da Andrea Famiglietti | Gen 12, 2022 | Riflessioni
Il 2021 si è concluso da qualche giorno e, a differenza degli altri anni, l’aria euforica e carica di aspettative dell’ultimo dell’anno non ci ha messo molto a dissiparsi. Una celerità del genere non l’avevo mai vista, nemmeno durante gli ultimi giorni di nebbia, prima dell’arrivo del grande freddo.
La cosa, però, non ci ha colto di sorpresa, non più di tanto! A dimostrazione della mia tesi c’è proprio la tematica che in queste settimane abbiamo deciso di affrontare. Nelle nostre recentissime e fugaci conversazioni ci siamo ritrovati a percepire indistintamente l’atmosfera che regna incontrastata da settimane: un profondo senso di stanchezza si è fatto strada in questo brevissimo 2022.
Di sicuro ha giocato un grande ruolo il perdurare della pandemia, ma credo che per molti quest’ultima condizione rappresenti la (in)giusta chiosa a situazioni di estrema difficoltà già precedentemente esistenti.
È il caso di molti di noi, che anche in questo 2022 saremo costretti a recitare il nostro solito copione: quello di dannati della terra (e delle aree interne), di precari perenni.
Un copione di una storia già vista, una storia che non ci ha mai abbandonato e che comincia a farsi ogni giorno sempre più pesante. Cambiano le ambientazioni in cui siamo costretti a rappresentare la nostra quotidiana tragedia sociale, ma non certo l’andamento delle nostre esperienze.
Una riflessione trita e ritrita, anche questa, che continua a farsi sentire ogni volta che mi tocca subire la mia dose quotidiana di televisione. Così mentre mi ritrovo a pranzo con la mia famiglia, il solito servizio del tg di La7 in cui si snocciolano i dati dell’Istat sul relativo tasso dell’occupazione giovanile mi rammenta che il dato è in crescita – di lunedì il tasso è sempre in crescita – per poi andare in caduta di mercoledì, soprattutto se fuori piove e le temperature sono rigide, per poi risalire, ottimisticamente, venerdì. Lo schizofrenico bipolarismo dei servizi di questo genere mi costringono a passare la restante parte del pranzo con lo sguardo rivolto all’opposto dello schermo e mi costringono a consumare, rabbiosamente, quello che resta nel mio piatto. La masticazione si fa più fitta e aggressiva, mentre le immagini a corredo del servizio inquadrano qualche strada trafficata e commerciale di una grande città a caso, i numeri continuano a cadere dall’alto non tenendo conto dell’incredibile mole di contratti a tempo determinato, dell’infinita sfilza di partite iva aperte e del fatto che sempre più giovani decidono di abbandonare anzitempo il mercato del lavoro.
A quasi un anno dell’insediamento del governo Draghi, il governo dei “migliori”, mi rendo conto che la tacita complicità dei media resiste, che raccontano di un paese che rinasce e di un PNRR che si attende come manna dal cielo, ma che attualmente risulta essere poco più che un documento di 237 pagine, in cui la parola giovani compare esattamente 123 volte e ogni volta risuona sempre più vuota e più banale.
La sensazione che si ha ogni volta che si legge la parola giovani all’interno delle missioni è quella di una pezza di appoggio o, in molti casi, di soggetti passivi che per l’ennesima volta dovranno subire la politica di turno.
Dopo anni ci ritroviamo a subire ancora, ed in parte è colpa nostra, le azioni altrui.
Le accettiamo, lasciandoci andare a qualche mugugno sommesso, nei luoghi di lavoro dove il contratto è sempre troppo basso e le ore sono sempre troppe, nei luoghi pubblici e istituzionali della politica, dove l’arte dell’avere sempre ragione e demandata ai soliti imbecilli di turno che brandiscono la parola rivoluzione pur essendo i principali difensori dello status quo e degli interessi personali, nei luoghi di confronto che si trasformano sempre più in luoghi di consumo e sempre meno di confronto, nelle nostre realtà domestiche sempre più logore e depresse.
Intanto i giorni passano e in strada l’aria gelida mi sputa in faccia tutta la sua violenza, ricordandomi che siamo solo all’inizio dell’anno. Un amico, incontrato per caso, mi saluta e mi confessa la sua incredibile stanchezza. Da qualche anno ha aperto una piccola attività, ma le difficoltà si fanno sempre più grandi e i guadagni sempre più esigui. In quei pochi attimi mi accorgo di quanto ci è comune questo destino e di quanto è altrettanto comune questo stato d’animo.
