Per Amore

Per Amore

Si resta per amore
Per tutte le sue varianti
Nei paesi muti si resta per amore
Paesi muti, non silenziosi
Che pure il silenzio può essere poesia
Ma un paese muto non sospira neanche
Non dorme
Semplicemente non esiste
E allora solo l’amore può farti rimanere
Può farti credere che nei vicoli ci sia ancora un piccolo rumore da cogliere
Un fruscìo, un lamento, un gemito
Il paese muto ti parla
Devi avere buon orecchio
Devi essere predisposto
All’ascolto
E all’amore
Paesi muti
Irpinia 2022

La storia di una piccola cittadina e della sua aria

La storia di una piccola cittadina e della sua aria

«Lo senti, lo senti l’odore? Napalm figliolo, non c’è nient’altro al mondo che odora così! Mi piace l’odore del Napalm come aperitivo»

Tenente colonnello Kilgore – Apocalypse Now

Un vento freddo ha continuato a tirare in questi giorni in tutte le strade della città. Soffiando senza sosta e senza tregua, sulle bandiere tricolore, già sbiadite, rimaste esposte su qualche balcone dalla scorsa estate, tra le cime degli alberi ancora spogli, tra le strade strette e silenziose del centro storico, tra le vetrate malandate dei tanti palazzi cittadini. Continua a soffiare anche nelle infinite ed infinitesime piazze cittadine o nei grandi spazi aperti, anonimi come pochi, un tempo chiassosi e annoiati ritrovi di una gioventù che non c’è più e diventati sempre più un rifugio silenzioso di auto.

Un vento acre e pungente che si dirama nelle strade e nelle piazze di Atripalda, media cittadina, di una media provincia del Sud e ci prende tutti. Ci prende alla testa quando, rapidamente, risale le narici e quasi in contemporanea scende per la gola e ci lascia con un peso sul petto: respiriamo a fatica e ci costringe al silenzio o all’urlo disperato e ansimato. Due reazioni opposte, ma due reazioni di una stessa condizione.

Il vento di questi mesi, non è frutto di una questione atmosferica, non solo questo. In questi mesi il vento ha assunto un odore chiaro e definito e così Atripalda ha un suo nuovo odore, quello di una comunità frammentata, incattivita e priva di una qualsivoglia speranza.

Niente di originale per una cittadina, che ancora oggi, si nasconde dietro al suo passato perché incapace di lottare per un presente migliore e di costruire un futuro adeguato. E così ritornano aggettivi vecchi e che a tratti risuonano fastidiosi per chi vive tra mille difficoltà:

Atripalda, città del commercio, in mezzo alla recessione e alla crisi!

Atripalda, città della solidarietà, in mezzo alla calunnia e alla violenza verbale e sociale (di alcuni, divenuti tanti)!

Atripalda, città della cultura, dove la cultura deve essere un hobby che qualche giovane annoiato e frastornato dai fumi dell’alcool deve praticare negli anni scolastici a tempo perso, non certo un motivo di emancipazione lavorativa e vita!

Atripalda, città dei giovani, in mezzo a un fiume silenzioso che scorre in senso inverso al nostro fiume Sabato, (che a proposito, non se la passa tanto bene) e che ci consegna un’emigrazione spaventosa!

Mentre l’odore continua a spargersi nelle strade cittadine sempre più vuote, un luogo si riempie a dismisura nei giorni festivi della settimana: la piazza centrale. Vetrina di tanti fino a qualche anno fa sconosciuti ai radar geografici cittadini e che oggi si mettono in mostra, ricordandosi di far parte di una comunità che loro stessi hanno provveduto a frammentare e incattivire, ricordandosi di far parte di una città e dei suoi luoghi, fino a qualche mese fa sconosciuti. Incendiari in un conflitto, tutt’altro che a bassa intensità, dove si è tutti contro tutti.

