Il tuo odore è ossigeno
Il tuo odore è ossigeno
Il tuo odore è ossigeno
Il tuo odore è ossigeno
È così insano
Dentro i miei occhi
Chi ami è un angelo
Che uccide se lo tocchi
(1995, Ossigeno, Afterhours)
Per questa puntata, a causa di alcuni miei abusi di sostanze alcoliche e di una quasi overdose di carboidrati dei giorni scorsi, ho optato per uno schema smart di Cinema-off e pizza.
Partiamo subito con il trailer originale, un piccolo esempio di come – decenni fa – si usavano gli stratagemmi più ingegnosi per attirare il pubblico in sala. E subito dopo troverete il link per poter vedere il film in italiano (vi consiglio comunque di recuperare il dvd della Sinister che è davvero ben curato). A chiusura, l’inutilità di tutto il resto. Questa volta ancora più in breve.
TRAILER INTERNAZIONALE (UN PICCOLO SPETTACOLO VINTAGE IN LINGUA ORIGINALE)
FILM COMPLETO (IN ITALIANO)
LO STRANGOLATORE DI BALTIMORA
TITOLO ORIGINALE:Chamber of Horrors ANNO: 1966 DURATA: 102’ GENERE: dramma, horror REGIA: Hy Averback SOGGETTO: Tratto da racconto di Ray Russel e Stephen Kandel SCENEGGIATURA: Stephen Kandel PRODUZIONE: Stati Uniti d’America CAST PRINCIPALE: Patrice Wymore, Marie Windsor, Tun Tun, Suzy Parker, Patrick O’Neal, Jeanette Nolan, Wilfrid Hyde-White, Laura Devon, Cesare Danova, Philip Bourneuf
TRAMA (GIUSTO IL MINIMO SINDACALE)
Jason Cravette non è uno stinco di santo, ha il vizio di uccidere giovani donne. È tanto cattivo quanto fortunato, infatti riesce a fuggire all’impiccagione. Una volta riacquistata la libertà, il nostro amico Cravette pensa bene di rimettersi all’opera in quel di Baltimora. Ad interessarsi del caso ci peserà una strana coppia formata da due appassionati di romanzi gialli e gestori di una sorta di museo delle cere dell’orrore.
APPROFONDIMENTI E CURIOSITÀ (MENO DEL MINIMO SINDACALE, GIUSTO PER GIRARCI INTORNO)
Lo strangolatore di Baltimora viene licenziato nel 1966 e possiede tantissimi punti d’interesse. È estremamente violento per l’epoca, decisamente crudo e diretto. Pur non essendo affatto originale è ben diretto e interpretato, anzitutto da un brillante Wilfrid Hyde-White, attore dall’infinta filmografia. Molto divertente la trovata pubblicitaria ad inizio film (che potete vedere anche nel trailer) chiaramente ispirata ai colpi di genio di William Castle (che un dio qualsiasi lo benedica): lo spettatore verrà avvisato da un suono di sirena tutte le volte che ci sarà una scena violenta. Ad annunciarlo William Conrad, amatissimo negli States per il suo tono di voce. Anche la lavorazione del film è particolare, si trattava dell’episodio pilota di una serie tv mai realizzata e uscita al cinema solamente per non sprecare il lavoro e l’investimento fatto. Pare che la produzione si sia tirata indietro a causa della violenza messa in bella mostra. Non a caso il regista, Averback, era uno specialista delle serie e della tv in generale (The Dick Powell Show, Hazzard, M.A.S.H. e Il tenente Colombo). Ripeto, il film non è originale ed è pieno di stereotipi e situazioni più che abusate per il genere. Ma forse è proprio in queste caratteristiche che risiede il suo fascino. Ne consiglio una visione collettiva con amici abituati a questo tipo di visioni.
ALTRE DUE PELLICOLE A TEMA (TRAILER ORIGINALI, DA PERDERCI IL RESPIRO)
Mi capita sempre più spesso, con una certa struggente nostalgia, di ripensare ai pomeriggi spesi in mezzo alla strada a giocare a calcio. O meglio, “a pallone”.
Perché forse di calcio, il nostro “pallone” ne sapeva e ne capiva bene poco. Ciò nonostante, ha saputo coglierne senza dubbio l’essenza più intima e profonda. E così passeggiando velocemente nei luoghi della mia infanzia ed adolescenza, non posso non rimanere sbalordito dallo squallido scenario offerto dal mio paese in semi-quarantena, già nato svantaggiato come una sonnacchiosa periferia di un capoluogo in tempi di pace, oggi ancor più mortificato dagli insensati ritmi di vita che ci sono stati imposti in questa pseudo-guerra.
