Un viaggio tra generazioni mai conosciute

Un viaggio tra generazioni mai conosciute

«Iniziava sempre con quell’insolito rituale, prima di mettersi in viaggio mio padre era solito togliersi il cappotto, ripiegarlo e posizionarlo sul bagagliaio dell’auto»

C’è sempre stata una certa sacralità in quello che per molti anni ha rappresentato uno dei viaggi di famiglia più frequenti e più intensi. Negli anni ha assunto diversi significati.

Da bambino ritornare in quei luoghi, così vicini e così lontani, rappresentava un viaggio, un’avventura il cui copione era sempre lo stesso e veniva rispettato in maniera incredibile. Le nostre “costanti” erano sempre lì ad attenderci: l’incredibile buio quando arrivavamo a Villamaina e quell’enorme muro di luci e lumini pronti ad accoglierci, le statue in pietra e quei lunghi vialetti grigi che ben si sposavano con l’autunno. E dopo, di nuovo in auto, in direzione Sant’Angelo dei Lombardi, le chiacchierate vicino la stufa e la visita al laboratorio di un artigiano speciale, come sapeva essere nostro prozio e poi, se eravamo fortunati, una bella partita a palle di neve che ci “costringeva” tutti ad un tutti contro tutti impagabile.

Crescendo, con gli anni, molti di quei luoghi e di quei protagonisti sono cambiati, il viaggio ha assunto sempre più un significato diverso. Negli anni storie passate e presenti si sono mischiate e, con nuove tappe, hanno portato alla luce nuovi protagonisti. Tra tutte, sicuramente, quella più interessante è stata Torella dei Lombardi.

Conosciuta da molti come il paese di origine di Sergio Leone e dei vari De Laurentiis, Torella ha assunto un significato familiare rilevante in quanto paese originario della mia famiglia paterna, o meglio è qui che i miei bisnonni Raffaele e Lucia hanno deciso di mettere su famiglia.

Purtroppo il destino e la grande storia non sono stati benevoli con entrambi e la loro vita è stata scandita da sacrifici immensi, tanto lavoro e una serie notevole di tragedie. La loro vita matrimoniale brevissima, spezzata dalla prematura scomparsa di Raffaele che per gran parte degli anni resterà poco più che un quadretto in divisa militare appeso nelle nostre case e poco più.

Disperso in seguito ai tragici eventi che caratterizzarono il secondo conflitto mondiale i racconti che si sono susseguiti sono sempre stati rari e frammentati, in cui l’unica certezza è stata la sua partenza da un punto A, meglio identificato come Italia, e la sua scomparsa in imprecisato punto B della penisola balcanica tra l’Albania e la Grecia. Nulla più, per decenni. Un’intera vita racchiusa in una serie poco precisa di chilometri e in un continente. Il destino di Raffaele, come tanti altri dispersi ha dovuto fare i conti con la frammentarietà delle informazioni possedute.

Così per anni abbiamo saputo veramente poco della sua vita. Se non fosse per la grande storia che per una seconda volta si sarebbe intromessa nella nostra famiglia. Infatti negli anni 2000 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi decise di onorare la memoria dei soldati italiani in Grecia ritenendo il loro sacrificio il primo atto di Resistenza italiana contro il nazifascismo.

Sotto questo impulso la comparsa di un foglio matricolare di Raffaele la sua storia comincia ad assumere una forma più definita. Una serie di tappe e città e nazioni comincia ad affiorare nella vita di Raffaele. Prima Torino, poi la Francia, dopo casa e poi di nuovo Brindisi, Valona con l’Albania e infine Corfù e Cefalonia con la Grecia dove molto probabilmente troverà la morte.

Ma a rendere completo il quadro ci penserà Lucia, con un pacco di lettere di corrispondenza conservate a trasformare Raffaele non più in una merce in spostamento dai diversi punti, ma in una persona in balia del destino. Nelle lettere si sente la mancanza per la casa, gli affetti e la terra. L’essere sempre in viaggio e la fiducia in un rapido ritorno che però non arriverà mai.

Il viaggio a Torella dei Lombardi verso una lapide dedicata a tutti i dispersi ha rappresentato questo e continua a rappresentare questo, la connessione con due vite che malgrado il destino le ha strappate alla terra continuano a legarci ai loro luoghi e alle loro storie.

L’oggettario: la chitarra

L’oggettario: la chitarra

Gli anni passano, ma non rappresentano un intoppo, almeno non ancora. Le trasformazioni del corpo e dell’animo si fanno ancora più evidenti. L’anno è il 2006, l’isolamento, per lo meno quello totale, è finito. L’Italia di lì a qualche mese avrebbe vissuto attimi di euforia grazie alla vittoria del mondiale che ci avrebbe portato sul tetto del mondo, ma in quel momento eravamo anche al centro di una parte della provincia.