E nel bel mezzo di questo vortice d’aria sempre più pungente, ci ritroviamo, in tanti, a fare i conti con un’esistenza sempre più difficoltosa. Cresciamo in spazi, fisici e simbolici, chiusi. Non esistono luoghi liberi dove incoraggiare l’aggregazione, non abbiamo la possibilità di creare occasioni di aggregazione senza percepire nell’aria (sempre lei) l’odore di qualche mefitico malessere, condito da quel tanto di malafede che vede nella voglia di far uscire in strada le persone un protagonismo che non ci interessa (e non ci compete). Sacrifichiamo le nostre esistenze individuali (è vero, nessuno ce lo chiede, ma lo facciamo per amore della nostra terra e di coloro che decidono di viverla) per restare e fare qualcosa. Non vogliamo andare via!

Ma quest’aria è troppo più forte di noi e si è già impossessata di tanti e ci troviamo sempre più fuori rotta.

Di questi tempi dovremmo lottare, tutti insieme, solidali gli uni con gli altri, contro una crisi economica (quasi ventennale) che ci ha reso tutti più poveri e disperati. Dovremmo lottare per portare avanti i valori e le ricchezze delle nostre diverse esistenze ed esperienze utili a battere nuove strade di rinascita culturale, sociale ed economica. Dovremmo lottare per ritornare in strada, tutti, e impegnarci direttamente per difendere i nostri spazi comuni dall’incuria e dall’abbandono, dimostrando che tutto questo lavoro può essere più efficace di qualsiasi telecamera. Dovremmo lottare per non lasciare più nessuno indietro, per far sentire tutte e tutti parte della Comunità, esaltando le differenze.

Dovremmo lottare per tanto, ma l’unica cosa che percepisco è sempre e solo quest’aria che continua a soffiare, anche dalle bocche di qualcuno.

Così mi ritrovo (costretto) a raccontare di Atripalda, una media cittadina, di una media provincia del Sud Italia di cui nessuno vuole sentir parlare.

Parlare di sicurezza in provincia

Parlare di sicurezza in provincia

Ho fissato per giorni la pagina bianca del mio computer, per settimane non sono riuscito a scrivere niente che avesse senso. Eppure sono sicuro che se dovessi parlare di sicurezza non la smetterei più, ma nonostante ciò non sono riuscito a scrivere nulla. Antonio, qualche giorno fa mi ha detto che il blocco dello scrittore (anche se non mi reputo tale) è un qualcosa che tende a verificarsi quando non ci si sente propriamente bene, quando i livelli di stress accumulati non ci consentono di essere lucidi al punto giusto per poter fare ordine ai mille pensieri che si rincorrono su e giù per la nostra testa.

Ha ragione Antonio!

Così ho deciso di affidarmi alla Treccani, un po’ come il Matto cantato da De André nel suo splendido riadattamento all’opera poetica di Edgar Lee Masters e ho cominciato a leggere e rileggere la definizione di sicurezza:

sicurezza: La condizione che rende e fa sentire di essere esente da pericoli, o che dà la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli, e simili.

La condizione che ci fa sentire lontani dai pericoli o la possibilità di prevenire, eliminare o rendere meno gravi i danni, le difficoltà o le evenienze spiacevoli. L’ho letta talmente tante volte questa frase che alla fine le parole hanno cominciato ad assumere un significato diverso ogni volta e, non solo, hanno cominciato a risuonare così lontane.

Mi sono, dunque, chiesto: Ma chi sono io per parlare di sicurezza? Io sono lontano da condizioni di pericolo.

Ma poi ho focalizzato l’attenzione sulla seconda parte “rendere meno gravi i danni, rischi, difficoltà, evenienze spiacevoli, e simili”.

Le difficoltà sono tutte intorno e non bisogna arrivare in qualche zona diroccata per rendercene conto. Ogni giorno lo sento nelle voci e lo vedo nei pugni chiusi degli amici e dei coetanei con cui parliamo delle tante impossibilità: di non riuscire a trovare un lavoro dignitoso, di doversi accontentare di contratti e collaborazioni che tutt’al più ci possono portare 600 euro mensili che ci costringono ad essere eternamente giovani, di doversi reinventare quotidianamente, di doversi piegare ad una realtà sociale e culturale che ci vuole consumatori di esercizi commerciali e niente più.

