da Andrea Cerrito | Feb 23, 2022 | Lo sbriglialacci
Il precedente articolo sul tema ha voluto ripercorrere la formazione del senso di sicurezza che ciascuno di noi prova nel rapportarsi con le presone a sé circostanti. Il legame di attaccamento provato da bambini nei confronti dei nostri genitori, quindi, è alla base della sicurezza.
Quando si diviene abbastanza maturi da sentirsi in grado di affrontare il mondo da soli, senza la necessità di sentirsi confortati e protetti da qualcuno che sa meglio di noi come va il mondo, anche il legame di attaccamento si trasforma. Esso, con l’avanzare degli anni e l’accumularsi di esperienze di vita proprie, diventa qualcosa di strettamente personale e si radica nella nostra mente. Se da bambini, infatti, la qualità dell’attaccamento era condizionata da una relazione intrattenuta con delle persone, gli schemi di interazione appresi e ripetuti all’infinito durante l’infanzia “entrano” nella mente e dirigono il nostro modo di fare adulto con il prossimo; in particolare, modulano la sensazione di sicurezza provata in situazioni di scambio sociale. Lo stile di attaccamento evolve nel modello operativo interno che funge da architettura di base dei nostri comportamenti sociali. Quest’ultimo, a sua volta, determinerà anche la relazione che avremo con i nostri figli e di conseguenza il loro attaccamento nei nostri confronti. Insomma, l’attaccamento si trasmette di padre in figlio quasi come il dna.
Questo è quanto rispetto alla sicurezza nelle relazioni, ma verso noi stessi? Cosa ci da la sensazione di star facendo bene? Ovviamente l’autostima!
L’autostima si riferisce all’insieme dei giudizi che ciascuno ha di sé stesso. Questi possono riguardare l’aspetto estetico, la bravura nel compiere azioni fisiche o mentali, la percezione di essere capaci nelle relazioni e nei compiti a cui facciamo fronte. Una persona sicura di sé, riesce a mobilitare le proprie energie in modo più efficace e quindi a dare quanto di meglio può in un determinato evento. Ciò è molto evidente nello sport professionistico, dove la preparazione atletica raggiunge livelli di perfezione scientifica: quando la differenza di preparazione fisica è nulla, come in un match di serie A o in una finale dei 100 metri, gran parte della prestazione legata a quel singolo evento è garantita dalla capacità di applicare le proprie doti in tutta la loro portata. questa capacità è strettamente legata al livello di sicurezza (o autostima) delle proprie capacità.
Per parlare di autostima o di sicurezza di sé è necessario sottolineare che l’autostima non è una cosa che si ha o non si ha, non è un oggetto da tenere con sé. La sicurezza di sé, invece, ha mille sfaccettature; una persona, ad esempio, può essere sicura delle sue capacità lavorative e quindi produrre in abbondanza e cono soddisfazioni ma, quando deve dare un appuntamento galante, non riesce a dire una frase di senso compiuto. A queste differenze talvolta paradossali, contribuisce anche il modello operativo interno con cui abbiamo iniziato l’articolo, in questo momento è sufficiente ricordarlo. L’importante, adesso, è concepire l’autostima e la sicurezza di sé come concetti che abbracciano più contesti di vita, che per ogni contesto può esserci differenza e che in questo modo si crea un continuum, i cui estremi sono la totale sfiducia nei propri mezzi e la sensazione di essere invincibili e indistruttibili.
Partendo dalla fine, quando una persona giudica sé stesso in grado di compiere un’azione senza avere gli strumenti per compierla ci troviamo davanti ad una eccessiva sicurezza di sé la quale, detta in altre parole, può definirsi grandiosità. Per fare un esempio banale, il vincitore della gara dei 100 metri di Atripalda con un tempo di 12 secondi, se credesse di poter battere Jacobs e Bolt al punto da invitarli a partecipare ad una sfida convinto di vincerla, potrebbe avere un’autostima un pelino troppo rigonfiata. Dall’altro capo del continuum, se Marcel Jacobs decidesse di non partecipare alla sfida perché convinto di non poter battere gli altri partecipanti sulla base delle sole credenze sue, senza riferirsi ai tempi stagionali o al duro lavoro svolto in allenamento, l’autostima della medaglia d’oro olimpica dei 100 metri sarebbe troppo bassa. Come si può notare, estremizzare la propria autostima nell’uno o nell’altro senso distorce la realtà: il campione cittadino dei 100 metri si percepisce all’altezza di una sfida impossibile da vincere, la medaglia d’oro olimpica non riuscirebbe a percepire di poter correre i 100 metri entro 12 secondi.
