da Andrea Famiglietti | Nov 17, 2021 | Caro diario
Sono state giornate incredibili, segnate da piogge intensissime, quelle appena trascorse. In molti dicono che abbiano portato l’autunno tutto in una volta.
Così, mentre in questi giorni di bel tempo ristagna l’aria calda che qualcuno imputa all’estate di San Martino, nella piccola piazza del centro storico di Atripalda l’autunno si è realmente lasciato annunciare e lo ha fatto affidandosi al suo tratto più distintivo, le foglie.
Un’innumerevole quantità di foglie morte ricopre il manto erboso, quasi volesse essere un’enorme coperta dai colori tenui. La piazza è vuota e silenziosa, come non accadeva da mesi.
Della sua storia recente è rimasto ben poco. Le panchine vittime, per una parte, del tempo e dell’erosione e, per l’altra, delle azioni degli incivili di turno, hanno comunque resistito più di tutti. Il gazebo, con i suoi colori un tempo accesi, ora sembra un punto buio ed isolato, quasi fosse estraneo all’intera piazza. Infine le mura macchiate di umido e recentemente imbiancate alla buona e meglio per cancellare alcune scritte.
Nel suo silenzio, ancora irreale, di queste mattine autunnali, mi è capitato di ritrovarmi proprio lì. I disoccupati inglesi passavano le proprie mattine a fissare i treni partire alla stazione, cosa fare se una stazione dei treni Atripalda non ce l’ha? Così, nei miei giorni di non lavoro, non posso nemmeno definirmi disoccupato (per lo stato italiano non sono mai entrato nel mondo del lavoro, anche se ho lavorato per 5 anni) mi ritrovo seduto su queste panchine al centro di questa piazzetta. Il luogo non è stato scelto a caso, è forse il luogo che più ha rappresentato le speranze e i fallimenti della mia città e della mia generazione.

Qui è rinata una città, anche se per poco, ma nello stesso luogo è morta una generazione, stroncata nel bel mezzo della sua fioritura. In questi giorni abbiamo deciso di interrogarci sul significato di fallimento e credo che il mio più grande fallimento sia questo: non essere riuscito a contrastare nel migliore dei modi tutti gli ostacoli che hanno portato alla conclusione di una fantastica esperienza. Un’esperienza questa che aveva riavvicinato i tanti, molti giovani, rimasti ustionati da una realtà difficile, a tratti ostile.
Il fallimento è stato aver illuso tanti amici che qui ad Atripalda (più in generale in una media provincia del sud) si potesse vivere coniugando aspirazioni lavorative e ambizioni sociali e invece ci siamo ritrovati ostacolati e ostracizzati.
Ma non è l’occasione per ripensare al solo fallimento personale, è l’occasione di ripensare a quanto questo sia stato il simbolo di un fallimento comunitario, che si porta strascichi ben visibili. Dopo 5 anni si piange ancora l’abbandono e la decadenza di questa piccola realtà, ma al tempo stesso si è pronti a criticare ed infangare ogni azione volta a contrastarla.
Da qui arriva una grande lezione: il fallimento di un’esperienza può rappresentare una lezione di vita, importante per il futuro, solo se si ha la maturità e la capacità di introiettarla ed elaborarla in maniera adeguata. Un processo che richiede fatica, autocritica e lavoro.
Così mentre sto seduto, da solo, in piazzetta capisco che, a fatica, dopo anni sto cercando di riprendermi da quel tipo di fallimento, provando a costruire di nuovo qualcosa. Mentre ci provo capisco di non essere solo e di avere accanto ancora alcuni di coloro che come me da quella esperienza sono rimasti segnati, nel bene e nel male.
Mi chiedo soltanto se chi, in quei giorni ha deciso di abbracciare un silenzio colpevole, stia facendo lo stesso percorso. Dopotutto continuo a credere che si possa ancora imparare dai fallimenti, ma bisogna avere coraggio e maturità per affrontare gli stessi senza sottrarci dalle nostre responsabilità passate e presenti.
da Andrea Cerrito | Set 27, 2021 | Lo sbriglialacci
Esattamente un anno fa raccontavo come sui giovani di oggi ci si scatarri su. In quell’articolo si parlava di violenza e aggressività e di come sia facile etichettare l’età giovanile come contraddistinta da queste caratteristiche.