Così mentre camminiamo in una strada secondaria della città, i miei occhi si perdono tra i raggi della ruota della vecchia bicicletta di un’amica e ripenso alle recenti difficoltà che ha dovuto affrontare per poter organizzare la sua prima mostra. Eccoci al punto, non più Esercito Industriale di Riserva, ma Esercito Socio – Culturale di Riserva, quelli di cui si scrivono grandi e belli articoli sui giornali quando da emigrati diventano famosi e affermati, ma che vengono criticati e sbeffeggiati se qui provano a dimostrare che la propria competenza in ambito culturale e sociale è anch’essa un lavoro e che pertanto merita e richiede rispetto. E dunque mentre ancora vago con lo sguardo perso tra i raggi della sua bici ripenso ai proclami dell’imbecille di turno che mi dice che forse per il paese è meglio una telecamera in più, che forse per una scritta su un muro è meglio la pubblica gogna e la legge del taglione, che questo significa sicurezza.

Per me sicurezza significa altro, significa dare a tutti la possibilità di vivere e poter costruire il proprio mondo nel pieno rispetto della propria e dell’altrui esistenza.

Mentre fisso per un’ultima volta questa pagina leggermente piena, ripenso a quel famoso diritto alla felicità che per molto abbiamo provato ad inseguire e a quanto sia ancora lontano dai nostri radar vista la nostra incapacità di parlare e pensare alla sicurezza degli individui in altre modalità.

Il centro di gravità permanente di tutte le nostre speranze (fallite)

Il centro di gravità permanente di tutte le nostre speranze (fallite)

Sono state giornate incredibili, segnate da piogge intensissime, quelle appena trascorse. In molti dicono che abbiano portato l’autunno tutto in una volta.

Così, mentre in questi giorni di bel tempo ristagna l’aria calda che qualcuno imputa all’estate di San Martino, nella piccola piazza del centro storico di Atripalda l’autunno si è realmente lasciato annunciare e lo ha fatto affidandosi al suo tratto più distintivo, le foglie.

Un’innumerevole quantità di foglie morte ricopre il manto erboso, quasi volesse essere un’enorme coperta dai colori tenui. La piazza è vuota e silenziosa, come non accadeva da mesi.

Della sua storia recente è rimasto ben poco. Le panchine vittime, per una parte, del tempo e dell’erosione e, per l’altra, delle azioni degli incivili di turno, hanno comunque resistito più di tutti. Il gazebo, con i suoi colori un tempo accesi, ora sembra un punto buio ed isolato, quasi fosse estraneo all’intera piazza. Infine le mura macchiate di umido e recentemente imbiancate alla buona e meglio per cancellare alcune scritte.

Nel suo silenzio, ancora irreale, di queste mattine autunnali, mi è capitato di ritrovarmi proprio lì. I disoccupati inglesi passavano le proprie mattine a fissare i treni partire alla stazione, cosa fare se una stazione dei treni Atripalda non ce l’ha? Così, nei miei giorni di non lavoro, non posso nemmeno definirmi disoccupato (per lo stato italiano non sono mai entrato nel mondo del lavoro, anche se ho lavorato per 5 anni) mi ritrovo seduto su queste panchine al centro di questa piazzetta. Il luogo non è stato scelto a caso, è forse il luogo che più ha rappresentato le speranze e i fallimenti della mia città e della mia generazione.

Qui è rinata una città, anche se per poco, ma nello stesso luogo è morta una generazione, stroncata nel bel mezzo della sua fioritura. In questi giorni abbiamo deciso di interrogarci sul significato di fallimento e credo che il mio più grande fallimento sia questo: non essere riuscito a contrastare nel migliore dei modi tutti gli ostacoli che hanno portato alla conclusione di una fantastica esperienza. Un’esperienza questa che aveva riavvicinato i tanti, molti giovani, rimasti ustionati da una realtà difficile, a tratti ostile.

