
Breve riflessione sull’autocensura
Ci sono degli argomenti topici, che occupano per tanto tempo il centro del dibattito pubblico. Quello che abbiamo deciso di affrontare in queste settimane rientra proprio in questa speciale sezione.
Da qualche anno a questa parte ci siamo ritrovati spesso a parlare o a sentir parlare dell’argomento in questione; tra infiniti ed iper illuminati salotti televisivi, tavole rotonde, podcast radiofonici e articoli di giornale ci hanno dimostrato che la questione del politicamente corretto è più che centrale.
Anche in questo caso si sono create differenti platee, con altrettanti differenti opinioni, ma tra tutte quella più interessante ed estrema è quella che definisce il politicamente corretto come una vera e propria dittatura.
Secondo questo numeroso pubblico ci ritroviamo a vivere con una sorta di bavaglio immaginario capace di limitare le forme di libertà e di esercitare una pressione tale da costringere chiunque all’autocensura.
Di questo ne ha parlato e disegnato, in maniera egregia, Zerocalcare, che nel numero di Internazionale 1409, di qualche settimana fa ha dato una giusta collocazione e definizione di quanto scritto poc’anzi.
Come già successo in precedenza, io aggiro l’ostacolo, o per meglio dire decido di concentrarmi su un dettaglio, un particolare. Lo spunto per questo articolo nasce dall’espressione comune con cui molti si riferiscono quando parlano di politicamente corretto, ovvero l’autocensura.
La cosa più interessante è che per molti questa pratica sembra essere nata proprio in seguito all’entrata in campo del politicamente corretto. Ovviamente questo non è vero ed esistono molte pratiche di autocensura più che rodate e assimilate.
Tra le tante, due sono quelle che prenderò in esame.
Il primo caso riguarda tutti noi, in quanto esseri sociali. Nasciamo e cresciamo in contesti culturali e sociali determinati (dette sovrastrutture) e ne acquisiamo norme, regole e valori. Una pratica che mettiamo in atto fin dalla nostra nascita, attraverso l’eredità culturale. Una pratica che ci costringe alla riflessione e al ragionamento ogni qualvolta stiamo per compiere un atto che, socialmente, potrebbe essere riconosciuto come amorale. Ci soffermiamo sulla nostra possibile azione, ne valutiamo le possibili conseguenze, dopodiché, il più delle volte, percorriamo la via della prudenza e decidiamo di non agire, compiendo così una sorta di autocensura.
Il secondo caso che ci riguarda da vicino è quello che ci accade sul posto di lavoro. Non di rado ci siamo ritrovati al dispetto di un superiore o di un datore di lavoro e altrettanto, non di rado, ci siamo ritrovati in disaccordo, a dover dimostrare che scelte e visioni potessero essere non solo scellerate, ma anche dannose e pericolose per l’azienda stessa, ma per non rischiare ci siamo ritrovati costretti al silenzio. Sono molti gli ex colleghi e amici che mi hanno raccontato situazioni del genere. Quel silenzio non è di per sé una forma di autocensura.
Quello che con, questi brevi e differenti esempi, ho voluto dimostrare è che quando in tanti si ritrovano a parlare, allarmati, di autocensura, di bavaglio, parlano di un atteggiamento abbastanza comune che hanno applicato e che applicano nel proprio vivere quotidiano e che accettano universalmente.
Dovremmo, dunque, cominciare a riflettere su questa pratica e sulle ragioni ad essa connessa. Molto spesso quella che consideriamo “autocensura” dovuta al politicamente corretto è semplicemente frutto di una riflessione più approfondita di un pensiero o ragionamento e delle conseguenze che potrebbero scaturirne.
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