Esistevamo già prima delle mie stronzate nei tuoi giorni e del tuo strabismo che mi confonde ancora (non mi distraggo quando parli, è che a volte non so se ti rivolgi a me). E c’eravamo prima dei stupidi tramonti assieme, quando magari ci commuovevamo guardando mari opposti oppure calpestando una terra diversa, i miei passi più cialtroni dei tuoi, sempre precisi ed efficaci. E chissà tu dov’eri quando quel bambino che assomiglia a Middle mi rubò la merendina ed io, ovviamente di nascosto, ruppi i suoi occhiali. Ricordo che piangeva e nulla più, fu la prima soddisfazione nella mia vita. E chissà dov’ero io quando andasti male nell’interrogazione di storia e magari imprecasti contro Cesare.
Se ci penso bene, da quando io e lei stiamo assieme, che poi assieme è brutto come termine, abbiamo compiuto le stesse azioni che facevamo già nelle nostre vite precedenti. Però è diverso. Ad esempio, ti senti meno stupido se durante un funerale ti scappa da ridere (per fortuna è un fatto vero) o avverti maggiore consapevolezza quando arriva il momento di prendere una decisione perché sai che a quel punto un eventuale boomerang potrebbe colpire anche la sua di testa.
E pensando a lei ci sarebbe migliaia di parole da scrivere e aneddoti da raccontare, però poi sarebbe tipo una lettera e riguarderebbe soltanto noi, quando invece io, che non sono nessuno, vorrei soltanto invitarvi a stringere il vostro lui/lei e pensare che le vite di prime erano bellissime, ma mancava quella magia che poi diventa noia che però la si può sconfiggere e la solitudine si combatte meglio. Che poi, e ora mi viene da sorridere, è tutto qua. Adesso avrei romanzi da leggere, canzoni da stonare e tabacco da fumare, ma vorrei soltanto darle fastidio, magari imitando Hugh Grant in “The Gentleman” (a proposito, gran film, ovviamente consigliato da lei).
E se ci penso ancora meglio, nel corso di questi anni ci siamo anche smarriti, però con resistenza ed ironia abbiamo scoperto che nascosti dalla quotidianità e dal tempo c’eravamo noi, forse un po’ bistrattati, ma pur sempre noi. Perché accade sempre questo momento, ma a meno di altre certezze, immaginatevi a ridere da soli nel bel mezzo di un funerale senza il rumore assordante e bellissimo della sua risata.
Una pandemia mondiale e tu che, tra lenzuola sempre troppo pesanti per me, ridevi. Pensavi che avrei dovuto smetterla con i b-movie americani, di quelli che danno la domenica pomeriggio dove gli abitanti di una città con due case ed un fast-food si mettono ai ripari da alieni con la testa gigantesca.
Ed invece guardaci ora, rigorosamente da lontano. Probabilmente è la prima volta che non ci vediamo e non è colpa di qualche mia cazzata. In realtà, oltre a tutte le romanticherie, mi manca la tua pelle. E credo che neanche un bonus da 1.000 miliardi, Salvini che te possino, possa colmare questa mancanza (oppure giusta rinuncia per evitare di occupare un posto in ospedale da coglioni). Forse in questi mesi ho capito che ad un certo punto vale soltanto il tempo vissuto insieme a “te”.
Poi se ci penso un po’, mi manca cercare l’ispirazione ovunque. Questo maledetto virus ha rapito l’ovunque e chissà dove l’ha nascosto, probabilmente nelle rinunce che non riusciamo ad accettare perché troppo egoisti. Ed io che credevo che tutto fosse lì, bastava un passo e potevamo essere ovunque. Ma lo libereremo, prima o poi, e forse non saremo gli eroi biondi della Disney, ma son convinto che sporchi di birra e briciole di patatine riusciremo ad evolverci, a rinunciare a spostarci per spostarci più forte domani (sì, è una mezza citazione di Conte, anche perché io sono una bimba di Conte).
Gli occhi dei camerieri. Sì, mi mancano. Io che inizio a sudare freddo perché non ho deciso ancora con cosa strafogarmi e mi sento colpevole di procurare loro un ulteriore motivo per spararci in fronte. Si trattava di una “cosa semplice”, ma sì, “ci mangiamo una cosa veloce” ed invece all’improvviso abbiamo svaligiato i supermercati di lievito di birra e sentirci fighi per aver impastato una pizza che poi neanche la forma (quindi pensate che supereroi i camerieri e gli chef che insultiamo per un’attesa in più oppure per un pizzico di sale in meno).
