Ora la tua unica religione è vincere e farlo anche il più presto possibile

Ora la tua unica religione è vincere e farlo anche il più presto possibile

Ormai vivo in attesa di morire. È la mia condanna per non aver raggiunto i traguardi nei tempi prestabiliti e per aver creduto, ad un certo punto, ai sogni. La società, questa società in cui sputiamo il sangue, in fondo ce lo ricorda tutti i giorni: conta vincere e bisogna farlo anche il più presto possibile. Quindi testa bassa e pedalare e non importa se devi imbrogliare, se devi massacrare la tua umanità: i tuoi obiettivi sono lì e la tua unica religione ti suggerisce di raggiungerli a tutti i costi. E non pensare neanche ai lacci sciolti, lo sai che non hai il tempo di fare un cazzo. Al massimo posta qualcosa su instagram così sazi la tua fame di dimostrare agli altri che sei una bella persona, impegnata e che magari scopa assai bene.

Quindi, sguardo in alto, petto in fuori e mettiti in cammino. Non badare ai morti di fame, è giusto che paghino per i loro fallimenti; scegliti un gruppo sociale dove bere qualcosa e non fare troppo domande su cosa succeda nel mondo mentre tutti noi pensiamo ad una rivoluzione; non mostrare emozioni a meno che non sia necessario per un post motivazionale perché sembra che un traguardo non valga se non lo si sbatte in faccia a tutti; tieni sempre a mente, infine, che ora sei un animale e devi sbranare tutto ciò che si muove tra i tuoi occhi ed il successo.

Potrai vivere giorni in cui ti mancheranno le incertezze, le canzoni da cantare chiuso nella tua stanzetta ma passeranno presto, te lo prometto. Lo vedi quel tale con gli occhiali e la camicia a quadri? È in attesa di morire perché non è riuscito ad uccidere quell’ansia di fallire che ci inoculiamo da soli ogni giorno e tu non devi fare la sua stessa fine. Mi raccomando, non piangere, non essere debole: ricordati che in palio c’è la tua sopravvivenza in questo mondo.   

Abbecedario di provincia: lettera D

Abbecedario di provincia: lettera D

Sono bloccato in mezzo alla strada. Da giorni infiniti non ho più un obiettivo, neanche guardare un porno russo nel cuore della notte. L’unica attività che mi suggerisce un eco di vita è osservare gli altri darsi da fare per vivere qualcosa che possa essere definita vita. Lo stipendio a fine mese, qualche post interessante sui social oppure la ricerca dell’anima gemella: io, invece, ho rinunciato a tutto.

Trascorro le giornate a rivedere film già visti in modo tale che posso distrarmi evitando la maledizione dei sensi di colpa. In questo momento ho riavviato il nastro dell’ennesima commedia con Adam Sandler e sento il respiro finalmente un po’ più lungo. Le disgrazie del mondo sono lontane dalla mia stanza, almeno per oggi.

Ora stacco di telecamera sui ricordi resistenti alla mia depressione (parola della settimana): il primo romanzo a cui non è seguito più un cazzo, le foto di me con i capelli intento a catturare il tramonto per dedicarglielo, le poesie scritte ovunque, i dischi impolverati, le penne con i tappi morsi dalla rabbia.

Io non so cosa sia accaduto, ma so che ad un certo punto ho smesso di agire. Capita una mattina che ti alzi e non sai cosa vuoi per colazione. Ti accontenti di quello che c’è, è commestibile persino quella fetta biscottata rigurgitata dal cane.

Incomincia a pesare ogni passo, la vista ti si annebbia e senti soltanto che tutto ti scivola dalle mani. Non so spiegarvelo in maniera efficace, ma la scena è questa: tu incatenato ad una sedia in una cantina desolata e a turno rabbia, dolore, noia che ti torturano con ogni mezzo. Ed è inutile urlare, chiedere aiuto: le parole si bloccano in gola e se ti specchi puoi vedere la tua faccia che sorride.

È tardi anche per me. Sento le palpebre pesanti. Il buio è ad un palmo di mano da me. La stanza si sta raggomitolando su di sé. Qualcuno sta commettendo un delitto nel vicolo. Ma qui i supereroi sono sovrappeso ed alcolizzati.

Mi addormento con le mani in mezzo alle gambe. Lasciatemi in pace.

Abbecedario di provincia: lettera P

Abbecedario di provincia: lettera P

È giunto il momento di allargare le braccia e confessare a me stesso che stavolta non ho nessun piano. Ricordo che un giorno mi dicesti che sembro uno di quei giocatori di poker che ha l’asso nella manica anche quando la fortuna è lontana. Ed invece a questo giro nessun bluff: ho paura di perdere.

Sai, questi tempi sono complicati da tradurre, parlano un linguaggio che io non comprendo, addirittura più difficile del cinese. E non ci capisco molto di contratti a termine, di stage formativi e colloqui conoscitivi. Io, del resto, ho sempre pensato che sarei sopravvissuto di parole. E poi ora che le giornate si stanno accorciando ho ancora più timore della notte che verrà e non so se sarò in grado di fermare le mille capriole del mio cuore.

Però che buono il panino smezzato per risparmiare qualche michelino da investire nelle bollette che aumenteranno in autunno. E che bontà fantasticare sulla vita che vivono le persone nel giro giusto. E che bellezza il tuo sorriso a fine giornata quando ferito e squattrinato ti abbraccio e tu confermi la fiducia in me. Lo so che dobbiamo contare innanzitutto su noi stessi, ma a volte è necessario avere qualcuno che tifi per te, qualcuno che ti lanci la borraccia piena d’acqua quando senti le gambe tremare, la schiena a pezzi e la testa ti consiglia di mollare, che alla fine tu non sei mai stato degno del gruppo di testa.

Però comunque ho paura del futuro – sono queste le parole della settimana – anche perché chi abbiamo votato ci vuole come animali famelici ed io invece vorrei soltanto conquistare un pizzico di tranquillità, che poi dovrebbe essere la base di un Paese democratico.