Ma, in fondo, voglio ripartire dal clima euforico che di solito si diffonde alla fine dell’anno e proprio da questo voglio conservare una sola cosa, la speranza che prima o poi tutta questa stanchezza collettiva porti a qualcosa di nuovo, ma soprattutto ci spinga ad agire realmente, perché ad un certo punto dovremmo pur stancarci di essere stanchi.
da Andrea Famiglietti | Set 22, 2021 | Riflessioni
Tutto potrebbe avere il giusto cominciamento con una data ricorrente. Potrebbe, difatti, avere inizio in un qualsiasi sei luglio degli ultimi cinque anni. Sarebbe da ipocriti non ammettere che da qualche anno a questa parte questa data, che per i poco informati coincide con il giorno del mio compleanno, ha assunto un sapore diverso.
Rispetto agli anni precedenti in cui ogni pensiero e desiderio era proiettato nel futuro, gli ultimi compleanni mi spingono a riflettere, riportandomi quasi sempre al presente. Ritaglio così una piccola parte della giornata per fare quello che la quasi totalità delle persone decide di fare l’ultimo giorno dell’anno: un resoconto di quella che è stata la mia vita recente fino a quel momento.
Sono tante le cose per cui decido di discutere con me stesso, criticarmi abbastanza ed elogiarmi pochissimo, quel tanto che basta per non deprimermi eccessivamente. Non ci metto molto per passare da una dimensione individuale ad una collettiva e allora non è raro che mi capita di ripensare a cosa significa essere giovane e in che modo devo giudicare la condizione giovanile attuale.
Dare una definizione di giovane non è mai un compito semplice e tantomeno preciso. Ma più che soffermarci su questa definizione potrebbe essere interessante comprendere qual è la condizione che si riserva a tutti gli appartenenti a questo specifico gruppo sociale.
COSA SIGNIFICA ESSERE GIOVANI…OGGI
Nelle scorse settimane ho avuto modo di partecipare ad una riunione in merito ad una specifica esperienza di attivismo sociale cittadina e ho potuto ascoltare l’intervento di un ragazzo di alcuni anni più grandi del sottoscritto che, in riferimento alla realtà politica e sociale provinciale negli anni, ha definito l’attuale generazione di giovani più fortunata rispetto la precedente, che per inciso era la sua.
A distanza di giorni continuo a ripensare a questa sua affermazione. La considero un esercizio molto diffuso quello di considerare le esperienze successive alle proprie molto più semplici e i protagonisti delle stesse più fortunati.
L’incontro di qualche settimana fa mi ha spinto a riflettere anche in virtù della mia posizione di testimone privilegiato: mi ritrovo in un periodo della vita in cui possiedo la giusta età di distanza per avere un quadro esaustivo di quelli che sono considerati i giovani attivisti del momento e quelli che erano stati i giovani attivisti di un tempo.
Una posizione questa che mi ha permesso non solo di osservare i due diversi contesti, ma di viverli; non di certo da protagonista, sia ben chiaro, ma a modo mio ho potuto percepire e vivere l’ambiente con i suoi problemi, con le sue soluzioni e con i suoi stati d’animo.
Proprio da questo punto di vista provo per prima cosa a darmi una spiegazione a questa tendenza che contraddistingue le generazioni precedenti, quelle “dei fratelli maggiori”, per intenderci, a semplificare la condizione della generazione successiva.
Una pratica questa, che nasce sicuramente in buona fede, per sentirsi più vicini alle generazioni attuali, ma che nasconde in sé il germe della semplificazione e quindi quello del pre – giudizio.
Osservando le differenti esperienze di attivismo giovanile si possono capire molte cose. Tutte queste forme di azione volute e portate dalle differenti generazioni sono state accompagnate da problemi di natura simile, anche se di forme differenti.
Non è forse vero che tutte le pratiche di attivismo nascono da una mancata condivisione dello status quo sociale e culturale? Che i giovani, più sensibili e sicuramente meno accondiscendenti alle pratiche di potere tendono a non accettare di buon grado condizioni del genere?
Vero, tutte le forme di attivismo nascono dalla stessa difficoltà a non voler accettare un contesto sociale che crea stratificazioni e difficoltà, che non permette a tutti di poter vivere liberamente la propria condizione. Da questo problema tutte le varie generazioni di giovani hanno provato a creare la loro alternativa e tutte quante hanno provato a risolverla attraverso il compromesso, il conflitto e la riconciliazione. Tutte hanno vissuto una fase di riassorbimento che ha, però portato con sé, anche una trasformazione del precedente contesto sociale.
Di fronte a queste condizioni le generazioni precedenti e anche quelle attuali dovrebbero comprendere che anche chi verrà in futuro, ed erediterà una società sicuramente differente rispetto alle precedenti, si troverà a fare i conti con le ingiustizie e le difficoltà del contesto attuale e proverà in tutti i modi a combatterle.
Il compito dei “fratelli maggiori” non è quello di equiparare e soppesare le difficoltà, il compito delle generazioni precedenti è quello di fornire esperienze per poter aiutare le nuove generazioni a costruire gli strumenti migliori per affrontare le difficoltà del loro tempo e regalarci un presente migliore.
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