Ma la gioventù non è solo questo!
Tralasciando il particolare, già menzionato altrove, per cui il sistema nervoso “giovane” non ha raggiunto la maturazione proprio in quell’area cerebrale dove si controlla l’impulsività eccetera, la gioventù di oggi risulta anagraficamente più vecchia di quella di un tempo. La questione riguarda quello strano spazio in cui la cultura della società influenza lo sviluppo individuale mentre, a sua volta, viene influenzata dalle nuove abitudini individuali nate in risposta al cambiamento della società: un polpettone nebuloso e confusionario dal quale è venuta fuori una nuova parola che indica una categoria di persone giovani, che un tempo non lo erano considerate più. Gli adultescenti.
Questa parola è stata ufficialmente riconosciuta nel 2014, quando entrò a far parte del vocabolario italiano con la definizione “Stile di vita di chi, entrato ormai nell’età adulta, continua a comportarsi da adolescente“. Non sembra essere chissà quale novità, d’altronde la storia di Peter Pan è vecchia di un bel po’; questa parola, però, sottende il cambiamento di una fase della vita figlio del progredire del tempo. Peter Pan era un singolo che rifiutava la società moderna e trovava rifugio nell’isola che non c’è insieme ad altri ragazzini che non volevano crescere, l’adultescenza è il prodotto della società stessa.
Mettiamo insieme l’allungamento del periodo degli studi, per chi li prosegue, la condizione lavorativa precaria che impedisce di raggiungere una piena stabilità economica nei tempi e nei modi di 20-30 anni fa (per chi decide di lavorare dopo la scuola dell’obbligo), il prototipo di “uomo&donna fighi” odierni, persone che ottengono ricchezza con minimo sforzo e che trattano il prossimo come una platea che attesta la loro bravura e bellezza, e aggiungiamo un pizzico di cultura mediterranea che tende a proteggere la prole ed a considerarla un bambino anche a 50 anni. Ecco, ora shackeriamo il tutto con il progresso tecnologico e l’analfabestismo funzionale e otteniamo una nuova fase della vita, di quelle che i padri delle teorie psicologiche non potevano nemmeno immaginarsi visto che ai loro tempi la gioventù finiva più o meno tra i 14 e i 18 anni e si diventava subito adulti. Una fase della vita all’insegna dell’incertezza, in cui l’ideale di sé che propugna la società guadagna milioni a suon di selfie e pubblicità per abiti firmati che, in quanto dato di fatto, è uno stereotipo con cui bisogna farci i conti nel bene o nel male.
L’adultescente è costretto a vivere in condizioni precarie perché se vuole accedere ad alcuni lavori per cui il concorso del 1990 richiedeva la terza media, oggi ha bisogno di una laurea magistrale più un mater post laurea e qualche anno di esperienza nel settore. Se poi vuole lavorare subito dopo la maturità (scolastica), deve fare i conti con la concorrenza accresciuta e la burocrazia maledetta. Per questo, prima di combattere per affermarsi come individuo separato dalla propria famiglia di origine e raggiungere quella maturità psicologica che richiede un senso di identità coeso e mirato ad uno scopo, questo nuovo tipo di giovane ha la necessità di appoggiarsi alla famiglia di origine che, nei Paesi mediterranei, tende da sempre a trattenere la prole in uno spazio esente da assunzioni di responsabilità oltre i tempi previsti.
E come accade sempre, c’è chi persevera nel tentativo di autoaffermarsi e supera l’adultescenza in modo equilibrato e chi invece rimane imbrigliato nella rete di questa nuova gioventù contemporanea.
da Antonio Lepore | Mag 12, 2021 | Abbecedario di provincia
All’improvviso su facebook un post su Blockbuster e per un attimo larghissimo ritorno ad essere quell’adolescente con i capelli spettinati di sonno e le sigarette rotte in tasca. Varcavo la soglia d’ingresso del punto vendita qui vicino sempre con meraviglia ed un pizzico di paura perché – esulta il boomer dentro di me – non erano tempi come quelli di oggi.
