Genio e ordine

Genio e ordine

La volta scorsa abbiamo parlato di come un gruppo unito e compatto, privo del campione che emerge su tutti gli altri, possa essere in grado di compiere imprese eccezionali poiché i singoli calciatori realizzano se stessi all’interno di un contesto più generale. D’altra parte, però, una squadra di calcio non è la semplice somma delle sue parti. Che fine fa la diversità intrinseca delle singole individualità nella totalità di una squadra? Come può convivere una spiccata personalità, il talento, in uno schema unico?  Dopo aver scomodato Hegel, è necessario chiamare in causa un altro fuoriclasse della filosofia tedesca, Immanuel Kant.

IL GENIO

Nella Critica del Giudizio (1790), il filosofo di Könisberg elabora sua personale concezione del “genio”:

«Il genio è il talento (dono naturale), che dà la regola all’arte. Poiché il talento, come facoltà produttrice innata dell’artista, appartiene anche alla natura, ci si potrebbe esprimere anche così: il genio è la disposizione innata dell’animo per mezzo della quale la natura dà la regola dell’arte» (Critica del Giudizio).

Al contrario della scoperta scientifica, che è il risultato di un metodo, quindi insegnato e imitato, la produzione artistica non segue metodi scientifici, ma si fonda su regole che provengono dalla natura. Kant identifica le prerogative del genio in tre aspetti: 1) il genio è originale; 2) il genio è capace di produrre opere esemplari, ossia che fungono da modelli per gli altri; 3) il genio non può mostrare scientificamente come compie la propria produzione.  A differenza di quanto si possa pensare, il genio non è accompagnato da quella sregolatezza di cui tanto si decantano le lodi. L’originalità dell’arte deve essere sempre accompagnata dalle regole della natura, altrimenti si cadrebbe nella stravaganza. Per questo motivo, l’opera d’arte è insieme la sintesi di necessità e libertà. Per quanto libera e geniale sia infatti l’ispirazione dell’artista, egli dovrà tuttavia fare i conti con le regole del mondo della natura.

Questa concezione funziona perfettamente per capire i meccanismi di una squadra di calcio. Il campione (il genio, il talento) non deve limitare le proprie potenzialità ma deve esaltarle per metterle al servizio del gruppo. Tale modello, quindi, riesce sia a mantenere alto lo spirito complessivo della squadra sia a rispettare il ruolo di una personalità straordinaria all’interno di una complessità. Il genio che si esalta sulla base di regole ben specifiche si incarna perfettamente nella figura di Johan Cruijff e nella nazionale olandese.

IL PROFETA DEL CALCIO E L’ARANCIA MECCANICA

Nelle discussioni su chi sia il più forte calciatore di tutti, ancora oggi non si è trovata risposta certa. Il binomio Maradona-Pelè è stato ultimamente da quello composto da Cristiano Ronaldo e Messi, per rendere ancora più ardua la sentenza di noi appassionati. C’è una chiave però sulla quale tutti sono d’accordo senza lasciare spazio alle interpretazioni. Se dobbiamo soffermarci sul calciatore che più di tutti ha lasciato un segno nel calcio in senso assoluto, la risposta non può che essere Johan Cruijff. Non si parla solamente del fatto che dall’idea calcistica del fenomeno olandese siano nate quelle che rimangono le ultime rivoluzioni della storia calcio, ossia il Milan di Sacchi e il Barcellona di Guardiola (che di Cruijff è stato un allievo diretto), ma di come i suoi concetti tattici siano alla base del calcio moderno: la creazione dello spazio, il possesso palla e la circolazione del pallone, il falso nueve, l’inserimento in area dei terzini. Tutto ciò realizza la visione di un calcio che vedeva nell’organizzazione collettiva l’esaltazione della singola genialità. E il genio è Johan Cruijff, nemmeno a dirlo. Difficilmente inquadrabile in un ruolo specifico, sapeva unire il senso della posizione di un difensore, le doti di impostazione di un regista e la reattività di un attaccante. Dal suo talento prende vita il ciclo leggendario dell’Ajax e del calcio olandese: con i Lancieri vincerà, dal 1964 al 1973, 6 Campionati, 4 Coppe dei Paesi Bassi e alzerà per 3 anni consecutivi la Coppa dei Campioni, dal 1971 al 1973. Nel ’71, nel’72 e nel ’74 vince il Pallone d’Oro, il primo a riuscirci. Nel pieno del suo splendore calcistico lascia l’Ajax e l’Olanda, e si trasferisce, nel 1973, al Barcellona che riporta subito al titolo, dopo 13 anni di digiuno e di dominio del Real Madrid. Cruijff è il primo violino di quella meravigliosa e sfortunata orchestra che sarà la nazionale olandese ai Mondiali del 1974, l’Arancia Meccanica. Il gioco dell’Olanda di Cruijff, allenata dal leggendario Rinus Michels, passerà alla storia come calcio totale, per la fluidità interpretativa da parte di ogni singolo componente della squadra: tutti partecipano alla manovra d’attacco, tutti si fanno carico delle mansioni di copertura nella fase di difesa. Quando un giocatore passa la palla al proprio compagno, egli prenderà successivamente il suo posto in quella zona del campo, in modo da coprire tutti gli spazi. Il talento di Cruijff è perfettamente inserito in questa macchina quasi perfetta. Quasi perfetta perché il sogno di vincere la Coppa del Mondo sbatte sulla Germania Ovest di Franz Beckenbauer e Gerd Müller, che nella finale di Monaco di Baviera si impone per 2-1. Uno dei pochissimi casi in cui un secondo posto riesce a rubare la scena a un primo perché «i risultati finiscono sugli almanacchi, lo spettacolo resta nella memoria» (Fabrizio Tanzilli, Lo spazio della libertà).