Il calcio italiano è una noia mortale

Il calcio italiano è una noia mortale

 

Si, il titolo è provocatorio. Ma ormai qui è questione di culto. Sarrismo, cortomusismo, guardiolismo…gli ultimi campionati (noiosissimi in quanto a suspance e competizione) hanno quantomeno contribuito ad aprire un vero e proprio dibattito nell’ambiente.

Meglio il gioco o il risultato? La concretezza arida o l’appassionata poesia del rischio di veder dominata una partita, seppur uscendo sconfitti? È meglio arrivare secondi dando spettacolo con la bellezza di 91 punti totalizzati, oppure arrivare con metodica tristezza a 92 per prendere tutta la posta in palio?

La conferenza stampa di Allegri, ormai divenuta riferimento di culto, ha fatto scuola ed ha tracciato, col pragmatismo toscano che contraddistingue il tecnico, una strada ed un estemporaneo manifesto: corto muso vince, secondo perde. Facile. Come nelle corse dei cavalli. Una visione tanto piatta della realtà del calcio quanto funzionale alla nostra mentalità.

Proprio questa, infatti, è la chiave risolutiva: la filosofia calcistica del nostro Paese è stata sempre fortemente inclinata verso una interpretazione pragmatica del gioco, il rischio è sempre stato visto con un certo carico di paura, in un ambiente pronto a processare chiunque osi fallire. Allegri lo sa, lo ha sempre saputo. Sembra quasi che la serie A odierna sia il suo habitat naturale, capace di esaltare le sue qualità e la sua visione: il bel gioco non serve a nulla se non è accompagnato dal risultato finale (che per la verità ultimamente…latita!).

È uno slogan funzionale, che parla alla pancia, capace di convincere i più scettici proponendo all’orizzonte la gioia più ambita: la vittoria. Eppure da un punto di vista più ampio (che non sia solo quello del fruitore finale dello show o del tifoso sfegatato), i dati dimostrano chiaramente che il calcio italiano, nonostante la piacevolissima notte di Wembley, sta perdendo pericolosamente appeal.

I risultati europei purtroppo lo dimostrano e le parole pronunciate da Adani pochi giorni fa ci rispediscono dritti dritti a contatto con la realtà dei fatti: guardare Inter-Juve per chi è abituato ai ritmi e all’attitudine di una Man United-Liverpool risulta un’impresa per cuori forti. I ritmi compassati, l’esasperazione tattica, la paura di perdere, il difensivismo ad oltranza… ciò che venti anni fa sembrava essere una sfida allettante oggi si è trasformato in un grande disincentivo capace, molto probabilmente, di allontanare spettatori, quindi soldi, quindi nuovi campioni.

Lo “scenario” non aiuta: gli impianti sono fatiscenti e desueti, le misure anti-Covid hanno minato fortemente la fruizione dal vivo. Diciamo che il “corto muso” di Allegri fa vincere gli scudetti ed ottenere risultati, ma sul lungo periodo l’applicazione pedissequa di un pragmatismo poco coraggioso porta inevitabilmente a ingessare l’ambiente, rendendolo brutto, tignoso, poco spettacolare.

Si, ma…”i campioni d’Europa siamo noi” direte voi. Guai però a confondere l’estemporanea vittoria di un collettivo affiatato e compatto con lo stato di salute generale del nostro movimento calcistico e della nostra massima serie, peraltro sempre più infarcita di stranieri dalla dubbia qualità.

Personalmente credo che la vittoria sia sempre piacevole, ma il perseguimento della stessa non può intaccare ed ingessare l’ambiente dietro una coltre di difensivismo ad oltranza. Del resto, la notte di Wembley non può cancellare un dato: l’ultima Champions italiana è targata 2010, l’Europa League non è stata mai vinta. Provate voi a resistere all’appeal di un Udinese-Torino giocata di lunedì sera!