Il fallimento è stato aver illuso tanti amici che qui ad Atripalda (più in generale in una media provincia del sud) si potesse vivere coniugando aspirazioni lavorative e ambizioni sociali e invece ci siamo ritrovati ostacolati e ostracizzati.

Ma non è l’occasione per ripensare al solo fallimento personale, è l’occasione di ripensare a quanto questo sia stato il simbolo di un fallimento comunitario, che si porta strascichi ben visibili. Dopo 5 anni si piange ancora l’abbandono e la decadenza di questa piccola realtà, ma al tempo stesso si è pronti a criticare ed infangare ogni azione volta a contrastarla.

Da qui arriva una grande lezione: il fallimento di un’esperienza può rappresentare una lezione di vita, importante per il futuro, solo se si ha la maturità e la capacità di introiettarla ed elaborarla in maniera adeguata. Un processo che richiede fatica, autocritica e lavoro.

Così mentre sto seduto, da solo, in piazzetta capisco che, a fatica, dopo anni sto cercando di riprendermi da quel tipo di fallimento, provando a costruire di nuovo qualcosa. Mentre ci provo capisco di non essere solo e di avere accanto ancora alcuni di coloro che come me da quella esperienza sono rimasti segnati, nel bene e nel male.

Mi chiedo soltanto se chi, in quei giorni ha deciso di abbracciare un silenzio colpevole, stia facendo lo stesso percorso. Dopotutto continuo a credere che si possa ancora imparare dai fallimenti, ma bisogna avere coraggio e maturità per affrontare gli stessi senza sottrarci dalle nostre responsabilità passate e presenti.

Storia di Atripalda attraverso i sentimenti pt.2

Storia di Atripalda attraverso i sentimenti pt.2

Molto spesso tendiamo a dimenticare quello che abbiamo vissuto, soprattutto i momenti più difficili e dolorosi. Non è certo un metodo che applichiamo con consapevolezza, ma è una forma di difesa che la nostra mente tende ad azionare più spesso di quanto potessimo immaginare. È per questo che Cammini Irpini, sin da subito, è diventato qualcosa di estremamente importante.

Anche se giornali e telegiornali continuano a ricordarci dell’esistenza del covid19, abbiamo sicuramente dimenticato quelle che sono state le privazioni, quelle che sono state le rinunce.

Giunti alla sesta tappa di questa magnifica esperienza, possiamo dirlo chiaramente che lo scopo di quanto si sta cercando di costruire è derivato dalle privazioni che in questi due anni la pandemia ci ha costretto ad operare. Rinchiusi per mesi nelle nostre case abbiamo compreso a pieno la bellezza del mondo esterno, di tutto ciò che ci circonda e di quanto fosse necessario per il nostro corpo una funzione tanto umana quanto culturale come il passeggio.

Cammini Irpini ha voluto riportare al centro due delle infinite mancanze di questi ultimi anni: la cura per il proprio benessere psico – fisico e l’attenzione per le nostre strade, le nostre piazze e le nostre città. Da sempre ci troviamo a vivere una sorta di blasé (mi perdonerà Simmel se prendo in prestito questa definizione e la rendo più estesa) che ci aveva reso indifferenti a qualsiasi cosa avesse a che fare con i luoghi da noi vissuti quotidianamente.

Abbiamo così riscoperto che non servono sempre grandi spostamenti per potersi stupire e meravigliare di tanta bellezza e tanta storia che molto frequentemente abbiamo sotto il nostro naso e di cui raramente ce ne rendiamo conto.

18.09.2021 – TAPPA 6 – ATRIPALDA E LA SUA STORIA ANTICA

Quello che più colpisce ed affascina di Atripalda è l’estrema presenza di epoche l’una vicino l’altra. Questo era l’assunto che avevamo definito nella precedente tappa di questo semplice diario dei ricordi che sto provando a creare.

Ripartire da questa definizione è importante per comprendere anche il breve viaggio di sabato. Un viaggio intenso, cominciato con un caldo atipico per una giornata di fine settembre, che per clima e sole non ha avuto nulla da far invidia ai tipici fine settimana di agosto.

