Distinti Est – una storia che nasce dalla provincia

Distinti Est – una storia che nasce dalla provincia

I primi ricordi del calcio in questo paese affondano nell’infanzia profonda.
Ricordo la scalinata che conduceva all’ingresso della Tribuna Terminio, ero così piccolo che la lunga fila di gradini sembravano condurre verso un Olimpo ancora per me sconosciuto.

Il campo visto dalla Tribuna Terminio.

Percorsi l’intero tratto mano nella mano con mio padre, uno dei pochi ricordi teneri dell’epoca. Avrò avuto all’incirca sei anni. L’occasione fu una partita di vecchie glorie, si ricordava il tempo della Serie A, una serata nostalgica per dimenticare il presente coevo, non proprio il più felice per i colori biancoverdi, ma comunque nulla rispetto agli anni neri che ci attendevano da lì a qualche decina d’anni.
Allo stadio con mio padre non sono mai più tornato, lui ci si era disaffezionato, io ero rimasto preda di una favola senza lieto fine, raccontata a metà.

Crescendo, col tempo ho assistito al fenomeno in disparte, dall’esterno: sarà stato il mio essere irpino solo a metà, sarà il mio tono un po’ meticcio, sarà il non essermi mai sentito totalmente di qui, sarà che a casa si parlava solo l’italiano e il dialetto l’ho appreso solo parecchio tempo dopo…ma il calcio qui è stato pane quotidiano e una squadra del genere diventa parte integrante del tessuto sociale del quale anch’io avrei volente o nolente fatto parte.

Ricordo nitidamente il murales sulla fontana nella piazzetta che ci ha visti crescere durante l’adolescenza: un lupo verde e la scritta 1912 che si stagliava imponente, a guardia di una fede imperitura.


Alle scuole medie guardavo con sospetto l’organizzazione delle prime trasferte, i cori scanzonati, il mito della curva. Ascoltavo i racconti dei miei compagni di classe che fecero carte false pur di assistere alla partita in casa contro il Crotone, io ero rimasto, da bravo ragazzino, chino sui libri. Fu attrazione e repulsione. “Lo stadio? Un luogo di disadattati” tuonava disilluso mio padre, ancora ferito da chissà quale grossa delusione giovanile.
Poi negli anni ti avvicini e guardandoti indietro capisci che la tua adolescenza non è stata scandita solo da studio matto e disperato, musica e cuore infranto, ma anche dai nomi che negli ultimi venti anni hanno impresso un marchio a fuoco nella storia della squadra e di
questo popolo.

Ricordo l’entusiasmo dei miei coetanei al solo scandire il nome del “Drago” Molino, gli occhi fieri con cui mio padre declama la formazione dell’86-87 a memoria, ricordo le auto provenienti da ogni angolo remoto d’Irpinia per assistere con largo anticipo alla partita, ricordo la fermezza con la quale la Curva sosteneva la squadra in casa e in trasferta, sfidando climi e legislazioni infami.
Ricordo l’entusiasmo per la Serie B conquistata, la voglia di farsi conoscere in tutta l’Italia, quella sensazione buona che ti faceva scandire a mezza bocca con una certa prudenza data dalla scaramanzia: “siamo noi. Stiamo tornando”. Ricordo una matta trasferta a Bari, Ricordo la sciarpata di Torino, così come la traversa di Bologna, limite invalicabile ai sogni
di una città intera che proprio ad essere così ”Enjoy!” non ce la fa, per mille motivi, nonostante qualcuno si stia impegnando per convincervi del contrario.
Il calcio qui, nonostante tutto, è stato sempre un roseo apostrofo poggiato sui guai infiniti di tutta la nostra comunità, lenitivo e coagulante sociale, collante tra generazioni tutte a modo loro disgraziate, forse unico fremito ancora capace, seppur con limitatissima capacità visti i tempi che corrono, di farci sentire vivi in una città sempre più dormitorio, dove essere giovani è sempre più spesso una colpa, non solo in tempi di pandemia.
Parlando con il fratello di una mia cara amica, mi tornano in mente le sue parole: “in curva durante i novanti minuti sei come in famiglia. Canti e ci credi davvero, magari anche a cose in cui non crederesti mai in un altro contesto. Lo sconosciuto in piedi accanto a te in quel momento diventa tuo fratello, non conta se poi non lo è per davvero o finita la partita
torna ad essere un perfetto sconosciuto come prima…è bello così”.
Nonostante ci siano momenti in cui mi guardo intorno, nonostante oggi parli dialetto correntemente (livello c2 rilasciato dall’ateneo più eminente per quelli della mia generazione, quello della strada) a volte qui mi sento ancora fuori luogo. Sostando da solo nei bar, soprattutto verso sera, davanti a un caffè a volte mi chiedo con malinconia dove sia davvero casa mia. Penso alla mia famiglia, al lavoro che non c’è, ai soldi sempre
troppo pochi, a chi se n’è andato via prima del tempo, ai sentimenti mai del tutto corrisposti, a tutti i guai di questo posto…e il dubbio rimane. Poi però penso a quei gradini, a quella scalinata, ai miei amici di una vita, all’esultanza e alle lacrime, alle gioie e ai dolori. E no, papà. Non è un luogo di disadattati. E’ forse l’unico luogo che quando sono stato in giro per il mondo, ripensandovi, mi ha fatto esclamare: si, io sono di Avellino.