E, infine, mi mancano le mie mani sporche d’inchiostro e polvere. Mettermele in bocca e pensare perché il cattivo in un film impiega sempre troppo tempo per uccidere il buono. E poi per fantasticare su come sarebbe bello il mondo se tutto finisse ora, scendere in piazza a bruciare l’Amuchina e riacquisire la fiducia nel prossimo e non vederlo più come un potenziale attentato alla nostra incolumità. Però ci tocca resistere, e non so se queste mancanze ci hanno reso migliori. Sento che siamo ancora troppo egoisti, me compreso, anche se ieri, mentre mi recavo a lavoro, ho visto un bambino indossare la mascherina e aiutare, a voce, il nonno ad indossarla meglio: forse laddove noi abbiamo fallito, ci penseranno i piccoli.
Ho cancellato mille incipit di questo articolo. All’inizio pensavo che fosse soltanto colpa della scarsa ispirazione ed invece ascoltandomi ho capito che il problema è che io non so cosa siano i ricordi, la parola che avevo scelto per la rubrica più attesa di Scarpesciuote (almeno dai miei congiunti).
Dopo 28 anni di vita ancora non ho capito se i ricordi siano miei amici, o quantomeno cordiali conoscenti, oppure acerrimi nemici che quotidianamente attentano all’incolumità della mia precaria serenità. Dopo mille fatiche cerebrali, però, almeno una cosa l’ho capita: sono quasi certo del fatto che i ricordi, sempre, si stringono intorno al presente che stiamo vivendo e che la realtà ai nostri occhi cambia il proprio aspetto. E che in quel momento gli occhi nostri diventano gonfi. E nel cuore si avverte una dolcissima angoscia, anche se si tratta di quei ricordi stronzi che doppiati con una voce di merda – sì, ormai anche i ricordi parlano esclusivamente in inglese – ti dicono: “Oh, ma ti ricordi di quando eri felice e con le bollette da pagare ci facevi aerei che per esplodere non dovevano aspettare estremisti religiosi?”.
Quindi cosa posso aggiungere sui ricordi? Io al massimo vi posso cantà ‘na canzone. Però c’è un articolo da portare a casa e quindi devo sforzarmi di tirare fuori almeno una riflessione. Allora, partiamo dal principio: i ricordi sono essenziali, come il profumo di vaniglia che mia nonna aveva sempre sul collo e sui polsi. Se io fossi stato al posto di Clementine Kruczynski non avrei mai cancellato il vissuto insieme a Joel Barish. Perché qui forse c’è uno dei bandoli della matassa: ogni ricordo è un piccolissimo laccio che leghiamo alla nostra vita. Toglierne uno significa smantellare tutto e come direbbe mio nonno “non sta fatto bene”.
E quindi ben venga quando sul balcone, oggi si sta proprio bene (peccato per l’umidità), mi viene in mente l’aroma del caffè bevuto assieme ad una vecchia ex amica e resisto alla tentazione di maledirci (all’improvviso smettiamo di parlarci con persone a cui vogliamo bene e spesso ne ignoriamo il motivo). È un ricordo che fa male, certamente, però sono grato a tutto il cielo per averlo. E me lo tengo strettissimo. Come i ricordi dei successi di Valentino Rossi – che rabbia annoverarli tra i ricordi – oppure i voli dall’altalena sulle ali di mio nonno oppure la caramella condivisa con Marta il primo giorno dell’asilo (credo sia il primo ricordo che ho sul mio, scarso, altruismo).
Quindi ragazzi, ribadisco, io non ci ho capito un cazzo sui ricordi, però, ri/ribadisco, che ai ricordi dovremmo voler bene perché senza di essi saremmo un oggetto qualsiasi. Forse ciò che ci rende umani sono proprio i ricordi (non so se abbia pensato una genialata o una cazzata).
P.S: In definitiva per me un ricordo è la rivincita dell’eternità sulla razionalità del tempo.
Dormono beatamente sul lavello le cialde del caffè. Qualcuna di esse avrà agitato con l’alcol ieri sera e ha vomitato un po’. Pazienza, dopo laverò. Con solo un piede scalzo mi dirigo verso il divano del soggiorno. Qui, se ricordo bene, per la prima volta sono entrato in una donna. Anzi, considerando la sua chiamiamola determinazione, è lei che entrò in me (spero di non disgustarvi).
In quell’angolo, dove ora c’è una lampada Ikea da 4.99 euro, invece piansi quando un giorno la vita mi apparve come una pianura insormontabile (alle montagne non ci penso neanche). Il cielo era serenamente autunnale, si vedeva bene da queste finestre, e nella mia anima un pianista jazz suonava musica triste, una di quelle canzoni con cui incamminarsi verso una strada buia e desolata senza il briciolo di emozione per quello che sarà.
In cucina, giusto per terminare il tour del piano terra, morì una parte di me. Avevo appena smesso di abbuffarmi di ogni cosa commestibile – credo che ingerì anche l’orecchio del mio cane – quando guardai riflesso nel forno l’abisso di indifferenza verso il mondo in cui mi stavo rifugiando. E la consapevolezza di invertire la rotta – almeno per sopravvivere finché Fognini terminerà un match senza spaccare una racchetta – cambiò per sempre qualche meccanismo dentro di me.
