Il mondo preconfezionato

Il mondo preconfezionato

Cara Fabiana,

forse in passato mi sarebbe risultato più facile parlare di emarginazione e altrettanto facilmente mi sarei inserita nella schiera delle persone che durante la propria vita hanno vissuto momenti di marginalità. Mi verrebbe da pensare a quando da adolescente venivo un po’ presa in giro all’uscita di scuola, a quando non accettavo né il mio corpo né certi aspetti del mio carattere e quindi mi rintanavo in un mondo un po’ in disparte, a quando alcune delusioni mi hanno trascinata in condizioni di sconforto e alienazione.

Secondo te, in quei momenti ero – o meglio eravamo – delle emarginate? Non so te, ma mi risulta difficile dare una risposta a questa domanda.

L’emarginazione è una cosa molto seria, specchio di una società che sembra non avere spazio per accogliere tutti nel suo ventre materno. O meglio, lo spazio c’è, ma solo per coloro che dimostrano di avere i numeri giusti per entrare a farne parte. Si accettano solo i figli prediletti ed è qui che quell’aggettivo che richiama la maternità assume le sembianze di una nota stonata.

Siamo nell’era dell’omologazione, del “se sei come me sei ok”. Un’eterna selezione basata su parametri ben definiti: o sei così o sei fuori. L’ambizione a una società perfetta, fatta di persone brillanti e di successo che non ammette sbagli e soprattutto diversità. Un’utopia, insomma.

Eppure dietro a quest’utopia l’uomo, creatura dotata di intelligenza, ci corre ancora dietro, convinto che prima o poi questo teatrino possa trasformarsi in realtà. È dietro il sipario, però, che vi è il mondo reale. Un mondo dove alla nascita non tutti vengono forniti degli stessi strumenti per farsi largo nella strada della vita.

Siamo davanti a una gara impari e di conseguenza nulla, ma sembra che più o meno tutti facciano finta di non accorgersene. Non se ne accorgono coloro che quegli strumenti li hanno sempre avuti in dotazione e qui prende vigore l’idea dell’uomo come essere egoista; non se ne accorgono gli emarginati stessi che il più delle volte accettano la loro condizione di perdenti in una gara mai iniziata. E così facendo, questi ultimi non fanno altro che accettare e rafforzare l’idea di una società perfetta che non ha spazio per loro.

La mia non è un’accusa, ma amara consapevolezza. Credo che questa sia una condizione senza via di uscita e che non esisterà mai una società in cui ognuno abbia accesso al proprio successo personale senza tener conto da dove proviene e di cosa possiede.

Ecco, se c’è una cosa in cui siamo tutti assolutamente uguali è l’accettazione. Nasciamo, cresciamo e viviamo in un mondo preconfezionato: è già lì quando veniamo alla luce ed è a quello che ci dobbiamo adeguare perché non ve ne sono altri. Un dio, insomma, che dobbiamo venerare affinché non ci riversi contro disgrazie. Non è una cosa alla quale siamo obbligati. Secondo me, tutti noi veneriamo la società in cui viviamo e ne vogliamo far parte. Durante le manifestazioni, di qualunque tipo esse siano, alla fine mi sembra che si combatta sempre per non essere ritenuti diversi, per avere il riconoscimento dei propri diritti al pari degli altri, per avere un lavoro, una condizione economica come gli altri, per essere gli altri.

“La diversità è un valore aggiunto” è lo slogan del momento da anni e anche io lo credo fortemente. Poi, però, mi guardo intorno e mi accorgo che chi è diverso, chi non sta al passo, è emarginato per volontà propria e della società in cui vive.

Dopo una festa in villa…ad Atripalda

Dopo una festa in villa…ad Atripalda

Come spesso accade quando qualcosa scuote l’opinione pubblica, e qualche volta anche la coscienza collettiva, ci ritroviamo ad essere sommersi dai pareri più differenti, ma soprattutto ci ritroviamo in balia di tantissime opinioni di sedicenti sociologi e/o criminologi pronti a spiattellare in prima serata qualche polverosa teoria messa a nuovo per l’occorrenza.

Niente di più lontano dalle nostre realtà potremmo pensare, se non fosse che in realtà piccole come le nostre la scossa all’opinione pubblica prova a darla spesso la stampa locale (provinciale e cittadina) che da sempre va a caccia di argomenti capaci di smuovere timidi pomeriggi estivi e anche qualche seduta di consiglio comunale.

Ai più scettici questa cosa sembrerà strana, ma in realtà come in ogni articolo presentato in questa rubrica l’esperienza autobiografica viene sempre in aiuto di chi scrive e anche in questo caso non tarda ad arrivare. Infatti basterà tornare indietro di qualche anno e con la precisione al 2006 per riportare alla luce un caso fortemente esplicativo a quanto scritto poc’anzi.