Se avessi sbagliato il film, non avrei avuto l’immediata possibilità di salvare la serata né probabilmente i soldi necessari per noleggiare un’altra cassetta il giorno successivo. Così, manco stessi all’ultima domanda di “Chi vuol essere milionario”, mi aggiravo con ansia tra gli scaffali. Scartavo immediatamente gli horror, i musical (dovevano estinguersi loro e non i dinosauri) e i thriller. Il “mio” reparto erano le commedie romantiche: cazzo che sbronza l’adolescenza. E ricordo nitidamente che prima della cassa era obbligatorio affrontare il tunnel delle leccornie: snack americani ed eccessivamente giganti, patatine al gusto di tutto che i miei occhi provinciali non avevano mai visto e gadget inutilmente necessari. Credo che Blockbuster sia stato la sintesi di ciò che è stata la mia, la nostra adolescenza: scelte un po’ a culo e quotidiane attese.
Non avevamo la possibilità di leggere recensioni cinematografiche né di poter switchare se la prima scena era già una rottura di coglioni. E quindi ci fidavamo di più del nostro istinto: la locandina del film, il consiglio dell’addetto (lì ho imparato ad avere maggiore fiducia nel prossimo), il rischio delle decisioni a pelle, un sentimento che poi negli anni abbiamo sotterrato sotto Tripadvisor e compagnia bella.
E le lunghe attese abbiamo detto prima. Sì, bisognava pazientare per rivedere una scena o per riascoltare la sua voce che il cellulare costava. Pure masturbarsi diveniva un lunghissimo percorso di piacere e non per doti nascoste bensì per colpa di quel maledettissimo modem 56K: sono quasi certo che le mie prime esperienze sessuali le abbia avute con un capezzolo pixellato malissimo (ma pur sempre eccitante).
Ribadisco, scelte un po’ a culo e quotidiane attese: questa è stata la nostra adolescenza, quegli anni che forse vorrei rivivere almeno per un giorno però se ci penso va bene così. Anche oggi è bello, magari se vivessimo più staccati dallo smartphone e dai pensieri altrui sarebbe ancora più bello. Lo so, sono parole che sanno un po’ di qualunquismo, ma nel mio cuore sono ancora forti le emozioni della scoperta, di quell’attesa per vedere le nostre facce l’una accanto all’altro dopo non so quanti giorni e la consapevolezza che è necessario anche sbagliare un film e andare a dormire. Troppo facile, infatti, aprire Netflix e avere subito una seconda possibilità. Mica è così la vita.
da Andrea Famiglietti | Feb 12, 2021 | Storia della provincia attraverso gli oggetti
Gli anni passano, ma non rappresentano un intoppo, almeno non ancora. Le trasformazioni del corpo e dell’animo si fanno ancora più evidenti. L’anno è il 2006, l’isolamento, per lo meno quello totale, è finito. L’Italia di lì a qualche mese avrebbe vissuto attimi di euforia grazie alla vittoria del mondiale che ci avrebbe portato sul tetto del mondo, ma in quel momento eravamo anche al centro di una parte della provincia.
La scuola, che ancora in quel momento rappresentava gran parte della nostra esistenza, era il liceo. L’affrontavamo con molti rimpianti, complici le fortissime restrizioni e un sistema di insegnamento per niente valido. Ma era anche il centro di raccolta dei numerosi altri giovani. Convergevano tutti lì dalle diverse parti dell’Irpinia. Condividendo noie, amori e bocciature, ma anche e soprattutto le prime consapevolezze politiche, sociali e musicali.
In quegli anni il pallone perde la sua egemonia e la crescita della consapevolezza della città comincia a seguire un altro oggetto, la chitarra. La si porta sempre in spalla, soprattutto nelle belle giornate di fine settimana, durante le scampagnate e in tutte l’estate.
I luoghi non sono più costituiti dagli ampi spiazzali, ma sono più appartati e più marginali. La villa diventa il centro di tutto. Gli spalti il luogo migliore per passare intere giornate a suonare, mentre si beve e si fuma.
La chitarra diventa l’oggetto di riconoscimento tra i gruppi di amici e per certi versi anche di esclusione. I generi musicali creano comunanza e coesione all’interno del gruppo stesso.
