Giovani, che fatica

Giovani, che fatica

Tutto potrebbe avere il giusto cominciamento con una data ricorrente. Potrebbe, difatti, avere inizio in un qualsiasi sei luglio degli ultimi cinque anni. Sarebbe da ipocriti non ammettere che da qualche anno a questa parte questa data, che per i poco informati coincide con il giorno del mio compleanno, ha assunto un sapore diverso.

Rispetto agli anni precedenti in cui ogni pensiero e desiderio era proiettato nel futuro, gli ultimi compleanni mi spingono a riflettere, riportandomi quasi sempre al presente. Ritaglio così una piccola parte della giornata per fare quello che la quasi totalità delle persone decide di fare l’ultimo giorno dell’anno: un resoconto di quella che è stata la mia vita recente fino a quel momento.

Sono tante le cose per cui decido di discutere con me stesso, criticarmi abbastanza ed elogiarmi pochissimo, quel tanto che basta per non deprimermi eccessivamente. Non ci metto molto per passare da una dimensione individuale ad una collettiva e allora non è raro che mi capita di ripensare a cosa significa essere giovane e in che modo devo giudicare la condizione giovanile attuale.

Dare una definizione di giovane non è mai un compito semplice e tantomeno preciso. Ma più che soffermarci su questa definizione potrebbe essere interessante comprendere qual è la condizione che si riserva a tutti gli appartenenti a questo specifico gruppo sociale.

COSA SIGNIFICA ESSERE GIOVANI…OGGI

Nelle scorse settimane ho avuto modo di partecipare ad una riunione in merito ad una specifica esperienza di attivismo sociale cittadina e ho potuto ascoltare l’intervento di un ragazzo di alcuni anni più grandi del sottoscritto che, in riferimento alla realtà politica e sociale provinciale negli anni, ha definito l’attuale generazione di giovani più fortunata rispetto la precedente, che per inciso era la sua.

A distanza di giorni continuo a ripensare a questa sua affermazione. La considero un esercizio molto diffuso quello di considerare le esperienze successive alle proprie molto più semplici e i protagonisti delle stesse più fortunati.

L’incontro di qualche settimana fa mi ha spinto a riflettere anche in virtù della mia posizione di testimone privilegiato: mi ritrovo in un periodo della vita in cui possiedo la giusta età di distanza per avere un quadro esaustivo di quelli che sono considerati i giovani attivisti del momento e quelli che erano stati i giovani attivisti di un tempo.

Una posizione questa che mi ha permesso non solo di osservare i due diversi contesti, ma di viverli; non di certo da protagonista, sia ben chiaro, ma a modo mio ho potuto percepire e vivere l’ambiente con i suoi problemi, con le sue soluzioni e con i suoi stati d’animo.

Proprio da questo punto di vista provo per prima cosa a darmi una spiegazione a questa tendenza che contraddistingue le generazioni precedenti, quelle “dei fratelli maggiori”, per intenderci, a semplificare la condizione della generazione successiva.

Una pratica questa, che nasce sicuramente in buona fede, per sentirsi più vicini alle generazioni attuali, ma che nasconde in sé il germe della semplificazione e quindi quello del pre – giudizio.

Osservando le differenti esperienze di attivismo giovanile si possono capire molte cose. Tutte queste forme di azione volute e portate dalle differenti generazioni sono state accompagnate da problemi di natura simile, anche se di forme differenti.

Non è forse vero che tutte le pratiche di attivismo nascono da una mancata condivisione dello status quo sociale e culturale? Che i giovani, più sensibili e sicuramente meno accondiscendenti alle pratiche di potere tendono a non accettare di buon grado condizioni del genere?

Vero, tutte le forme di attivismo nascono dalla stessa difficoltà a non voler accettare un contesto sociale che crea stratificazioni e difficoltà, che non permette a tutti di poter vivere liberamente la propria condizione. Da questo problema tutte le varie generazioni di giovani hanno provato a creare la loro alternativa e tutte quante hanno provato a risolverla attraverso il compromesso, il conflitto e la riconciliazione. Tutte hanno vissuto una fase di riassorbimento che ha, però portato con sé, anche una trasformazione del precedente contesto sociale.

Di fronte a queste condizioni le generazioni precedenti e anche quelle attuali dovrebbero comprendere che anche chi verrà in futuro, ed erediterà una società sicuramente differente rispetto alle precedenti, si troverà a fare i conti con le ingiustizie e le difficoltà del contesto attuale e proverà in tutti i modi a combatterle.