PERCOCA MECCANICA AD ATRIPALDA

È il 2006 e siamo in piena estate ad Atripalda e come le estati precedenti e quelle successive i cambiamenti sono stati pressoché minimi. Ogni anno per almeno tre mesi si cerca di far fronte, in qualche modo, al caldo reso ancor più insopportabile dall’incredibile tasso di umidità; ma clima a parte, la nostra estate, quell’anno, aveva costruito un percorso parallelo a quello della nazionale di calcio, che dopo anni di cocenti delusioni, si stava apprestando a raggiungere il tetto del mondo ed era così riuscita anche a mitigare l’amarezza delle tante bocciature che avevano colpito la nostra cerchia di amici.

Avevamo così conquistato, nelle nostre vite di adolescenti, qualche settimana di serenità lontane dalle nostre preoccupazioni, quando una scossa improvvisa aveva agitato i pomeriggi estivi atripaldesi. Infatti come un fulmine a ciel sereno la redazione provinciale di un’importante testata giornalistica nazionale aveva deciso di pubblicare in prima pagina le foto tratte da alcuni video YouTube, tutt’altro che recenti e tutt’altro che violenti, cercando di suscitare sgomento nell’opinione pubblica portando alla ribalta delle cronache locali una questione giovanile legata al fenomeno della violenza.

Lungo il fiume Sabato, Atripalda 2006.

Quell’improvvisa scossa aveva raffreddato la nostra estate e ci aveva posto al centro del ciclone, ci aveva trasformato in drughi, intenti ad inscenare quotidianamente dei veri e propri combattimenti tra gladiatori, portando con sé panico e distruzione nella villa comunale.

La notizia di una gioventù violenta non ebbe troppa difficoltà a diffondersi per due ragioni fondamentali: la prima di tipo geografico/urbanistico che vedeva nella villa un luogo di margine dove tutto veniva nascosto dalla sua posizione. La seconda di tipo generazionale, invece, vedeva nei giovani un insieme informe di teppisti e consumatori seriali di droghe.

La diffusione capillare era stata tanto veloce quanto superficiale e la narrazione conseguente era stata universalmente accettata da quasi tutti i partiti politici cui la soluzione proposta fu la stessa ed unanime: in risposta a quegli (presunti) atti andava utilizzato il pugno duro.

Confusi e pieni di rabbia c’eravamo ritrovati impotenti davanti all’incredibile mole di violenza simbolica che ci aveva investito. C’eravamo ritrovati impotenti contro una parte di città che non voleva sapere niente di noi, ma era disposta a giudicarci in maniera dura. A nessuno importava che la nostra sensibilità ci obbligava, già allora a raccogliere anche i rifiuti altrui disseminati nella villa, a nessuno importavano le difficoltà legate alla mancata presenza di un luogo aggregativo.

Foto di fine giornata ecologica, tra i tanti anche alcuni dei gladiatori e teppisti, Atripalda 2014.

Avevano già scelto la loro narrazione nei nostri confronti.

EPILOGO

Parco Pubblico, giornata ecologica Forum dei Giovani. Anche qui, tra i partecipanti sono presenti alcuni di quei teppisti. Atripalda 2015.

C’è voluto poco più di una settimana per far scomparire il fenomeno violenza giovanile dalle cronache locali e dai banchi di Palazzo di Città. Atripalda era ritornata al suo solito clima, preoccupata come sempre più dell’umido che delle persone. L’interesse per la questione giovanile era già scomparso e ai giovani era stato riconsegnato il solito posto ai margini della vita comunale; di tutta questa storia, solo quel gruppo di adolescenti non ha mai dimenticato quella terribile ed ingiusta esperienza e proprio grazie a questo ricordo negli anni successivi sono nate le diverse forme di attivismo giovanile che hanno portato la cittadina a vivere alcune forme di rinascita culturale e sociale.

Piazzetta degli Artisti durante il Tricare – festival del perditempo. La quasi totalità dei gladiatori posa a fine festival nella piazza recentemente rigenerata dagli stessi, Atripalda 2015.

Si ringrazia Sabino Battista per le foto.

Perdere il tempo ad Atripalda

Perdere il tempo ad Atripalda

Sono le 9 di una mattina di ottobre. Atripalda è già caotica, l’aria è calda e sono in fila al bar, una rarità per me e per i numerosi avventori miei conoscenti che in quel momento si erano già ritrovati lì davanti.