La scuola, che ancora in quel momento rappresentava gran parte della nostra esistenza, era il liceo. L’affrontavamo con molti rimpianti, complici le fortissime restrizioni e un sistema di insegnamento per niente valido. Ma era anche il centro di raccolta dei numerosi altri giovani. Convergevano tutti lì dalle diverse parti dell’Irpinia. Condividendo noie, amori e bocciature, ma anche e soprattutto le prime consapevolezze politiche, sociali e musicali.

In quegli anni il pallone perde la sua egemonia e la crescita della consapevolezza della città comincia a seguire un altro oggetto, la chitarra. La si porta sempre in spalla, soprattutto nelle belle giornate di fine settimana, durante le scampagnate e in tutte l’estate.

I luoghi non sono più costituiti dagli ampi spiazzali, ma sono più appartati e più marginali. La villa diventa il centro di tutto. Gli spalti il luogo migliore per passare intere giornate a suonare, mentre si beve e si fuma.

La chitarra diventa l’oggetto di riconoscimento tra i gruppi di amici e per certi versi anche di esclusione. I generi musicali creano comunanza e coesione all’interno del gruppo stesso.

La chiave per un luogo temuto dai più piccoli, disprezzato dagli adulti e incompreso da molti. Nel 2006 ogni chitarra divenne la chiave alla nuova geografia cittadina degli adolescenti.

Oggettario – il pallone

Oggettario – il pallone

Aver a che fare con la storia non è mai un compito facile, soprattutto perché richiede una particolare precisione e attenzione, ma proprio per questo ci tengo a sottolineare che chiunque volesse ricercare in questa rubrica tali qualità verrà presto deluso. Compito di quanto seguirà sarà quello di raccontare uno dei tanti momenti in cui spesso ci si perdono i ricordi personali, condizionati, classificati in quanto tali e per questo privati della loro importanza collettiva, sociale e culturale.

Mi servirò di questo spazio per raccontare momenti di vita di un gruppo, di una comunità.

Erano i primi anni 2000, gli echi della società arrivavano deboli e richiamavano lo scampato pericolo del millennium bug. L’11 settembre era ancora lontano e lo stesso il 19 luglio di Genova. Il paese si risvegliava come il suo solito la mattina pronto a mettere in moto l’economia locale, fatta di piccoli e medi negozi. Le casalinghe, caparbiamente, reggevano il peso mattutino delle famiglie distribuito in sacchetti di plastica che le accompagnavano lungo i due rettilinei che fiancheggiavano il fiume Sabato.

La città era degli adulti. Gli alunni invece sospiravano a fatica, speranzosi che il tempo passasse anche più velocemente del dovuto. Una speranza che col passare degli anni sarebbe cambiata completamente. Ma non è quello il periodo: erano gli anni delle scuole medie, dei primi amori, della scoperta del proprio corpo che non cresce velocemente come si vorrebbe e di quello altrui. Come in preghiera la mano a reggere il peso della testa e con l’altra intenta a scarabocchiare sul quaderno sogni, aspirazioni e speranze di quello che sarebbe successo nelle ore successive a quelle di scuole. Ed eccola, la campanella, il suono tanto aspettato ed in un attimo il pranzo consumato di fretta e i compiti conclusi con la stessa velocità, tutto per prendere quel solo oggetto degno di reale venerazione.

Aveva molti nomi, di sicuro il più comune era il super santos e poteva essere acquistato nei Sali e tabacchi per 1.500 lire o per chi voleva per 0,75 centesimi di euro.

Tutto ruotava intorno al pallone: le notizie provenienti dal mondo esterno erano quelle di 90°minuto, la geografia nazionale e non veniva studiata sull’album delle figurine panini e anche le prime conquiste avevano un suo ritorno in quel mondo.

Era il pallone a decidere gli spazi in cui ritrovarsi e in cui giocare. La città ha seguito questa crescita e questo sviluppo. Le necessità e i bisogni del pallone erano più importanti delle ginocchia sbucciate, delle ossa fratturate e delle ammaccature causate.

Nei primi anni del 2000 era possibile vivere due città in una, la prima, quella della mattina, degli adulti, razionale ed utilitaristica che non lasciava spazio ad altre interpretazioni e la seconda costruita sul potere totemico del pallone, i cui giovani fedeli, seguivano in lungo e largo per la città fino al luogo destinato alla creazione della nuova civiltà.