La chiave per un luogo temuto dai più piccoli, disprezzato dagli adulti e incompreso da molti. Nel 2006 ogni chitarra divenne la chiave alla nuova geografia cittadina degli adolescenti.
da Fabiana Carcatella | Gen 21, 2021 | La raccomandata
Cara Fabiana,
quando ero lì con te a Napoli, abitavo in periferia, tu ci abiti tuttora insieme a mamma e papà. Abbiamo sempre vissuto in periferia, prima Frullone, poi Chiaiano. Devo dire, che non mi è mai pesato, forse merito della metropolitana, forse merito dei nonni materni e paterni con casa rispettivamente nella Sanità e a via Marina. Insomma il centro di Napoli l’ho sempre vissuto molto. A parte le scuole primarie e secondarie, liceo e università le ho frequentate al centro, tutti i giorni della mia adolescenza/prima giovinezza li ho trascorsi tra vicoli affollati, opere d’arte a cielo aperto e profumo di pizza e sfogliatelle calde. Se proprio vogliamo dirla tutta per me il centro ha sempre rappresentato casa, la periferia un letto caldo dove dormire.
Poi è arrivato il trasferimento a Parma e i termini di paragone si sono ingigantiti. Non più centro e periferia, ma nord e sud. Su questi due termini la letteratura è molto ampia, i significati molteplici. C’è chi non vede alcuna differenza tra i binomi centro-periferia e nord-sud, chi li ritiene due facce della stessa medaglia, chi due opposti destinati a non avere un punto d’incontro.
Io! Mentre scrivo queste ultime tre parole, mi rendo conto che ora sono io il punto d’incontro tra nord e sud. Una napoletana che ha preso la sua valigia colma di vita partenopea e l’ha portata con sé al nord, ci ha riempito una nuova casa, una seconda vita.
Sì, perché diciamoci la verità, quando ti trasferisci in una nuova città, vicina o lontana che sia, non cambi la vita che avevi, ma ne dai inizio a un’altra. Quella precedente, soprattutto se ci sono ancora dei legami affettivi, è lì che ti guarda, che interagisce con te. Ogni tanto le si volta le spalle per essere più forti, altre volte la si abbraccia per cercare conforto.
La mia seconda vita è interessante. Sento la differenza tra nord e sud? Sì, la sento, è impossibile negarlo. Non sono, però, completamente convinta che tutta questa diversità sia dettata dal passaggio dal meridione al settentrione, o almeno credo che in parte non lo sia.
Certo, ci sono due cose che mi fanno percepire molto la differenza tra il vivere su e il vivere giù, entrambe non dipendenti dalla volontà umana. Sono il clima e il mare. Non ho mai avuto così freddo come qui a Parma e, mi dispiace dirlo, chi è nato tra le braccia del mare non si abituerà mai a questa immensa assenza.
Per il resto Parma è una bella cittadina, imparagonabile a Napoli per dimensioni e densità abitativa. Che i servizi funzionino meglio, che ci sia meno frastuono, insomma che la qualità della vita sia migliore è cosa ovvia quando c’è meno da gestire.
Il mio modo di vivere è decisamente cambiato, le mie abitudini lo sono. Il trasferimento in un’altra città ha coinciso con il passaggio alla vita adulta, all’abbandono del nido materno, e, di conseguenza, sono passata da una città frenetica a una vita frenetica. Ho dovuto imparare a gestire meglio il tempo, diviso tra casa, lavoro, relazioni e passioni.
Tanti cambiamenti, insomma, molti dei quali, però, non legati al fatto che io sia al nord. Tutto ciò lo avrei dovuto affrontare anche in una città siciliana, a Roma o, a dire il vero, anche a dieci minuti dalla casa natale.
Piuttosto, forse più che essere al nord pesa l’essere molto lontano da Napoli. È vero, con quattro ore di treno sono di nuovo da mamma e papà, ma il lavoro e, in questi tempi, il Covid spesso non lo permettono. Sì, qui ho più o meno creato nuove relazioni, ci sono i miei colleghi di lavoro la cui metà proviene tutta dal sud, ma stare lontani per molti mesi dalle persone a cui tieni, dagli affetti con cui sei cresciuta e che ti hanno vista crescere pesa. La differenza tra nord e sud e tutta lì.
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