L’autostima e la sicurezza nelle proprie capacità è una sensazione fondamentale per riuscire ad esprimersi nel modo più efficace e corrispondente a sé stessi nella vita di tutti i giorni. Proprio per questo è necessario saper bilanciare e gestire il giudizio di sé stesso e confrontarlo costantemente con ciò che effettivamente sappiamo fare, dire o tollerare. Eccedere lungo uno o l’altro aspetto del continuum provoca distorsioni alla realtà da noi vissuta che compromette il nostro funzionamento in generale, portandoci a produrre di meno di quanto potremmo. In altre parole, è importante mantenere un giudizio sempre positivo di sé nella misura in cui questo giudizio tenga conto delle reali abilità e potenzialità individuali.
da Andrea Cerrito | Feb 17, 2022 | Lo sbriglialacci
La sicurezza in psicologia è un concetto fondamentale. In realtà, la parola sicurezza ha un significato molto ampio quando si parla della prima infanzia; con l’avanzare dell’età, invece, la sicurezza diventa un qualcosa di sempre più specifico fino ad arrivare a rappresentare quella sensazione di stare in un ambiente senza pericoli, o che i pericoli presenti sono facilmente affrontabili. Insomma fino ad assumere il significato condiviso da tutti noi.
SICUREZZA E MONDO CIRCOSTANTE
La sicurezza di relazionarsi con il mondo circostante è la chiave di lettura attraverso la quale viene analizzato il modo di crescere dei bambini di una delle più accreditate teorie psicologiche dello sviluppo individuale: la teoria dell’attaccamento. Il “padre” di questa teoria è John Bowlby, egli ha ritenuto opportuno approfondire le motivazioni dei neonati alla base della loro ricerca di vicinanza rispetto agli adulti che si prendono cura di lui, soprattutto la madre. Ciò in quanto lo studioso aveva notato che esse vanno oltre la semplice ricerca di cibo. Il legame che unisce madre e figlio neonato, infatti, parte dalla ricerca di cibo e si articola verso una ricerca di protezione, serenità e calore affettivo. Un famoso esperimento che fa capo a questa teoria vedeva un cucciolo di scimmia posto davanti alla scelta di ricevere cibo da un manichino metallico o da un altro manichino ricoperto da una pelliccia simile alla sua: gli sperimentatori osservarono che il cucciolo preferiva nutrirsi dalla “madre artificiale” che gli restituisse calore oltre che cibo, validando l’ipotesi per cui alla base del legame madre – figlio, denominato per l’appunto attaccamento, ci sia la ricerca di una sensazione complessa, frutto dell’unione di più fattori che si potrebbe riassumere nella sicurezza.

Il legame di attaccamento tra madre e figlio, dunque, è la base da cui ogni individuo inizia a costruirsi ciò che in futuro riterrà essere la sensazione di sicurezza. Ma come avviene questa costruzione? Va sottolineato, innanzitutto, che, come per ogni cosa che concerne la mente umana, la questione è molto complessa in quanto l’attaccamento di un figlio non è rivolto solo alla madre ma anche al padre e, in generale, a tutte le figure adulte che si prendono cura di lui. Questa evenienza spiega la varietà di atteggiamenti e di comportamenti che il neonato, il bambino, l’adolescente e l’adulto metteranno in campo per esprimersi a partire dall’iniziale attaccamento che percepiscono dalle figure di accudimento.
COME SI COSTRUISCE LA SICUREZZA
Proviamo quindi a spiegare la costruzione della sensazione di sicurezza. Abbiamo detto che il bambino si lega a chi si prende cura di lui mediante l’attaccamento; visto che si sta parlando di relazioni tra esseri umani, questa serie di comportamenti di ricerca messi in atto dal bambino riceveranno delle risposte da parte dei genitori. La risposta dei genitori determinerà lo stile di attaccamento che il bambino svilupperà verso ciascuno dei due genitori a partire dal legame di attaccamento che lo unisce ad essi; questo per farla breve, perché in realtà il bambino sviluppa uno stile di attaccamento verso chiunque si prenda cura di lui, quindi anche zii, nonni e chi più ne ha più ne metta ma qui, per esigenza di spazio e anche di chiarezza, conviene riferirci allo stile di attaccamento verso i genitori (anche perché è quello che determina maggiormente lo sviluppo del bambino e dell’adulto che sarà).
