
Squid Game e l’etica individualista del Capitalismo
SPOILER ALERT – SE NON AVETE VISTO LA SERIE QUESTO ARTICOLO POTREBBE ROVINARVI LA VISIONE
Dio è morto, Marx pure e Slavoj Žižek non si sente tanto bene
(Roberto Ciarnelli e Andrea Famiglietti)
Da qualche giorno è stata annunciata la seconda stagione di Squid Game e il nostro primo pensiero che ci è venuto in mente ci ha spinto ad esclamare: Ed ora cosa accadrà? Ma non nella serie (che non vedo l’ora di guardare, Roberto, n.d.a.), ma nella nostra società.
Squid Game, come hanno avuto modo di dire in tanti, è il riflesso della società contemporanea, non solo quella coreana. Ogni concorrente è pronto a sacrificare il prossimo, per vincere. Si arriva ad imbrogliare pur di ottenere il successo, un po’ come accade in determinati ambienti lavorativi e non.
Quello che più colpisce di questa serie è il senso di deresponsabilizzazione che tutti i partecipanti dimostrano di avere, almeno in apparenza. Senza andare troppo lontano ce lo dimostrano i personaggi a noi più vicini, ovvero, il protagonista Seong Gi – Hun e Cho Sang – Woo, entrambi non si sentono responsabili dei loro errori e fallimenti ma addossano la colpa al prossimo. Questo atteggiamento ci viene fatto notare spesso nel corso delle puntate iniziali.
Lo fanno addossando le colpe dei propri fallimenti alle figure più vicine nelle loro vite. Un atteggiamento che Seong Gi – Hun e Cho Sang – Woo mettono in mostra in maniera fin troppo evidente. Potremmo considerarle due facce della stessa medaglia sin da subito. Ma è meglio proseguire con ordine. In tutta la serie possiamo osservare differenti dualismi, eccone due che abbiamo deciso di approfondire.
SEONG GI – HUN E CHO SANG – WOO: FIGLI UNICI DELLO STESSO SISTEMA
La serie, nella sua evoluzione, cerca di farci andare oltre le iniziali apparenze dei personaggi protagonisti. Per alcuni sarà una collettiva discesa agli inferi, per altri rappresenterà una sorta di assoluzione altrettanto collettiva. È proprio questo il caso di Seong Gi – Hun, il protagonista, ma anche colui che ci viene mostrato sin da subito per i suoi vizi e difetti.
Infatti, sin dal primo episodio impariamo a conoscerlo: nelle prime sequenze cantilena la madre appena ritornata da lavoro, quasi fosse un bambino viziato in attesa di un dono. Non facciamo in tempo ad additarlo come tale che lo scopriamo a frugare negli averi materni alla ricerca della carta di credito di quest’ultima. Un inizio non certo edificante, considerando che con i soldi della refurtiva, la sua prima azione è quella di correre al centro scommesse per puntare tutto sul cavallo buono di turno, che però si rivelerà tutt’altro che vincente. Seong Gi – Hun ci appare così: un uomo dedito al gioco, indebitato, una figura irresponsabile anche nei confronti della sua famiglia. Un poco di buono, insomma.
Ma più andiamo avanti nella serie e più vengono mostrati gli aspetti e dettagli della sua persona. Scopriamo in un punto, il suo reale passato: ex operaio metalmeccanico di una casa automobilistica coreana, viveva un’esistenza dignitosa con la sua famiglia, fino a quando la fabbrica chiude e tutti gli operai vengono licenziati. La prima reazione è quella di occupare la fabbrica insieme ai propri colleghi, ma proprio durante un picchetto la polizia irrompe ed uccide un lavoratore. Di lì, la sua personale discesa agli inferi è degna di un romanzo di Malcom Lowry. Fanno seguito altri tentativi, sempre più disperati, per garantire la propria sopravvivenza e quella della sua famiglia. Lo fa aprendo alcune attività nel campo della ristorazione, tutte fallimentari, che non faranno che incrementare il peso dei suoi debiti e porteranno alla disgregazione di ogni legame familiare. Ritornerà a casa, cercando la strada più semplice (anche la più illusoria) al successo e al benessere, il gioco.
In seguito a questa nuova lettura Seong Gi – Hun rappresenta la vittima per eccellenza del capitalismo asiatico, e più in generale di quello mondiale. Porta con sé il peccato originale, che è quello di aver perso il lavoro (anche se per cause non sue), ma il fallimento, si sa, si lega ai singoli uomini, soprattutto se rappresentano la classe subalterna. In balia di uno stato che, implicitamente, emargina chiunque non è ritenuto in grado di essere competitivo o utile alla dicotomia produzione/consumo, Seong Gi – Hun si ritrova ai margini e decide di perseguire al conseguimento degli obiettivi sociali diventando egli stesso un imprenditore. Ma il suo peccato originale lo perseguiterà e farà naufragare ogni tentativo di rivalsa. Così si ritrova solo ed impoverito, senza nessuna forma di ammortizzatore sociale o di assistenza e non può far altro che aggrapparsi all’unico sistema di welfare destinato a sopravvivere in quest’epoca di tagli e privatizzazioni, la famiglia. Ritornato a casa, la sua condizione è ancora ossessionata dal passato recente che pensa di poter risolvere solo attraverso un colpo di fortuna.
