli altri. Con la diffusione dei social, inoltre, le nostre personalità vengono idealizzate, ingigantite.
I personaggi da incarnare sono tanti e si rischia di perdersi in se stessi; non è semplice essere il giusto prototipo dell’altro, allo stesso modo indossare una maschera in ogni occasione. Capita spesso di conoscersi sui social e di percepire dall’altra parte una persona diversa da ciò che è, a volte le violenze di genere possono nascere appunto da questi incontri a scatola chiusa. In questi casi la rete funge da gabbia dorata, da specchio per le allodole dove vengono concessi tutti requisiti per essere ritenuti rispettabili socialmente. Ciò accade in quanto la nostra vita è spesso frenetica e ci accontentiamo della superficialità; andare in fondo alle questioni, del resto, non è permesso dai tempi della nostra società.
L’altra faccia della medaglia è conoscere persone in rete che non fanno fatica nel mostrarsi per ciò che sono. In questo caso la rete è fonte di arricchimento e un monito verso quelle persone che hanno paura di mostrare la propria magia e la propria peculiarità.
A tal proposito, oggi vi propongo un pezzo dei Litfiba, ovvero “Mascherina”.
“Parlarsi in faccia è l’ideale e preferisco sia così
Le mezze parole mi fanno male e la tua maschera mi butta giù.”
Il rocker toscano esorta al contatto interpersonale, al contatto fisico. In questo pezzo viene evidenziata l’importanza dell’apparire senza maschere o disfunzioni di sorta. La realtà è importate ed è necessario conoscersi in fondo e non avere paura di vivere come si vuole e renderlo pubblico. Un pezzo di fine anni novanta, magicamente attuale e precursore di ciò che il nuovo millennio ci avrebbe donato.
L’estate: quella stagione fatta di forti sensazioni che ti trapassano lo stomaco per poi sfociare in occhi luccicanti ed in giornate che sembrano sempre sabato sera, tipo gli episodi di Dawson Creek.
L’estate era come un assolo di batteria, dove per un ristretto periodo dell’anno non ti ponevi limiti, dando importanza ad ogni ozio; dove ogni amore era consentito. La calda stagione però era anche un riff complicato che provavi e riprovavi in studio e che nei live facevi fatica a suonare, vuoi per timore, vuoi per difendere quella stupida reputazione da quindicenne che ti permetteva di essere accettato dal branco. L’estate ha scandito i primi baci, le prime delusioni, le vacanze in famiglia che ti sembravano la cosa più bella del mondo.
Oggi l’ estate è prendersi una pausa dal lavoro, fare una stressante settimana al mare, quasi invocando il ritorno a lavoro o una semplice pizza con gli amici in una di quelle dolci sere atripaldesi che inevitabilmente ti riportano indietro con la mente. Sarà retorica, ma da un po’ di tempo a questa parte, vivere tutto ciò non è più scontato ed una pizza con gli amici ha un peso specifico diverso, ti fa sentire vivo e perché notti fa tornare bambino in una lunga estate Atripaldese.
Le mie belle stagioni mi riportano inequivocabilmente nei primi anni 2000,dove il pezzo che mi è rimasto nel cuore è “La lunga estate caldissima degli 883”:
“Questo senso di festa che vola e che va
Sopra tutta la città
Nella lunga estate caldissima Questo senso di vita che scende e che va Dentro fino all’anima Nella lunga estate caldissima”
Il passato: un tempo indefinito, colorato di atmosfere malinconiche e di un prezioso mistero
Il passato è un grande bagaglio culturale che inconsciamente va a comporre il nostro DNA e spesso influenza le nostre azioni ed il nostro porci verso il mondo. Per quanto concerne l’ambito musicale possiamo dire che i tempi che furono hanno avuto lustro, splendore e spessore culturale maggiore rispetto a ciò che oggi ci viene proposto.