Paese che vai narrazione che trovi

Paese che vai narrazione che trovi

Ma perché non te ne vai? Che fai qua?!?

Alzi la mano a chi, in vita sua, non è stata rivolta questa esclamazione, camuffata da domanda?

Alzi la mano chi, in vita sua, in seguito al quesito retorico sopracitato non ha vissuto attimi di esotiche fantasie in cui per un breve momento si è immaginato altrove, alle prese con nuove sfide e nuove avventure?

Sono sicuro che non basterebbe uno stadio per contenere tutte le persone che si sono ritrovate a dover fare i conti con queste parole. Almeno una volta nella vita, ognuno di noi avrà dovuto rispondere all’inquisitore di turno. Almeno una volta nella vita ognuno di noi avrà dovuto rispondere a se stesso. Ma procediamo con ordine.

IL PERCHÉ DELLA DOMANDA

Chi vi scrive quelle parole le ha ascoltate spesso, in forme ed espressioni diverse. Parole che negli anni hanno assunto differenti suoni e flessioni: qualche volta sono state pronunciate come un consiglio fraterno, altre volte come un’esclamazione violenta, sofferente e disperata.

Sprezzata rassegnazione di una generazione, precedente o contemporanea, che di fronte agli invalicabili ostacoli non ha potuto far altro che gettare la spugna. Non ha potuto far altro che immaginare per sé una vita differente che non potrà più esserci, ma che continua ad accompagnare i pasti, gli aperitivi e le notti provinciali di molti.

Una rassegnazione prodotto di una narrazione distorta che riporta la provincia ad essere intesa, analizzata e vissuta come un qualcosa di unidimensionale da cui è impossibile sfuggire. Ma soprattutto la porta ad essere letta solo ed esclusivamente attraverso schemi interpretativi provenienti, e quindi funzionali, dai grandi centri.

Quindi ci ritroviamo immersi in una certa varietà di narrazioni, questo è vero, ma tutte incompatibili tra di loro e soprattutto tutte frutto di un punto di vista esterno. Si fa fede ai diversi modelli standardizzati di provincia tra cui, senz’altro quelli più comuni sono la “provincia presepe” e la “provincia meccanica”.

La prima è il risultato di anni e anni di erosione democristiana che hanno raggiunto l’apice in questi anni con la promozione e diffusione dei servizi del Tg3 regionale in cui presentano paesi e cittadine da piazze inverosimilmente gremite dove ragazze con vestiti tradizionali ballano a ritmo di musica popolare in un’orgia di dolci e piatti tipici e dove le persone festanti si ritrovano in difesa del proprio campanile.

La seconda è il risultato delle trasmissioni pomeridiane dai colori accesi in cui reporter d’assalto si ritrovano catapultati nella provincia di … e nel comune di … e dove si è sempre consumato qualche efferato delitto per cui è bene concludere generalizzando che la provincia è quella parte di Italia dove si consumano le peggiori violenze.

Schiacciati da queste forme di narrazioni ci si convince, a seconda del caso, che le realtà in cui viviamo sono terre di sole e nacchare durante il sabato e la domenica e terre senza dio dal lunedì al venerdì. Schiacciati da ciò ci si convince che forse l’unica soluzione giusta è quella di lasciare casa e raggiungere altre sponde.

IL PERCHÉ DELLA RISPOSTA

Alla visione unidimensionale si contrappone un universo pieno di sfumature e difficile da definire ed interpretare attraverso una sola chiave di lettura. Lo dimostrano i 150 metri quotidiani che dividono la mia abitazione dal luogo in cui lavoro.

In meno di un chilometro è possibile raccontare diverse forme di provincia con le sue problematiche e le sue battaglie.

Una provincia che si sveglia ogni mattina e deve fare i conti con il continuo tasso di inquinamento dell’aria e delle falde.

Una provincia che nel corso degli anni 80 ha vissuto una delle prime forme di gentrificazione del centro storico, “grazie” alla ricostruzione del post terremoto.

Ma in quei 150 metri che mi separano da casa al lavoro è possibile vedere la voglia e la capacità di una generazione di non arrendersi agli schemi prestabiliti per loro, che ha tentato di riscrivere quel piccolo pezzo di vita che li aveva già assegnati ai soliti consumi e ai soliti divertimenti.

Così quando mi dicono: Che fai ancora qui? Perché non te ne vai?!?

Ripenso a quante storie quei 150 metri riescono a contenere e a quanto sia necessaria una nuova politica del fare, come scriveva spesso Manlio Rossi Doria, e quanto sia importante il nostro ruolo qui, per non dover andare altrove a cercare un racconto di noi che è qui ed ora.

