Sì, lo so che fa caldo. E faceva caldo anche qualche anno fa, quando magari le tue lentiggini prendevano a cazzotti la tua voglia di uscire. Guardati ora, invece, che non vedi l’ora di vedere la tua faccia riempirsi di puntini colorati. Le cose cambiano, mia cara: ciò che ci faceva paura ieri, oggi ci strappa un sorriso. E forse è questo che mi aiuta ad andare avanti: la speranza di trasformare le mie angosce in qualcosa per cui valga la pena lavarsi i denti tutti i giorni.
Qualcosa da aggiungere ai film di Allen, alle canzoni solo chitarra che un pò mi danno sollievo, alle lettere che vorrei scrivere prima di crepare. Qualcosa che combaci perfettamente a quel centimetro che mi separa da un attimo di felicità. Qualcosa che mi dia la spinta per chiedere scusa a quell’amico, qualcosa che mi consenta di non perdere tempo in maldestri tentativi di vivere. Qualcosa che mi faccia guardare nello specchio e sticazzi della pancia, delle cicatrici che non mi ricordano chissà cosa.
Vorrei, un giorno, scendere un milione di scalini senza tenerti per mano, bensì vederti correre lontano da me per vedere se da lontano, forse, riesca a scorgere quel barlume di bellezza che tu, ostinatamente, mi doni ogni giorno. Forse è questo quel qualcosa per cui valga la pena lavarsi i denti tutti i giorni. Oppure è mia madre che si tiene dentro ogni sacrificio perchè il suo cuore è grande, più del mio egoismo. Forse quel qualcosa, in fondo, è il dolore che mi spezza in mezzo al petto, che però giorno dopo giorno allarga sempre di più i miei polmoni e sento l’aria che entra dentro ed io che sto bene.
Quel qualcosa, forse, è un cazzo di tramonto che ancora una volta riesco a fotografare e che mi fa pensare: “vedi tu che deficiente, il cielo mi ha dato un altro giorno ed io perdo tempo a rincorrere domande che non avranno mai una risposta”. Però poi mi dico che è banale come considerazione. E se invece quel qualcosa per cui valga la pena lavarsi i denti tutti i giorni è tutto qui? Cioè la consapevolezza che ogni giorno è una partita da vincere o da perdere: il pareggio no, che Dio si offende.
Avevo preparato un pezzo sul Natale. Poi, convinto da Netflix, ho rivisto la trilogia di Spiderman diretta da Raimi e ho cambiato idea.
***
Era il 2002, avevo 10 anni. Sovrappeso, zero amici, occhiali tondi a culo di bottiglia e capelli stopposi: queste le mie uniche qualità, oltre ad una sterminata collezione di libri e fumetti. Un giorno qualsiasi, però, mio cugino mi cambiò la vita.
«Ti va di venire al cinema a vedere Spiderman?»
«Si, certo».
Sembra una risposta di cortesia, lo so, ma credetemi se vi dico che dentro di me era tipo Natale quando ricevi proprio i regali che desideravi e sticazzi la fede e lo spirito natalizio.
Scusate un attimo ma non so come collegare i vari pezzi che ho in testa e quindi ve li scrivo di getto, tanto in questo periodo siamo tutti più buoni.
Innanzitutto quel film, quel Spiderman, è stata la carezza più delicata per chi come me ha subìto maledettamente la solitudine e a tratti l’emarginazione perché ritenuto diverso. Su quel maxischermo, infatti, ho visto che anche uno “sfigato” può essere speciale, che in fondo ognuno di noi ha qualche tipo di talento nonostante l’assenza di muscoli e di popolarità. Certo, il ragno radioattivo ha dato una grossa mano, ma sono convinto che Peter avesse già tutto dentro. Le soddisfazioni più importanti, del resto, le ha conquistate senza il costume.È stato sufficiente aver quel pizzico di convinzione in più, la stessa che ci hanno fatto tremare quei deficienti che ritenevano più da uomo il poster di Baggio invece che quello di un supereroe. Quel film è stata la rivincita di tutti noi sfigati e basta. E a qualcuno di noi ha salvato la vita.