Sulle scale nulla di interessante, a parte qualche caduta da sbronzo. Nella mia camera, se ti va, entra con delicatezza perché nell’universo altrui si entra esclusivamente in punta di piedi. Nei libri che vedi puoi annusare la solitudine scelta; nei dischi impolverati quello che ero e che ogni tanto torno a trovare.
«Come va? Hai risolto quel guaio?» «Sì, ma non mi va di parlarne» «Non cambierai mai. Chissà se è un bonus o un malus».
Potrai inciampare nelle magliette che spero per magia arriveranno nella lavatrice e che tracciano il mio profilo esatto: un pigro di merda che attende quotidianamente il colpo di fortuna. Però figo e romantico. E non vedrai foto, perché mi mettono tristezza. Un po’ come quando decisi di rivedere qualche puntata di Dawson’s Creek e per una settimana rimpiansi tutte le scelte prese in adolescenza. Cioè, avete capito a quale tristezza mi riferisco? Quella che, ma sì dai, ci piace anche, ma comunque fa male.
Il bagno, infine, nulla di speciale, anche se è la stanza che preferisco. Lì dentro i rompicoglioni non esistono.
Ora hai capito, almeno in minima parte, perché il ritorno a casa per me è IL sentimento?
le persone credono che in questo momento ci sia un’unica epidemia in corso, quella da Covid 19. Certo, l’unica potenzialmente mortale, eppure io riesco a vederne tante altre, che non mettono a rischio la nostra salute fisica, ma su quella mentale avrei qualche dubbio.
E tra tutte queste piccole grandi epidemie, forse per deformazione professionale – vorrei non lo dimenticassi, ma prima di essere una postina, sono (anzi siamo) pubbliciste, appassionate di scrittura – quella che mi balza di continuo agli occhi, provocandomi una poco simpatica reazione orticaria, è l’epidemia giornalistica.
Ora mi spiego. Ricordi quando nella tua stanza di Napoli hai passato mesi a scrivere la tesi di laurea in Lettere Moderne? Si incentrava su come i titoli giornalistici, nel passaggio dal cartaceo al digitale, avessero perso la loro funzione principale – dare informazioni – per rispondere alla necessità di sintesi imposta dal nuovo mezzo.
Così non era raro – e non lo è ancora oggi – imbattersi in titoli come “Yara, riesumato padre assassino”, dove c’era da capire se il padre e l’assassino fossero identificabili con la stessa persona, o come “Corteo Agenti sotto ufficio madre” dove più che a un titolo di giornale sembrava di trovarsi davanti a un telegramma da decifrare.
Alla necessità di sintesi, poi, in breve tempo, si è scoperto che per portare avanti i giornali on line fosse necessario ottenere visibilità, likes. Cosa sacrificare ancora una volta? L’informazione, ovvio!
Mi spiace dirlo, ma il giornalismo durante il Covid -19 ha sprecato l’ennesima occasione per riconquistare il proprio predominio come diffusore di informazione, quella sana e oggettiva.
Basta scorrere la bacheca di Facebook per notare che i nostri amati e odiati titoli non fanno altro che occuparsi di discesa e salita dei contagi come se potesse esistere un valore assoluto.
“Più di mille contagi” o “3.000 positivi” sono frasi inserite qua e là con l’unico scopo di generare click, dare visibilità al proprio sito web. Titoli che non tengono conto che il numero giornaliero dei contagi è una cifra che va rapportata al numero dei testeseguiti. Stendo un velo pietoso, invece, su quei titoli che narrano di questo o quel personaggio famoso che purtroppo è risultato positivo al tampone, ma di cui è rigorosamente vietato rivelare il nome: clicca sull’articolo e lo conoscerai.
Ora, capisco benissimo che il cambio di supporto abbia inevitabilmente comportato una modifica nella natura della notizia e, quindi, una trasformazione nella scrittura giornalistica, ma in questi anni a me sembra di aver assistito alla graduale perdita dello scopo principale di un titolo giornalistico.
È vero che tra le proprietà di base di un titolo c’è l’economicità, ma è altrettanto vero che quest’ultima dovrebbe sempre essere accompagnata dall’effetto comunicativo. Attraverso il titolo di un articolo bisogna offrire al lettore il maggior numero di informazioni possibile usando la quantità minima di parole. E possibilmente occorre che tali informazioni siano corrette, verificate, precise, altrimenti non si parla più di giornalismo.
Ogni giorno, invece, apro internet e quello che vedo è un’offerta informativa molto povera, scorro la sezione notizie è più che al trionfo della comunicazione mi sembra di assistere a una gara, dove vince il titolo che dice meno e ottiene più visibilità. Non so voi, ma per me questa è tra le peggiori delle epidemie.
Commenti recenti