Ieri la vita era scandita da un tenore di vita tenue, i colori erano meno accesile nostre menti più libere e speranzose, ma soprattutto si viveva nell’ attesa di grandi eventi. La mia infanzia era segnata da ore passate al walkman con la speranza di riuscire ad ascoltare il pezzo desiderato.
In tal senso oggi vi propongo un pezzo che da un punto di vista di testo non ha troppo a che fare con la tematica di questa settimana. Tuttavia è una canzone che per me ha un valore emotivo importante e che rispecchia a pieno il mio passato.
Il pezzo che cercavo in radio per ore ed ore: “The Reason” degli Hoobastank.
Il passato è una risacca, bisogna affrontarlo con rispetto e gentilezza, va ricordato e non vissuto. Restare intrappolati nel passato è pericoloso e ci spinge a non vivere ciò che ci passa davanti e questo tempo perso non tornerà più, anzi, diventerà passato ancor prima di averlo vissuto.
Ci vorrebbero le canzoni delicate a cantare le donne, quelle che con gli occhi chiusi sogni mentre se li apri per un attimo ti accorgi che il mondo può essere anche fiorito all’improvviso.
Tuttavia, in questi tempi il gentil sesso è un peso, come quei pezzi di denuncia sociale che tutti acclamano, ma che nessuno ha il coraggio di urlare a gran voce. La verità è che le donne fanno paura, in quanto dotate di un “problem solving” che noi uomini possiamo solo invidiare. Hanno un’anima nobile. Una donna imbrunita dagli anni, avrà sempre una sensibilità delicata ed un candore eterno, come eterni sono i loro profumi.
La canzone di oggi: “Gesù Cristo sono io” di Levante.
Questo pezzo parla di violenza sulle donne a tutto tondo e credo sia un brano che rispecchi a pieno il mio pensiero. Il maschilismo è una forma di violenza, che mette nudo la fragilità e la presunzione di chi ne è carnefice. A questo proposito, vorrei accendere l’attenzione anche su di un fenomeno che la società a volte “dimentica”: la violenza sugli uomini; fenomeno sempre troppo stigmatizzato, tuttavia attuale e reale.
Dedico, quindi, queste strofe ad entrambi i sessi e spero che noi uomini possiamo davvero cogliere il meglio dalle donne e dalla loro grande forza di volontà e spero che le donne possano davvero capire che anche noi uomini siamo essere speciali e che le persone violente sono solo esseri che non sanno chiedere aiuto.
“…confessa che sei il demonio nella testa/ Che mi trascina sempre giù/ Confessa/ Che il paradiso non mi spetta/ Che non mi sono genufless*/ Che non mi sono genufless*/ Che da te risorgo anch’io…”
Oggi parliamo di minoranze, siano sociali, economiche e politiche.
Far parte di una minoranza non è sempre un accostamento negativo, infatti, nell’ambito musicale essere come pochi è spesso sinonimo di qualità e di particolarità. Non a caso l’artista che ho deciso di esaminare ha basato la propria carriera sulla diversità. Nel corso della sua lunga e prolifica carriera è stato estimatore della sperimentazione ed un capostipite della nuova musica pop italiana.
Il ballo del potere non è tra i pezzi più celebri di Franco Battiato, tuttavia porta con sé numerose chiavi di lettura. Sicuramente quella più evidente è il disprezzo che l’autore siciliano canta nei confronti dell’egemonia culturale occidentale e la violenza che la stessa compie ai danni di Paesi Meno sviluppati, i quali non vivo di ipocrisia e di false sacralità.
Lo stesso concetto lo potremmo portare nelle nostre realtà, dove troppo spesso chi vive nelle periferie è relegato ai margini della socialità ed è spesso dimenticato dallo Stato, non a caso tanti sono i balli del potere, balli che inscenano una deresponsabilizzazione cosciente.
«Ti muovi sulla destra, poi sulla sinistra Resti immobile sul centro Provi a fare un giro su te stesso, un giro su te stesso»
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