Il compito dei “fratelli maggiori” non è quello di equiparare e soppesare le difficoltà, il compito delle generazioni precedenti è quello di fornire esperienze per poter aiutare le nuove generazioni a costruire gli strumenti migliori per affrontare le difficoltà del loro tempo e regalarci un presente migliore.

Il tempo di ieri…ed è già domani

Il tempo di ieri…ed è già domani

Ci sono degli aspetti curiosi su cui mi capita di riflettere quando ripenso al tempo, tutti in qualche modo collegati tra loro. Il primo, è che anche con l’avvento, o meglio il sopravvento, degli smartphone, sovente mi è capitato di incontrare persone “costrette” a chiedere l’ora. Il secondo, è invece l’espressione incuriosita che, per qualche secondo, illumina il viso di questi inconsapevoli protagonisti delle mie riflessioni quando mi vedono sollevare il polso destro per controllare l’orologio. Una particolarità derivata dal mio essere mancino.

Ma l’aspetto più interessante, ad essere onesti, quando ripenso al tempo è l’immagine che molto spesso ritorna quando questo viene contestualizzato alle piccole realtà provinciali. Nelle più influenti narrazioni, anche cinematografiche, si tende a considerare questo come un qualcosa di lento, dolce, quasi immutabile. Non ci credete? Proviamo a fare un esempio.

Immaginiamo un gruppo di ragazzi, in un piccolo paesino, seduti tutti intorno a un tavolino. Le sigarette, le birre e i bicchieri non si contano, così come le discussioni, alcune più animate, altre più tranquille. Ma in questa piccola immagine d’Italia ci sembra che il tempo non sia mai passato, anzi non possa mai passare. Adesso affidandoci sempre alla nostra fervida immaginazione spostiamoci nel bar di una grande città: accanto al nostro tavolino ci troviamo una coppia di fidanzati, gli occhi si dividono tra la tazza di caffè e lo smartphone che distrattamente controllano ripassando gli impegni della giornata. Contrariamente alla precedente scena il tempo calcolato per questa sarà di qualche minuto.

La facilità con cui abbiamo immaginato queste due scene e il contesto ad esse relativo è disarmante: queste due immagini, infatti, nascondono le false convinzioni di cui parlavamo inizialmente, che condannano un intero ambiente all’immutabilità quasi perenne e di cui i principali responsabili siamo noi.

Una staticità che si riflette, poi, nella definizione dei bisogni e delle necessità sociali e culturali da parte delle istituzioni e di alcuni attori. Anch’essi, come per incanto, fermi ai decenni precedenti. Attori secondari di quel quadro immutabile, precedentemente descritto, ritengono opportune iniziative con cui hanno affermato la loro presenza e a cui hanno provato a dare risposte (obsolete) a problemi trasformati dal veloce progredire del tempo. Hanno consegnato le loro cittadine a tavole rotonde evanescenti, a manifesti stampati vecchi e a manifestazioni folkloriche inneggianti a un passato mitizzato (consiglio di lettura: tutto ciò che riuscite a trovare di Furio Jesi in relazione al mito).

Le nostre terre sotto la scure del tempo, immaginato come immutabile, si sono sempre più trasformate in dormitori, periferie del comune limitrofo più grande, svuotate di forza vitale e conflittuale giovanile. Hanno perso qualsiasi propulsione alla vita e sono diventate luoghi di esistenze precarie, isolate e frammentate. Luoghi in cui si spera che con una piccola iniziativa estiva di sette giorni si possa risollevare un’intera comunità. Già, come se il tempo, sempre lui, in quei sette giorni si potesse immobilizzare e smettere di scorrere e consegnare a tutti quella condizione di festa permanente capace di raccogliere tutti e limitare alla sfera simbolica ogni forma di conflittualità.

Ma non è di questo che hanno bisogno le nostre comunità. Hanno bisogno di noi, del nostro tempo e soprattutto di continuità. Hanno bisogno di umiltà e di ascolto. Hanno bisogno, tanto per citare la prima pagina di un importante quotidiano nei giorni successivi al Terremoto, di qualcuno che faccia presto!

Dopo una festa in villa…ad Atripalda

Dopo una festa in villa…ad Atripalda

Come spesso accade quando qualcosa scuote l’opinione pubblica, e qualche volta anche la coscienza collettiva, ci ritroviamo ad essere sommersi dai pareri più differenti, ma soprattutto ci ritroviamo in balia di tantissime opinioni di sedicenti sociologi e/o criminologi pronti a spiattellare in prima serata qualche polverosa teoria messa a nuovo per l’occorrenza.

Niente di più lontano dalle nostre realtà potremmo pensare, se non fosse che in realtà piccole come le nostre la scossa all’opinione pubblica prova a darla spesso la stampa locale (provinciale e cittadina) che da sempre va a caccia di argomenti capaci di smuovere timidi pomeriggi estivi e anche qualche seduta di consiglio comunale.