La storia del prato sorto nel centro storico di Atripalda

La storia del prato sorto nel centro storico di Atripalda

Per molti, oserei dire per la quasi totalità di noi, questi 366 giorni appena trascorsi sono stati molto difficili e ci hanno messo di fronte a notevoli difficoltà. Un anno in cui abbiamo dovuto affrontare disgrazie d’ogni genere e districarci tra mille peripezie. Proprio per questo in ogni discorso, pensiero o semplice appunto che riguardava il 2020 gli abbiamo dato seguito con i più differenti dispregiativi. Un anno sfortunato, maledetto, sciagurato, strano, dannato. Ma per molti di noi questo è stato anche un anno “non vissuto”, in cui non è “cambiato niente”, quasi come se ci fosse stato un congelamento della vita. È mia intenzione in queste brevi parole affrontare proprio questa definizione, ma procediamo con ordine.

Nella memoria collettiva il ricordo di quanto avvenuto nei mesi scorsi e per questo mi servirò di questa freschezza ed elasticità collettiva per dimostrare quanto segue.

Erano i primi giorni di aprile e tutta l’Italia si stava lentamente riprendendo dal fortissimo crochet che dai primi di marzo ci aveva chiuso all’angolo e ci aveva costretto a familiarizzare con termini quali coronavirus, pandemia, lockdown e così via. Giorni in cui la paura dei singoli si era trasformata in coraggio collettivo. Avevamo riscoperto i primi spazi domestici a noi sconosciuti fino allora, i balconi, e avevamo passato gran parte delle nostre giornate lì, riscoprendoci cantanti, patrioti, ma soprattutto avevamo riscoperto la natura.

Così, mentre gran parte dell’azione antropica si stava ritirando sotto i colpi dei DPCM, la natura stava rinascendo proprio nel suo momento migliore dell’anno: la primavera. L’assenza di traffico e smog aveva portato a un notevole miglioramento della qualità dell’aria e gli stormi in cielo e gli alberi in fiore dimostravano un’altra energia rispetto al solito. Le nostre città hanno assistito a questo miracolo stagionale con estremo stupore. Lo stesso stupore aveva pervaso le strade di Atripalda, invasa com’era delle stesse sensazioni e dagli stessi umori.

Spettatori incolumi di tutti erano i pochi e timidi passanti, impegnati nello svolgimento delle piccole commissioni quotidiane. La città che fino a qualche giorno fa si era mostrata silente ed immutata, celava nei suoi angoli più coperti il frutto di un lavoro di trasformazione continuo e costante che la natura stessa stava operando in quei giorni.

Il cambiamento era avvenuto sotto gli occhi di tutti e sotto l’attenzione di nessuno, in maniera costante. Persino la pavimentazione del centro storico si era trasformata, tra i lisci sampietrini dei vicoli era cresciuta, prima timidamente, poi con maggior rigore l’erba, lasciando così al verde una delle rare vittorie in mezzo all’oceano di grigio che ci circonda quotidianamente. Al posto della strada, un piccolo prato, tra i palazzi e le auto, era rinato.

Per qualche giorno lo stupore dei passanti, compreso il sottoscritto non è stato poca cosa. Lo stesso stupore di quei giorni mi ha invaso mentre mi ritrovo qui davanti alla tastiera cercando di parlare del cambiamento. In molti, tra amici e conoscenti li ho sentiti ripetere che dell’anno trascorso la cosa peggiore è stato la condizione di congelamento in cui abbiamo vissuto e per settimane mi sono interrogato a riguardo. Ma proprio ripensando a questo piccolo avvenimento mi è stato possibile comprendere come anche nella realtà più immobile tale condizione è essa stessa apparente.

Il vicolo del centro storico dove per un breve periodo ha fatto la sua comparsa un inaspettato prato.

Così anche noi in questo anno appena trascorso siamo cambiati non poco e abbiamo vissuto moltissimi cambiamenti. Come per la nascita del prato urbano dovremmo imparare ad osservare e a leggere le nostre strade, le nostre piazze e le persone che le attraversano. Quello che questo 2020 ha fatto emergere è che le città sono ancora il motore di tutto, sia delle nostre disuguaglianze, ma anche delle innovazioni e delle trasformazioni che avvengono continuamente e che appunto avremmo dovuto imparare a leggere proprio grazie a quest’anno così difficile.

Dovremmo imparare ad osservare un po’ più spesso quello che ci circonda per sentirci almeno un po’ cambiati dal passato, non è un compito facile, ma nemmeno impossibile.