Si è detto, quindi, che il bambino sente il bisogno di esprimere il proprio attaccamento verso le figure di accudimento non solo quando ha fame e vuole mangiare. Nei primi mesi di vita egli “chiama” i genitori quando ha sonno perché ha bisogno di chi lo aiuti a dormire, quando scopre qualcosa di nuovo nel mondo che lo circonda perché vuole che qualcuno gli spieghi quello che sta percependo (il che, tradotto nel modo di percepire un neonato da parte degli adulti, significa “quando vuole giocare”); insomma, pare che i bambini abbiano la naturale predisposizione a ricercare la vicinanza di qualcuno che si prenda cura di loro perché, in un certo senso, sanno di non essere in grado di soddisfare esigenze basilari per la vita come il sonno o la fame. Queste sensazioni, quando arrivano, sono percepite come delle minacce alla propria esistenza e l’allattamento materno, il prendere un bambino in braccio per cullarlo affinché si calmi, si addormenti o prenda il latte fanno sparire queste sensazioni sgradevoli, sostituendole con sensazioni piacevoli quali la sazietà o l’addormentamento, ad esempio. Il bambino, dunque, si sente grato verso chi l’ha “salvato” dalla minaccia della fame o del sonno; il caregiver di turno, poi, si rivolge al bambino con una serie di emozioni verso di lui che accompagnano l’atto di fornire sostentamento: il sostegno quindi è di tipo sia strumentale che affettivo. Lo sguardo, il modo di tenere in braccio il bambino, la capacità di distinguere un pianto da fame da uno da sonno da un capriccio, il coinvolgimento e la libertà concessa quando si gioca insieme, perfino il modo con cui gli si cambia il pannolino, tutte queste azioni sottendono uno scambio di emozioni per l’adulto. Per il bambino, invece, questo serve a imparare a “sentire le emozioni e gli affetti“, a distinguerli ed a rispondere nell’interazione con un altra persona.
In altre parole, lo stile di attaccamento è determinato da tutti i fattori che ci sono all’interno della relazione che viene a crearsi tra infante e caregiver. Questo, poi, sarà alla base dello sviluppo di tutti i comportamenti successivi in una sorta di concatenazione che andrà avanti all’infinito. Da una premessa del genere è semplice osservare che esistono tanti stili di attaccamento quante relazioni caregiver – bambino, premessa l’unicità di ciascun individuo. D’altra parte, noi esseri umani abbiamo anche molte cose in comune tra tutti noi e quindi, anche nel caso dell’attaccamento, è stato possibile risalire a delle categorie che racchiudono 3 principali stili di attaccamento. Anche in questo caso, un esperimento ci può permettere di capire meglio di cosa sto cercando di parlare: vorrei parlare della Strange Situation, una procedura sperimentale che studia l’interazione tra caregiver e bambino dell’età di un anno.
Questa procedura è stata pensata dalla studiosa Mary Ainsworth per studiare i vari stili di attaccamento che possono verificarsi tra madre e figlio. L’esperimento prevede varie fasi; nella prima vengono fatti entrare madre e figlio in una stanza in cui ci sono due sedie e dei giocattoli, viene quindi chiesto alla madre di fingere di leggere una rivista mentre il bambino viene lasciato libero di esplorare l’ambiente, giocare e coinvolgere il genitore. Nella seconda fase entra in stanza un estraneo che prima dialoga con la madre, poi cerca di coinvolgere il bambino in un gioco comune; in seguito, la madre viene fatta uscire dalla stanza così da osservare quello che il bambino fa per ricercare la figura di attaccamento. Il genitore viene quindi fatto rientrare così da osservare se il bambino ricerca conforto e come questo gli viene offerto e, in caso contrario, si studiano le varie possibile reazioni. A questo punto il genitore viene nuovamente fatto uscire, lasciando stavolta il bambino solo nella stanza; qui si osserva il modo del bambino di far fronte alla difficoltà e, in caso di eccessivo disagio mostrato, viene interrotta la procedura; se la procedura può andare avanti, viene fatta rientrare l’estranea per osservare se il bambino è in grado di utilizzarla come surrogato della figura di attaccamento momentaneamente assente. Infine, viene fatto entrare il genitore facendolo fermare davanti la porta d’ingresso per notare come il bambino ricerchi le sue cure ed il suo affetto.