Siamo tutti lì, in quel piccolo bar che anticipa la piazza e che accoglie tutti coloro che la mattina camminano ancora assonnati nelle direzioni desiderate; siamo tutti lì, è il 2019 e di coronavirus nessuno ha ancora sentito parlare, o per lo meno la totalità delle persone che sono in fila per il caffè non ne hanno sentito parlare. La piccola folla si muove velocemente e proprio in questo suo progredire mi ritorna, d’improvviso, in mente un libro letto nei mesi precedenti: Binario morto di Luca Rastello, indimenticabile giornalista e scrittore scomparso 5 anni fa, e Andrea De Benedetti. L’opera, un’inchiesta sull’incredibile inutilità della costruzione dell’alta velocità in Val di Susa e più in generale in Europa, viene resa evidente attraverso un’unità di misura tutt’altro che convenzionale, un pacchetto di caffè che sarà l’unica merce a completare l’intero corridoio 5 Lisbona – Kiev. In quel momento di attesa ho ripensato al caffè sotto un’ottica differente, non più come sostanza da assumere per far fronte alla giornata, ma come unità di misura del tempo.

Nelle nostre aree, interne e meridionali, il tempo potrebbe essere ancora misurato con un caffè. Infatti se provassimo a ritornare nel piccolo bar del centro in quelle prime ore della giornata lavorativa dello scorso ottobre noteremmo subito che la velocità delle consumazioni potrebbe essere condensata tutta in pochi minuti, sapientemente divisi tra consumo della bevanda e lo scambio di veloci e semplici battute tra colleghi prima di congedarsi.

Ma sempre facendo fede alla nostra capacità immaginativa se provassimo invece a ritornare in quel bar all’imbrunire vedremmo gli stessi della mattina calmi, seduti al tavolino, intenti a consumare lentamente il proprio caffè e regalando all’aria intere sigarette.

Il caffè, dunque, ha svolto il compito desiderato: ci ha appena dimostrato che la fruizione del tempo è strettamente connessa alla produzione (lavoro) e che quando questo si conclude, il consumo del tempo tende a dilatarsi dandoci una sensazione di lentezza che non sempre ci entusiasma.

DAL TEMPO DI CONSUMO AL LUOGO DI CONSUMO

La dicotomia fruizione del tempo – produzione ci porta a vivere anche il tempo libero alla ricerca, spasmodica, di un qualcosa che possa essere speso, consumato, dando perciò ad esso un prezzo. Questa relazione porta con sé alcune conseguenze che si riflettono sulla ricerca dell’impiego ideale del tempo libero e che ci riportano a due reazioni fondamentali: la prima è riscontrabile in un atteggiamento nevrotico che ci conduce a ricercare disperatamente un qualcosa che ci faccia passare il tempo, anche e soprattutto prezzolato, mentre la seconda ci condanna all’immobilismo più totale. Infatti rassegnati dall’esito negativo di qualsiasi tipo di impegno non ci resta che aspettare che anche l’ultima parte della giornata termini e ci riporti, anima e corpo, alla solita routine giornaliera.

Una conseguenza non indifferente di questa condizione è vissuta dallo spazio che difatti si intromette in maniera dirompente in qualsiasi riflessione che vede al centro la relazione fruizione del tempo e consumo/produzione dello stesso. Gli spazi cittadini infatti sono attori passivi di questa relazione e sono caratterizzati dalle diverse modalità di impiego che gli conferiamo.

Così ci capita di vivere un luogo della nostra città più di un altro perché ci ritroviamo alla costante ricerca di una modalità di consumo del tempo caratterizzata dalla pratica di consumo/produzione. Un luogo cittadino svuotato da qualsiasi logica di consumo sarà costretto all’isolamento e al successivo abbandono.

TEMPO DI CONSUMO O TEMPO LIBERO? MEGLIO PERDERE IL TEMPO…

Ma per un momento, prima di proseguire, ritorniamo alla nostra unità di misura: sono le 6:30 di una mattina di agosto e al solito bar che fa da anticamera alla piazza, un drappello di ragazzi accompagna al caffè mattutino un cornetto, hanno passato la notte in quel piccolo lembo di città che fino a qualche anno fa veniva attraversato in tutta fretta per raggiungere i luoghi dove poter trascorrere le proprie giornate. Da qualche mese a questa parte questa piccola linea di frontiera è diventata il centro di una rinascita, dove oltre al tempo di lavoro, in molti ritornano per passare il proprio tempo libero.

 

Proprio questo cambio di pensiero ha portato alla nascita del Tricare, dal dialetto attardarsi, perdere tempo, fare tardi, la cui logica è stata proprio quella di ricercare non più luoghi soliti del consumo e di spendibilità del tempo, ma di rituffarsi in uno spazio come tanti a farlo rivivere condannandosi consapevolmente a quella immobilità tanto temuta.