In sala, poi, mi ricordo la meraviglia, lo stupore ad ogni scena d’azione, e la paura quando arrivava Goblin ed una parte di te sapeva che ora erano cazzi per tutti. Queste emozioni, nel corso degli anni, le ho smarrite un po’. Credo che la colpa sia mia, della vita spesso amara e delle continue distrazioni a cui ci abbandoniamo senza opporre un minimo di resistenza. Così, l’altro giorno ho staccato tutto e l’ho rivisto. All’inizio nulla, neanche un brivido e non nascondo di esserne rimasto deluso, quasi ferito. Con il trascorrere dei minuti, invece, qualche pelo ha incominciato a drizzarsi e alla fine mi sono ritrovato a tirare a cazzotti al cuscino e ad alzarmi dalla sedia in preda all’ansia. Non è mai troppo tardi per spegnere il telefono e ritornare umani.
E nell’angolo della mia camera, infine, ho rivisto quel bambino timido, impaurito e che si sentiva sempre in differita rispetto al tempo che viveva.
Ho avuto la tentazione di avvicinarmi e dirgli che fu stupido chiudere i fumetti nel baule, che dopo qualche anno sarebbe stato da “figo” la passione per i supereroi. Ma soprattutto gli avrei consigliato di non ascoltare gli altri, di lottare per le cose che ci fanno stare bene e che in qualche modo ce l’avrebbe fatta. Certo, Goblin ci ferirà, e anche assai, però ci si sopravvive, con amore e paura.
Ed invece ci siamo soltanto guardati, forse lui mi ha fatto qualche complimento per le conquiste in campo amoroso ed io, se ricordo bene, gli ho suggerito di tirarsi fuori la camicia dai pantaloni. Ci siamo sorrisi, questo lo ricordo bene, ed ognuno è andato nel suo universo. Sono convinto che troverà il coraggio necessario per non mollare.
Le persone poi scavalcano i giorni che viviamo ogni giorno per andare altrove. Accade all’improvviso, spesso con le mani incrociate e gli occhi lucidi, tra facce stanche e sigarette spente dal nervosismo, le sirene blu dell’ambulanza che si confondono con il cielo che rimane impassibile e tuttavia meraviglioso. E non è la neve a fregarsene, ma la morte, che ti piglia anche se tu stai per conquistare una vittoria tanto attesa oppure quando ti senti pronta per quel bacio sperato da quando l’hai visto passeggiare con quella sciarpa rossa. Ed è inutile incazzarsi, è rabbia sprecata, noi siamo umani e nulla più.
Allora scriviamo, cantiamo canzoni e fantastichiamo sull’altrove perché quello ci rimane: la speranza che siano altrove. Magari un luogo dove non fai caso alla gentilezza e all’ottimismo, dove le poesie brutte sono comunque un atto di coraggio perché è coraggioso pensare che si possa imbrigliare ciò che fa rumore nell’anima in parole. E se chiudo per un attimo gli occhi – spero che il mio turno sia ancora ben distante – immagino l’altrove come una distesa di idee diverse che convivono pacificamente e poi lì c’è un trampolino, buttati che ti farai male ma sopravvivrai e sarai più forte di prima. Una banalità, ma quanto vorrei crederci anche mentre viviamo questa vita così fragile.
Sono certo, inoltre, che nell’altrove la polvere sul giubbotto non esiste, le cose vecchie non sono vecchie e tu non dovrai preoccuparti di rivoluzionare l’armadio e quanto sei bella con quel jeans a zampa di elefante. La preoccupazione del futuro è una sciocchezza lì e c’è bellezza persino in un addio, magari con sotto Frank Sinatra che canta il suo nuovo pezzo.
Sto vaneggiando, mozzico pensieri e grattugio razionalità soltanto per sentire questo cuore pesante più leggero, almeno per un minuto, almeno per un attimo, lo stesso che all’infinito continuo a vivere senza di te, che sei altrove e non altroqui.
Vorrei che ti sedessi un minuto accanto a me e che mi sorridessi a squarciagola perché solo così riesco a mettere a tacere tutte le mie piccole paure quotidiane.
Intanto, però, ti confido che ho paura – parola della settimana se non si è ancora capito – di non essere all’altezza degli altri e se a volte in mezzo alle persone mi vedi in silenzio non è poesia né riflessioni ma soltanto il terrore di non piacere ad un cazzo di nessuno. E poi ho paura dell’acqua alta ed è un timore che supera di gran lunga la voglia che ho di nuotare lontano fino a distanziare tutte le rotture di coglioni della spiaggia. Ed invece ogni anno mi ritrovo a combattere quei granelli di merda che si appiccicano alla pelle e a nascondermi da chi ha un fisico più atletico del mio. A riguardo, ho paura di non cambiare mai, di essere sempre lo stesso. A volte nel letto, la sera, fisso il soffitto e vorrei piangere. Non mi sono mai iscritto alla piscina, non ho mai frequentato la palestra con dedizione: lo vedi che non mi muovo in nessuna direzione?