In questa pandemia la voce dei giovani è rimasta inascoltata, come al solito in un Paese che da sempre ci ha guardato come fastidiosa ultima ruota del carro, da zittire sistematicamente, ma da accusare sempre e comunque se necessario, la mia generazione, capro espiatorio gratuito.
Mi sono chiesto dove fosse andata a finire la socialità, l’importanza dell’attività sportiva in gruppo, del crescere in mezzo alla strada anche per fortificare il sistema immunitari; mi sono chiesto dove siano finiti i bambini, gli adolescenti che una volta regnavano in strada. Ormai da mesi i campetti sono vuoti e già prima dell’infausto 2020 trovare un pallone arancione svolazzante nei nostri quartieri era diventato complicato…
Mi siedo su una panchina al gelo, sono solo come spesso accade di questi tempi. Ad un tratto ricordo. I profumi della primavera, il vociare degli amici, la corsa alle biciclette, i pantaloncini corti, il rumore del fiume alle due del pomeriggio. Con il gesso, sul muretto si tracciava la linea di porta, l’ampiezza del campo era definita da ciò che ci si trovava intorno: siepi, automobili, staccionate, ringhiere…
Su campi irregolari ed improvvisati del genere è cresciuta la migliore leva calcistica del nostro movimento nazionale. Le astrusità e le difficoltà di movimento affinavano la visione di gioco, la capacità di giocare nello stretto e di smarcarsi, veniva allenata la capacità sempre più rara di adattarsi a varie situazioni di gioco, climatiche ed ambientali. Non v’era traccia di arbitri, quando si cadeva a terra era fallo, invocato a gran voce dai compagni di squadra, tra i gemiti di dolore del malcapitato. Il mio ginocchio destro porta ancora sulla pelle i segni dei morsi dell’asfalto. Se giocavi allo scopo di fare male si scatenava una rissa potenzialmente infinita. Ma tutto si risolveva lì.
Il calcio nasce spontaneo, così come quei fiorellini primaverili escono fuori dal cemento. In un centro città, in un regolare campetto in affitto, all’oratorio, nel salotto di casa, tra i meandri di una pericolosa favela brasileira o in un Barrio di Buenos Aires. È lo sport che più mi ha formato, alcune imprese para-calcistiche della nostra infanzia sono ancora impresse dentro di noi, nella memoria collettiva dei miei amici di una vita. La rivalità tra quartieri, le partite interminabili, la corsa a casa a fare la doccia per poi tornare giù col vestito buono del sabato sera.
A volte senza pausa doccia si restava in strada in pantaloncini e scarpe rotte, con le biciclette al nostro fianco, come fossero fedeli Harley. Non ci vergognavamo di niente. Per noi la vera cosa importante era esserci ed essere. L’apparire era roba per chi non aveva capito. O forse, ahimè, in questo mondo aveva già capito tutto. Scorazzavano in tutta la città. Si sperava nello scambio di sguardi di una ragazzina o nella partita del giorno dopo. “Domani segno, me lo sento”. Si attendeva il giorno di festa, le giostre o semplicemente…che qualcosa accadesse. Nelle nostre vite o in quelle dei nostri amici. Ricordo dei tramonti visti insieme. Sapevano di immortalità e di incoscienza.
Sulla panchina comincia a fare freddo, è già buio. La mia mascherina mi occlude il libero respiro. Anche i pensieri sembrano censurarsi da soli.
Il calcio di strada ci ha insegnato a muoverci, a pensare lateralmente, ad adattarci, a vivere la vita.
Ho cancellato mille incipit di questo articolo. All’inizio pensavo che fosse soltanto colpa della scarsa ispirazione ed invece ascoltandomi ho capito che il problema è che io non so cosa siano i ricordi, la parola che avevo scelto per la rubrica più attesa di Scarpesciuote (almeno dai miei congiunti).
Dopo 28 anni di vita ancora non ho capito se i ricordi siano miei amici, o quantomeno cordiali conoscenti, oppure acerrimi nemici che quotidianamente attentano all’incolumità della mia precaria serenità. Dopo mille fatiche cerebrali, però, almeno una cosa l’ho capita: sono quasi certo del fatto che i ricordi, sempre, si stringono intorno al presente che stiamo vivendo e che la realtà ai nostri occhi cambia il proprio aspetto. E che in quel momento gli occhi nostri diventano gonfi. E nel cuore si avverte una dolcissima angoscia, anche se si tratta di quei ricordi stronzi che doppiati con una voce di merda – sì, ormai anche i ricordi parlano esclusivamente in inglese – ti dicono: “Oh, ma ti ricordi di quando eri felice e con le bollette da pagare ci facevi aerei che per esplodere non dovevano aspettare estremisti religiosi?”.