Questa procedura è stata creata per leggere i comportamenti del bambino in una situazione di stress controllato al fine di analizzarne le risposte. Si è notato che, nonostante l’immensa varietà di reazioni osservate, esse possono essere raggruppate in quattro tipi fondamentali: ci sono bambini che protestano alla separazione dal genitore ma dopo un po’ si calmano, riescono ad utilizzare l’estraneo come surrogato della figura di attaccamento e, al ricongiungimento con il genitore, accettano di buon grado le coccole riuscendo a placare l’angoscia; altri bambini prendono le distanze dal genitore e sembra non si angoscino, rimanendo indifferenti anche alla presenza dell’estraneo; altri ancora protestano in modo inconsolabile e nemmeno il ricongiungimento con il genitore sembra calmarli; altri, infine, non sanno cosa fare, si bloccano davanti al genitore perché non sanno che tipo di reazione aspettarsi da quest’ultimo. Quest’ultimo tipo di reazione permette di osservare uno stile di attaccamento disorganizzato in quanto il genitore appare al bambino come imprevedibile e quindi non sa se lo coccolerà o lo maltratterà; la protesta inconsolabile denota uno stile di attaccamento insicuro ambivalente: il bambino è pervaso da un’angoscia di separazione così forte da impedirgli di beneficiare del ricongiungimento se non dopo molto tempo. Il bambino indifferente viene classificato come avente uno stile di attaccamento insicuro evitante vista la sua reazione che denota una strategia di evitamento dell’angoscia, considerata come insopportabile al punto da non poterla vivere. Il primo stile di attaccamento descritto, invece, si riferisce allo stile sicuro: il bambino denota degli atteggiamenti tipici della sua età, protesta alla separazione dal genitore ma è in grado di accettare le rassicurazioni in quanto riesce a prevedere cosa aspettarsi da quel genitore, evenienza che negli altri casi non si realizza.
CONCLUSIONI
La sicurezza di interagire con il mondo circostante con la consapevolezza di sapere cosa aspettarsi da esso, quindi, parte dalle primissime interazioni tra il bambino e le sue figure di accudimento. Un bambino sicuro nell’interazione con tutte le sue figure di accudimento sarà un adolescente capace di orientarsi con maggiore sicurezza nell’interazione con i pari età e un uomo che avrà buone possibilità di sviluppare dei modelli di azione sul mondo più stabili, un uomo sicuro di sé. Ciò che accade durante l’infanzia, tuttavia, non determina immutabilmente le persone che si sarà da adulti: la vita è un continuo proporsi di eventi ma, come si dice, chi ben comincia è a metà dell’opera.
da Andrea Cerrito | Gen 17, 2022 | Lo sbriglialacci
A tutti noi sarà capitato almeno una volta nella vita di sentirci stanchi senza apparente motivo. Capita, infatti, che una giornata inizi all’insegna della stanchezza e che questa sensazione non vada via. Ma perché, se oggi alla fine non ho fatto niente di così faticoso?
Questa sensazione è diversa dalla tipica stanchezza che si prova al termine della giornata lavorativa. Quando facciamo qualcosa che ci stanca sentiamo il bisogno di riposarci e sappiamo benissimo quello che ci ha stancato. La stanchezza di cui voglio parlare, invece, ci coglie di sorpresa visto che ci sentiamo in dovere di riposarci ma al tempo stesso non sappiamo cosa ci ha stancato e per questo pare che non abbiamo il diritto di rilassarci, e questo ci fa sprofondare ancor di più in quella bolla all’interno della quale tutto sembra stancante e niente può rilassarci di più di come stiamo.
La reazione a questo tipo di sensazione è, come sempre, variegata e unica per ogni individuo; d’altra parte, c’è qualcosa che accomuna tutti. Di solito questo tipo di stanchezza, infatti, irrita: chi lo prova tende a infastidirsi per cose che normalmente passerebbero inosservate. Inoltre, ciò che di solito ci tira su il morale o per cui siamo sempre pronti a metterci in gioco sembra perdere di interesse. L’interesse è perso sia nelle attività che nelle relazioni: la stanchezza di questo genere rende tutto e tutti distanti. Se si prova a fare qualcosa, non ci si riesce a concertare. Insomma, l’unica soluzione rimane sdraiarsi sul divano e guardare la televisione; non un programma in particolare, proprio lo schermo della tv. L’attività di elezione è lo zapping, nessun programma sembra interessarci e quasi pare di andare alla ricerca delle pubblicità che almeno quelle non necessitano di tanta attenzione.