Così, in un sabato silente e, al tempo stesso, carico di affanni ci siamo mossi alla volta di via Manfredi. Lungo la strada che si allontana dal centro cittadino ci siamo ritrovati qualche istante prima della partenza.

Abbiamo cercato refrigerio, proprio nei pressi delle mura dell’ex istituto scolastico De Amicis. Da quelle vetrate, più di venti anni fa, volgevo lo sguardo di timido ed annoiato studente dell’ultimo anno di elementari, cercando un insperato rifugio nel mondo esterno. Lì come la filastrocca di Prévert cercavo qualcuno che giocasse con me, che mi aiutasse a fuggire da quel tipo di istruzione meccanica a cui eravamo condannati.

Senza rendermene conto per un anno intero ho avuto modo di convivere con la storia della mia città. Senza rendermene conto, per un anno intero, ogni volta che volgevo lo sguardo all’esterno della finestra le cinta murarie erano lì a farmi compagnia.

Le stesse mura che dopo più di venti anni ci hanno accolto e dove ha avuto inizio un fantastico duetto, in cui si sono alternate nuove e vecchie voci, le volontarie della Pro Loco e Lello Barbarisi di Velecha.

Un susseguirsi di racconti e di spiegazioni hanno accompagnato i nostri passi. Lì tra i resti dell’antica domus siamo ritornati alunni in gita. Ci siamo rivisti nei nostri grembiuli blu passeggiare in fila per due mentre osservavamo incantati le mura, le decorazioni superstiti del tempo e abbiamo assaporato ogni angolo di una storia non sempre accessibile.

Ci siamo ritrovati di nuovo, in quello strano intreccio di ricordi di una comunità che ha provato e prova tutt’ora a rapportarsi con il suo passato più remoto.

Ma come per il sabato precedente il tempo delle riflessioni è stato breve. Riportati al centro di Atripalda, sopra la collina che sovrasta piazza Umberto I ci siamo ritrovati davanti al convento di San Giovanni Battista, da tutti conosciuto con il nome di San Pasquale, per via della venerazione di San Pasquale Baylon. Malgrado l’epoca più recente rispetto alla precedente domus, la tappa non ha certo fatto diminuire il fascino tra i presenti.

Sorto sul finire del 1500 e inizialmente destinato ai barbanti (come venivano chiamati i padri conventuali riformati), negli anni ha visto avvicendarsi diversi ordini, passando per i padri alacantarini scalzi fino ai frati minori. Ma non è stato solo un importante centro religioso cittadino. Negli anni è stato un luogo generazionale non di poco conto. Teatro per decenni di infinite partite di calcio circondato da terre e discese e dove vigeva il motto dialettale “chi tira sa va pesa’” (chi tira la va a prendere, demandando così la responsabilità del tiro e del gesto atletico). Incuria ed intemperie hanno lasciato solo il ricordo di quel campetto in terra ed erba. Negli anni delle nostre adolescenze era un punto di ritrovo visitato soprattutto nei giorni di neve, capace com’era di darci la seconda ottima visuale dell’intera cittadina imbiancata (la prima continuerà a restare la Grotta della Madonna di Lourdes, conosciuta da tutti come Preta ra Maronna).

Anche in questa tappa la conclusione è stata frutto di un crescendo e di una risalita anche geografica della città. Passeggiando lungo via Roma, siamo giunti al confine con Avellino, dove è stato di nuovo Lello Barbarisi a prendere la parola. Tra passione e ricordi di infanzia ci ha parlato della tomba a camera. Inaccessibile cimelio della storia Atripaldese di cui si è fatto strenuo difensore.

Tra le calde luci del tramonto abbiamo concluso la sesta tappa di questo incredibile percorso. Un percorso che ancora una volta ci ha voluto insegnare che dovremmo imparare, nuovamente, a stupirci dei nostri tanti luoghi, luoghi che solitamente diamo per scontati e che in realtà nascondo una storia inaspettata.