Ai più scettici questa cosa sembrerà strana, ma in realtà come in ogni articolo presentato in questa rubrica l’esperienza autobiografica viene sempre in aiuto di chi scrive e anche in questo caso non tarda ad arrivare. Infatti basterà tornare indietro di qualche anno e con la precisione al 2006 per riportare alla luce un caso fortemente esplicativo a quanto scritto poc’anzi.

PERCOCA MECCANICA AD ATRIPALDA

È il 2006 e siamo in piena estate ad Atripalda e come le estati precedenti e quelle successive i cambiamenti sono stati pressoché minimi. Ogni anno per almeno tre mesi si cerca di far fronte, in qualche modo, al caldo reso ancor più insopportabile dall’incredibile tasso di umidità; ma clima a parte, la nostra estate, quell’anno, aveva costruito un percorso parallelo a quello della nazionale di calcio, che dopo anni di cocenti delusioni, si stava apprestando a raggiungere il tetto del mondo ed era così riuscita anche a mitigare l’amarezza delle tante bocciature che avevano colpito la nostra cerchia di amici.

Avevamo così conquistato, nelle nostre vite di adolescenti, qualche settimana di serenità lontane dalle nostre preoccupazioni, quando una scossa improvvisa aveva agitato i pomeriggi estivi atripaldesi. Infatti come un fulmine a ciel sereno la redazione provinciale di un’importante testata giornalistica nazionale aveva deciso di pubblicare in prima pagina le foto tratte da alcuni video YouTube, tutt’altro che recenti e tutt’altro che violenti, cercando di suscitare sgomento nell’opinione pubblica portando alla ribalta delle cronache locali una questione giovanile legata al fenomeno della violenza.

Lungo il fiume Sabato, Atripalda 2006.

Quell’improvvisa scossa aveva raffreddato la nostra estate e ci aveva posto al centro del ciclone, ci aveva trasformato in drughi, intenti ad inscenare quotidianamente dei veri e propri combattimenti tra gladiatori, portando con sé panico e distruzione nella villa comunale.

La notizia di una gioventù violenta non ebbe troppa difficoltà a diffondersi per due ragioni fondamentali: la prima di tipo geografico/urbanistico che vedeva nella villa un luogo di margine dove tutto veniva nascosto dalla sua posizione. La seconda di tipo generazionale, invece, vedeva nei giovani un insieme informe di teppisti e consumatori seriali di droghe.

La diffusione capillare era stata tanto veloce quanto superficiale e la narrazione conseguente era stata universalmente accettata da quasi tutti i partiti politici cui la soluzione proposta fu la stessa ed unanime: in risposta a quegli (presunti) atti andava utilizzato il pugno duro.

Confusi e pieni di rabbia c’eravamo ritrovati impotenti davanti all’incredibile mole di violenza simbolica che ci aveva investito. C’eravamo ritrovati impotenti contro una parte di città che non voleva sapere niente di noi, ma era disposta a giudicarci in maniera dura. A nessuno importava che la nostra sensibilità ci obbligava, già allora a raccogliere anche i rifiuti altrui disseminati nella villa, a nessuno importavano le difficoltà legate alla mancata presenza di un luogo aggregativo.

Foto di fine giornata ecologica, tra i tanti anche alcuni dei gladiatori e teppisti, Atripalda 2014.

Avevano già scelto la loro narrazione nei nostri confronti.

EPILOGO

Parco Pubblico, giornata ecologica Forum dei Giovani. Anche qui, tra i partecipanti sono presenti alcuni di quei teppisti. Atripalda 2015.

C’è voluto poco più di una settimana per far scomparire il fenomeno violenza giovanile dalle cronache locali e dai banchi di Palazzo di Città. Atripalda era ritornata al suo solito clima, preoccupata come sempre più dell’umido che delle persone. L’interesse per la questione giovanile era già scomparso e ai giovani era stato riconsegnato il solito posto ai margini della vita comunale; di tutta questa storia, solo quel gruppo di adolescenti non ha mai dimenticato quella terribile ed ingiusta esperienza e proprio grazie a questo ricordo negli anni successivi sono nate le diverse forme di attivismo giovanile che hanno portato la cittadina a vivere alcune forme di rinascita culturale e sociale.

Piazzetta degli Artisti durante il Tricare – festival del perditempo. La quasi totalità dei gladiatori posa a fine festival nella piazza recentemente rigenerata dagli stessi, Atripalda 2015.

Si ringrazia Sabino Battista per le foto.