In fondo è questo quello che secoli di capitalismo sfrenato ci hanno insegnato: ognuno di noi può vivere il proprio personale sogno, non importa in che modo e a che punto della vita, ciò che conta è accumulare abbastanza da poter consumare in maniera indiscriminata. Ma per fare ciò bisogna produrre, così da poter guadagnare e quindi ottenere successo. Non è forse questo il principio del sogno americano? Non importa la tua origine, il tuo passato, le avversità, ciò che conta è che tu sia abile, fortunato o scaltro e che tu costruisca il tuo destino e la tua fortuna, accumulando ricchezze, migliorando la tua condizione attraverso il consumo più sfrenato (perché in fondo si sa, il consumo è anche una questione di status e di stile. Chiedete a Veblen e Baudrillard se non vi fidate di noi). Come? Questo devi deciderlo tu, a noi non importa.
Ed ecco qui l’incredibile differenza tra Seong Gi – Hun e Chao Sang – Woo. Il primo, in questa fase di limen quali sono i giochi, acquisisce una propria consapevolezza, forse perduta o mai avuta, di sé e del proprio essere sociale (quella che lo zio Karl Marx si sarebbe ostinato a chiamare coscienza di classe) che lo porterà a solidarizzare con alcuni concorrenti, accomunati dalle stesse condizioni, mentre il secondo rimane profondamente ancorato ai principi del capitalismo più sfrenato, quelli individualisti, in cui a primeggiare può essere solo il migliore, il più bravo o il più furbo, mentre gli altri, per quanto suoi simili, sono destinati a soccombere.
UNA LUCE
Nella serie non è l’unica ambivalenza, ci sono anche altri personaggi come Abdul Alì e Kang Sae – byeok: il primo è un pachistano che si è trasferito con la sua famiglia in Corea del Sud in cerca di fortuna, mentre Kang proveniente dalla Corea del Nord, alla ricerca di soldi per ricongiungersi con la madre e il fratello. Entrambi vivono la condizione di immigrati che li accompagna all’interno del gioco e li mette sotto la luce della diversità. Etichettati, emarginati, sono gli unici che vivono la propria condizione in maniera indistinta sia fuori che dentro il gioco.
I due personaggi, con le loro storie, partecipano allo Squid Game non per motivi egoistici e personalistici, ma per il prossimo. Da una parte abbiamo Alì che è nel paese da anni e nonostante i differenti lavori non riesce a vivere una vita dignitosa e per la sua condizione sociale viene vessato sia a lavoro che durante i giochi, additato come irregolare, visto come un nemico, qualcuno che cerca di imbrogliare il sistema e la comunità che lo accoglie, mentre dall’altra parte abbiamo una ragazza che è pronta a tutto pur di pagare per la sua famiglia e ricongiungersi ad essa. A differenza di Alì, Kang Sae – byeok ci consegna un’altra prima impressione, quella di una criminale, che senza danneggiare fisicamente gli altri li deruba, richiamando una personale versione di Robin Hood. Con il tempo riusciamo a vedere l’umanità che la contraddistingue, quando fa comprendere, per la prima volta, che la sua volontà a giocare è dettata dalla necessità di far trasferire la sua famiglia in Corea del Sud e ricongiungersi con il fratello minore.
Alì e Kang sono l’umanità di cui abbiamo bisogno e ci arriva chiaramente nella sfida delle biglie, dove il primo viene miseramente ingannato e tradito da Cho Sang – Woo, pronto ad ogni cosa pur di vincere, e la seconda che non accetta il sacrificio della sua compagna di giochi, una persona fino a quel momento sconosciuta, che vuole permettere di realizzare il suo sogno e vedere finalmente la sua famiglia ricongiunta.
Squid Game è la parafrasi di una società tossica e forse proprio per questo motivo, alcuni adulti sono pronti ad attaccare Netflix per sentirsi meno responsabili per ciò che accade intorno a noi.
CONCLUSIONE
La serie ha rappresentato le disavventure dei tanti che per scelte sbagliate, per errori passati o per altre ragioni si sono ritrovati ai margini della società. Non un partecipante vive la propria presenza lì come una reale ambizione al successo, tutti vi partecipano cercando di rimettere in carreggiata la propria esistenza, cercando di rientrare nel mondo. Lo fanno accettando l’eventualità di un proprio estremo sacrificio pur di raggiungere l’obiettivo dichiarato. Facendolo svelano però il marcio di un sistema di cui tutti sono vittime.
La propensione al successo lavorativo e sociale, l’accaparramento totale delle risorse e delle ricchezze da parte di pochi, in fondo altro non è che uno Squid Game, in cui al posto della morte l’estremo sacrificio è rappresentato dall’esclusione sociale e dall’emarginazione (che in alcuni casi estremi porta alla morte).
Anche se Squid Game richiama dei giochi coreani, alcuni tipici anche della nostra infanzia, non fa altro rappresentare la cruda realtà di una società che arriva al cannibalismo, in un tutti contro tutti estremo e dove chi soccombe viene crudelmente divorato simbolicamente e socialmente.
Roberto Ciarnelli
Andrea Famiglietti
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