Per due giorni alla settimana un’intera comunità ha provato a passare le giornate all’insegna della calma, dei ritmi lenti e della ridefinizione dei nostri momenti liberi.

Un insegnamento molto importante che, come nel precedente articolo, ha come centro noi, gli abitanti delle nostre città e la necessità ad un esercizio quanto meno interessante che ci permetta di vedere le nostre piazze e le nostre strade senza lasciarci condizionare dai significati sovrastrutturali pre-esistenti che alcuni luoghi hanno assunto nel corso degli anni.

Sarebbe bello misurare il tempo di un caffè non più in base al suo consumo, ma in base al percorso che siamo capaci di inventarci per arrivare al nostro bar di fiducia. Ricercando così, non la strada più veloce per massimizzare il nostro tempo libero, ma quella più interessante per perderlo.

Si ringraziano Sabino Battista ed Ilaria Piccirillo per le foto.

Io Andrea Famiglietti, avendo preso la decisione di raccontarmi…

Io Andrea Famiglietti, avendo preso la decisione di raccontarmi…

Avrei voluto iniziare prima, forse avrei dovuto, ma dentro di me sapevo che non sarebbe stato giusto. Ho aspettato sette giorni per iniziare questa nuova avventura, forse in cuor mio sapevo che sarebbe stato necessario un certo distacco cosa che non avrei certo avuto qualche giorno fa. Dato che è la prima pubblicazione mi sembra doveroso spiegare le motivazioni che mi hanno spinto a creare questo piccolo spazio: potrebbe essere una storia romanzata, ma purtroppo non è così, tutto è iniziato un mercoledì imprecisato.

Qui potrebbe già esserci la prima perplessità di qualcuno che potrebbe obiettare il giorno, potrebbe esclamare: “come fai a sapere che è stato proprio un mercoledì, imprecisato per giunta”. La spiegazione sta nel mio precedente lavoro, infatti ho passato tre anni a lavorare in una cooperativa sociale della mia provincia che si occupava di servizio civile e in questi tre anni di contratti collaterali ed imprecisate mansioni l’unica costante che ho avuto è che il mercoledì qualcuno dei miei pochi diritti veniva meno. Capitava sempre qualcosa, di improvviso che mi portava ad avere problemi soprattutto quel giorno; un esempio su tutti: le improvvise e situazioniste riunioni organizzate ad orari improbabili del pomeriggio, così anche se mi toccavano sei ore lavorative mi ritrovavo a dover attendere un’incredibile riunione alle 18 di sera per discutere di cose importanti come il trasferimento delle scrivanie da un ufficio all’altro e la cosa bella e che queste riunioni duravano anche tre ore.

Ecco, proprio in uno di questi mercoledì maletratati (per citare Vincenzo Rabito nella sua opera Terra Matta) ho preso la decisione di andarmene e di raccontare le mie esperienze al fine di condividere e trarre le dovute attenzioni per il futuro. La voglia di raccontarsi c’era tutta, ci voleva soltanto un nome, ma non c’è voluto molto per trovarlo, dopotutto ho quasi 31 anni, ho passato 3 anni a lavorare nella più totale precarietà contrattuale e sentimentale, provengo dalla provincia meridionale e l’unico appellativo che mi veniva in mente ogni volta che mi ripensavo era quello dialettale dello scarpe sciuote, scarpe sciolte.

La figura dello scarpe sciolte si potrebbe dire che ce l’ho cucita addosso da sempre, già quando ero piccolo gli anziani del mio rione erano soliti chiamarmi, in tono scherzoso, così, ma crescendo queste due parole hanno assunto un tono diverso.

Si definisce scarpe sciolte colui che si muove all’interno di un dato contesto con una fortissima dose di improvvisazione e proprio a causa di ciò rischia costantemente di cadere ed inciampare nelle diverse situazioni in cui viene a trovarsi. Giocando un poco con gli elementi uno scarpe sciuote potrebbe essere anche chi ogni giorno deve lottare quotidianamente nel mondo lavorativo, sociale, culturale perché si trova ad essere identificato come un improvvisato per comodità altrui, per convenienza o per ragioni sociali, culturali e politiche. L’aspetto interessante sta proprio in questo relegare qualcuno ai margini di una catena produttiva, di un contesto sociale e/o culturale è che quando ci si trova in questo limen è più facile osservare un dato ambiente e di conseguenza raccontarlo. Questo vuole essere uno spazio di narrazione di esperienze e di condivisione. Non mi resta che esclamare

“SCARPE SCIUOTE DI TUTTO IL MONDO UNITEVI!”