Questa cosa che fin qui ho descritto come stanchezza cronica o insolita ha un nome specifico: anedonia. Il suo significato primario è “l’incapacità di provare piacere per tutti i tipi di attività”, una frase che ben riassume la miriade di micro eventi prima accennati. Questa sensazione può essere scatenata da tanti fattori, non c’è qualcosa di specifico che ci induce a sperimentare l’anedonia. Sta di fatto che questo stato della mente può essere riconosciuto o meno dalla persona che lo sperimenta: c’è chi si accorge di non riuscire a trarre soddisfazione da ciò che normalmente gli piace fare e chi non si rende conto di immergersi in questa “bolla”. Ai primi, il compito di venirne a capo e, anche se fatica, iniziare qualcosa di costruttivo che possa far riemergere dall’anedonia può risultare un compito agevole; per i secondi il passo più complicato è quello di riconoscere l’anedonia. Questo, infatti, vorrebbe significare che la ricerca del relax non ha senso proprio perché è la ricerca stessa a produrre la sensazione di stanchezza; per questo, bisogna fare qualcosa per sentirsi meno stanchi, paradossalmente.
da Andrea Cerrito | Dic 5, 2021 | Lo sbriglialacci
Il termine mappa nel contesto della psicologia rimanda immediatamente ad una specifica area di indagine della (neo)scienza psicologica, vale a dire quella del cognitivismo. A sua volta, la psicologia cognitiva studia soprattutto la mente razionale, quella parte di psiche di cui abbiamo completa consapevolezza, anche se non sappiamo il processo con il quale la conoscenza cognitiva si costruisce.
Ebbene, si può tranquillamente affermare che ogni pensiero razionale utilizza uno specifico tipo di mappa. A differenza delle classiche cartine geografiche che ci affanniamo a leggere quando in viaggio in una città sconosciuta, le mappe mentali non riproducono fedelmente ciò che la nostra vista ha catturato; una mappa mentale si forma grazie all’utilizzo di tutti e 5 i sensi e, per questo, forma una rappresentazione di ciò che abbiamo visto, udito, toccato e assaporato. A queste informazioni “ambientali”, inoltre, si aggiunge un altro tipo di informazioni che derivano non tanto da ciò che abbiamo registrato con i nostri sensi e rappresentato nella nostra mente. In automatico, infatti, la mente umana associa un’emozione ad ogni informazione assimilata dall’esterno; le emozioni associate “distorcono” sensibilmente le informazioni catturate dall’esterno in modo particolare: se durante un viaggio ci ha emozionato visitare una piazza o un museo in modo forte (bello o brutto che sia), avremo una mappa più dettagliata e “grande” di quel luogo, mentre luoghi visitati di fretta o senza interesse avranno uno spazio più “piccolo” nella nostra mappa mentale. Insomma, la scala della mappa mentale non è omogenea come quella delle cartine geografiche ma varia in base alla forza delle emozioni che associamo ai diversi luoghi che visitiamo e si compone anche di suoni, odori e sensazioni tattili.
Come detto, però, non utilizziamo delle mappe solo per rappresentarci un luogo ma usiamo gli stessi meccanismi per immagazzinare qualsiasi tipo di informazione, astratta o concreta che sia. È questo il caso delle mappe concettuali, fondamentali per raccogliere, costruire e ricordare i nostri pensieri. Una mappa concettuale è una rappresentazione dei nostri pensieri; ci sono pensieri che ci rappresentiamo nella nostra mente sotto forma di vere e proprie frasi, pensieri che non sono rappresentabili a parole e quindi vengono immagazzinati sotto forma di immagini, o per meglio dire di scene (filmati piuttosto che foto), pensieri, infine, che nemmeno le immagini riescono a cogliere e quindi vengono rappresentate sotto forma di sensazioni (ad esempio sentimenti, ricordi lontani nel tempo). Tutti questi tipi di pensieri possono essere considerati come i nodi di una rete e, presi separatamente, non avrebbero un senso compiuto, come se mancassero di un pezzettino; il passaggio da pensiero a concetto avviene grazie al tipo di collegamento che effettuiamo tra i diversi pensieri. Il tipo di collegamento tra pensieri determina da sé il senso di un certo concetto mentale e lo stesso pensiero può essere utilizzato per costruire il significato di diversi concetti.
I collegamenti tra i pensieri non vengono creati consapevolmente ma sono l’esito di complessi processi mentali che, in poche parole, coinvolgono tutte le varie funzioni mentali come memoria, attenzione e affetti e fanno sì che un pensiero colleghi due o più nodi della rete menzionata prima. Non a caso il nostro cervello funziona grazie al collegamento dei neuroni che lo compongono e che prende il nome di rete neurale.