Inoltre ho paura di morire. Ne ho parlato anche con la psicologa che mi ha dato delle spiegazioni che non ho capito perché intanto avevo il naso che colava e già mi vedevo intubato a qualcosa mentre un medico, scuotendo la testa, urlava di averne perso un altro. Ora che ci rifletto bene, però, mi sembra che mi abbia detto, la psicologa, che questa paura dovrebbe spingermi a fare qualcosa di costruttivo, magari provare a realizzare un mio sogno: solo chi ha coraggio deve temere la morte; per uno come me, fermo e pigro, la morte, infatti, sarebbe soltanto un premio.
Ma a questo punto ti stoppo e ti chiedo: e metti caso che si realizzasse qualche mia aspirazione? Non so come reagirei, quasi sicuramente avrei paura che quel frammento di felicità possa bruciarsi troppo in fretta. Quindi meglio stare fermi, immobili, in balìa degli eventi.
Infine, oltre ad avere paura dei nani e dei maranza, ho paura di non riuscire a riconoscere quando sarà il momento di mettersi finalmente in gioco. Qualcuno, forse un amico, mi disse che ogni attimo è giusto per lasciarsi tutto alle spalle e provare ad essere una persona probabilmente migliore, sicuramente diversa. Io tremo all’idea di non farcela però dentro di me so bene che la paura è sinonimo di“incominciamo a camminare e fa nulla se dovessimo bere un po’ di acqua salata ma sai che bello i cavalloni che ti azzannano le gambe e le risate degli amici ad accarezzare il mare”. Quindi ho un sacco di paure però è giunta l’ora di non allontanarle, ma di abbracciarle e provare a convivere prima che sia troppo vecchio per imparare a nuotare.
I democratici di sinistra che ci spiegano dall’alto dei loro studi il fascismo e come si combatte. Peccato che le persone a cui si rivolgono non capiscono un cazzo dei loro spiegoni, probabilmente qualcuno nel frattempo sarà crepato di fame e non di fascismo. E certamente fraintenderete queste parole perché voi siete i più intelligenti, i più buoni, i più puliti, i più schifosi figli di puttana.
“Sono intorno a me, ma non parlano con me
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me
Sono come me, ma si sentono meglio”
C’è un politico che conosco che odia i poveri. La vedo la sua faccia quando incrocia gli occhi disperati dei più deboli, soprattutto quelli delle donne. Quanta meraviglia le donne disperate, ma questo non c’entra adesso. Il politico che conosco si crede scaltro, ma io sto alle sue spalle quando arriccia il naso appena sente la puzza di chi non ci arriva alla fine del mese. Probabilmente vorrebbe vederli scannarsi tra di loro per qualche spicciolo tipo serie tivvù coreana. Anzi, ne sono certo. È convinto/a, infine, che un segno della croce consentirà l’accesso diretto in paradiso. Spero che Dio esista.
“Mani che si stringono tra i banchi delle chiese alla domenica
Mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano
Altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano”
Poi ci sono io, che mi ritengo più intelligente degli altri mentre sono il primo dei coglioni. Per la questione del “pare brutto” spesso mi mordo la lingua invece di dire la verità. Se avessi un mezzo coraggio direi a quel mio amico che non è Gesù Cristo che deve perdonare tutti, altrimenti potrei incominciare a pensare che anche lui sia un benpensante come me. Direi poi a quello che fa volontariato che è un pezzo di merda perché senza lavoro ha tutti i comfort di una vita agiata. Vuoi vedere che il povero aiutato sia proprio lui? Alla mia psicologa, invece, confiderei che ho istinti omicida tipo Edmund Kemper nei confronti degli attimi che dovrei cogliere e non so perché. Forse ho paura che almeno un sogno possa avverarsi?
“Sono tanti, arroganti coi più deboli, zerbini coi potenti
Sono replicanti, sono tutti identici, guardali
Stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere
Come lucertole s’arrampicano, e se poi perdono la coda la ricomprano
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno
Spendono, spandono e sono quel che hanno”
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