Quindi cosa posso aggiungere sui ricordi? Io al massimo vi posso cantà ‘na canzone. Però c’è un articolo da portare a casa e quindi devo sforzarmi di tirare fuori almeno una riflessione. Allora, partiamo dal principio: i ricordi sono essenziali, come il profumo di vaniglia che mia nonna aveva sempre sul collo e sui polsi. Se io fossi stato al posto di Clementine Kruczynski non avrei mai cancellato il vissuto insieme a Joel Barish. Perché qui forse c’è uno dei bandoli della matassa: ogni ricordo è un piccolissimo laccio che leghiamo alla nostra vita. Toglierne uno significa smantellare tutto e come direbbe mio nonno “non sta fatto bene”.
E quindi ben venga quando sul balcone, oggi si sta proprio bene (peccato per l’umidità), mi viene in mente l’aroma del caffè bevuto assieme ad una vecchia ex amica e resisto alla tentazione di maledirci (all’improvviso smettiamo di parlarci con persone a cui vogliamo bene e spesso ne ignoriamo il motivo). È un ricordo che fa male, certamente, però sono grato a tutto il cielo per averlo. E me lo tengo strettissimo. Come i ricordi dei successi di Valentino Rossi – che rabbia annoverarli tra i ricordi – oppure i voli dall’altalena sulle ali di mio nonno oppure la caramella condivisa con Marta il primo giorno dell’asilo (credo sia il primo ricordo che ho sul mio, scarso, altruismo).
Quindi ragazzi, ribadisco, io non ci ho capito un cazzo sui ricordi, però, ri/ribadisco, che ai ricordi dovremmo voler bene perché senza di essi saremmo un oggetto qualsiasi. Forse ciò che ci rende umani sono proprio i ricordi (non so se abbia pensato una genialata o una cazzata).
P.S: In definitiva per me un ricordo è la rivincita dell’eternità sulla razionalità del tempo.
Avevo un tramonto negli occhi in Basilicata mentre accanto ad un vecchio amico stavo percorrendo a piedi centinaia di chilometri alla ricerca forse di qualcosa di me stesso che sfuggiva continuamente. E lì, mentre il sole andava a riposare, perché anche le cose belle devono riposare come il pane prima di diventare buonissimo, io avvertii la mancanza di casa. E non intendo le quattro pareti che fanno da acustica alle discussioni, ai sorrisi, alle sconfitte di una famiglia o di una persona sola, ma di quelle poche persone che hanno il dono di farmi sentire al posto giusto nel momento giusto. Nulla di più: per me “casa” significa esattamente questo.
Me ne sono accorto soprattutto in questi giorni in cui insieme ai miei genitori abbiamo traslocato. C’era in me, e credo anche in loro, quella stupida e affascinante malinconia di chi sa che dietro quella porta ne abbiamo vissute di storie meravigliose e dolorose, insomma quello che è la vita. E la nuova abitazione, in confronto, era una donna sì bella ma per niente piena di aneddoti da raccontare. Ed io da sempre ho amato le persone che hanno qualcosa da raccontare, altrimenti giochiamo a chi ride per prima?
Poi, per magia della realtà, a poco a poco hanno varcato la nuova soglia gli affetti di sempre. Ed è stata subito casa. Quindi quella banalità letta su qualche muro in città diceva il vero: è casa ovunque tu sia. E quel “tu” racchiude i miei genitori, la mia compagna, gli amici, il cane, tutto quello che è il mio mondo.
Nota dolente: So che un giorno dovrò traslocare nuovamente e avvertirò qualche strana emozione. Ma basterà un accenno di profumo che conosco bene e “copperfialdamente” sarà casa. E quindi, in conclusione, vi auguro di smarrire qualsiasi cosa tra un trasloco ed un altro ma non chi vi tiene la mano ogni giorno.
P.S: Non mancavi neanche tu. Diciamo che sei presente in maniera diversa, tipo nelle centinaia di libri che ci hanno fatto smadonnare e che forse ci hanno causato qualche ernia in più. Ma d’amore puro.
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