La mappa mentale, quindi, organizza la vita mentale, non riproduce fedelmente la realtà ma ne crea delle rappresentazioni personali e uniche per ogni individuo e può essere considerata una specie di rete molto fitta, come quella dei tessuti. E proprio come accade nei maglioni, quando il collegamento tra due nodi è fatto male o ne collega parti “contraddittorie”, iniziano a venir fuori i difetti.
da Andrea Cerrito | Nov 23, 2021 | Lo sbriglialacci
Che cos’è il fallimento?
Una persona decide di fare qualcosa, questo qualcosa ha un obiettivo da raggiungere e per raggiungerlo, appunto, fa delle azioni mirate al soddisfacimento dell’obiettivo. Dopo aver fatto qualcosa la suddetta persona valuta se ha raggiunto l’obiettivo per cui ha intrapreso la serie di azioni messe in pratica per cui, dopo averci ragionato su, percepisce di aver raggiunto l’obiettivo o di averlo mancato, la quale ultima ipotesi ricede appunto nel fallimento.
Messa in questi termini, il fallimento è l’esito di una serie di azioni finalizzate al raggiungimento di obiettivo, la peggiore delle due ipotesi possibili: fallire o riuscire. Una volta presa consapevolezza dell’esito delle proprie azioni, la persona in questione sa se quello che ha fatto è stato utile per sé o meno. Questa consapevolezza, di per sé, non ha un significato predefinito a priori ma viene riempita di significato dalla persona stessa. Il significato derivante può prendere due traiettorie tra loro opposte ma non per questo incontrovertibili. Dopo aver capito di aver fallito, infatti, viene sempre il momento delle riflessione su cosa sia andato storto, ed è questo il momento in cui si può andare verso l’una o l’altra delle traiettorie mentali possibili, avendo sempre la possibilità di invertire la rotta verso l’altra delle traiettorie.
Dicevamo delle traiettorie: queste sono essenzialmente l’arricchimento o la rimuginazione. Se la prima traiettoria deriva dalla riflessione su quanto accaduto e dal suo superamento attraverso la costruzione di alternative tramite l’aver imparato dagli errori, con la rimuginazione accade qualcosa di differente. Rimuginare sulle proprie azioni consiste nel ritornare, mentalmente, su quanto compiuto e soffermarsi sulla sua natura negativa. Questo soffermarsi diventa qualcosa di ripetitivo e insistente, al punto da tingere di negativo anche qualcosa che prima non lo era. La negatività che si abbatte sulle proprie azioni determina una visione di se stessi brutta, svalutata, ci rende incompatibili con le relazioni tra persone. E inoltre, la rimuginazione è un circolo vizioso: non ha vie d’uscita perché essa stessa rappresenta la via d’uscita a qualcosa di più profondo.
Chi rimugina, infatti, non si ritiene degno di essere perdonato: reputa che le azioni che ha commesso siano troppo malvagie e per questo merita solo sdegno. Ciò affonda le sue radici nel passato remoto individuale ma più che parlare di questo è utile comprendere come uscire dal circolo vizioso e prendere la traiettoria alternativa alla rimuginazione, ossia l’arricchimento personale. Questo è possibile ma non semplice, e richiede sempre qualcuno che ci supporta, sia esso un buon amico, un fidanzato o una fidanzata o uno psicologo.
Per rendersi conto di meritarsi il perdono per quel che si è fatto, è necessario riprendere qualcosa a cui, per colpa della rimuginazione, si è perso di vista, vale a dire l’obiettivo che si voleva raggiungere. Chi rimugina, infatti, prova una specie di piacere masochistico a commiserarsi e dimentica il motivo per ci aveva messo in pratica quella serie di azioni tanto deplorevoli. È come se ricordare di aver fatto qualcosa per un fine facesse perdere alla rimuginazione il piacere di autocommiserarsi.
Riprendere possesso dell’obiettivo a cui si mirava significa ricordarsi di aver voluto qualcosa e di aver provato a raggiungerlo. Ciò implica rendersi conto di aver potuto fare altro e apre alla riflessione costruttiva che porta a riconoscere i propri errori e, in seguito, a trovare la giusta via per evitare di commetterli in futuro. In poche parole serve ad arricchire il proprio bagaglio esperienziale per affrontare nuove sfide in futuro.
D’altra parte si sa, sbagliando s’impara! E solo chi sbaglia si concede il lusso di imparare.
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