
Play this failure!
Play this failure…
Play this failure…
Play è un progetto corale, di partecipazione che unisce le immagini realizzate da Alessandra Oricchio e i suoni e gli umori raccolti da Francesca Baciarelli tramite amici, conoscenti e passanti.
«Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena
Potete stare a galla
E non è colpa mia se esistono carnefici
Se esiste l’imbecillità
Se le panchine sono piene di gente che sta male»
Sono in pullman e sono appena partito dalla stazione di Piazza Garibaldi, di ritorno da Napoli, quando il mio vecchio mp3, prima ancora degli spotify e dei deezer di turno, decide di farmi una sorpresa con la sua riproduzione casuale. Lascia risuonare, tra le cuffie consumate dai troppi viaggi, le prime note di Up patriots to arms di Franco Battiato.
Ho la testa poggiata sul vetro del pullman, come non mi capitava da anni, da quando ritornavo dall’università, dopo aver passato un’intera giornata a Napoli. Il vetro del mezzo e i miei occhiali sono in estasi, accolgono e riflettono le luci delle macchine e dei motorini che sfrecciano a destra e a sinistra.
La città, come sempre a quell’ora, sembra fatta di auto, di ingorghi stradali, di motorini che azzardano manovre, di venditori ambulanti che raccolgono nelle solite buste color azzurro la mercanzia invenduta, di impiegati ostinati a non staccare il proprio orecchio dal telefono.
Sono bastati due metri di altezza per farci percepire quel mondo, improvviso e brulicante, come un qualcosa di distante, di non nostro. Protetti dalla nostra distanza dal suolo ci sentiamo al sicuro, ma soprattutto non coinvolti. Non era necessario abitare un monte o il regno dei cieli per provare quella sensazione, sarebbero bastati due metri, per vivere il distacco da tutto quello che accade intorno.
Il mio momento di distratta solitudine si conclude altrettanto improvvisamente. Mentre Battiato inizia a cantare il ritornello, comincio a notare che quelle figure così sfuggenti e così distanti sono delle persone. Persone con una loro vita, con i loro momenti felici e con le loro preoccupazioni.
Quest’ultima frase nasconde in sé una grande bugia: non mi capita quasi mai di immaginare gli altri nei momenti felici. Sia ben chiaro, non è certo per un istito sadico o per altro, ma è per merito di una consapevolezza che ognuno di noi, nei nostri momenti pubblici e sociali, tende a mostrare quasi sempre una sola parte di sé, ovvero quella che ci spinge a dire che va tutto bene e che non ci sono problemi. Tendiamo a nascondere le nostre vulnerabilità come se fossero dei gravi e irreparabili peccati originali.
Così, come dall’alto di quel pullman diventa difficile distinguere ogni singola persona per la propria esistenza, così diventa difficile mostrarsi vulnerabili. Mostrarsi per quello che si è in quel momento diventa un grave problema che ci potrebbe rendere deboli davanti agli occhi di un possibile nemico e quindi continuiamo a sorridere, facendo finta di niente.
Eppure guardandoci intorno, con maggiore attenzione, potremmo finalmente comprendere che molti vivono momenti di difficoltà. Non è necessario andare lontano, potrebbe essere sufficiente andare oltre il nostro naso per riscoprire che la vulnerabilità fa parte del nostro quotidiano. Vulnerabili sono i nostri cari, nelle loro giornate passate lontano da noi, ma lo sono anche i nostri amici nel loro silenzio resistente ed infine lo siamo noi che ci troviamo di fronte a tutto ciò e ci sentiamo soli ed impotenti.
Così mentre Battiato ripete un’ultima volta il ritornello, capisco che basterebbe non soffermarsi ad una prima risposta, ad una prima vista per comprendere il reale stato delle cose e che forse è da queste pratiche che potrebbe partire una risposta reale, capace di coinvolgere e aiutare tanti di noi a reagire.
…Up patriots to arms
Ormai vivo in attesa di morire. È la mia condanna per non aver raggiunto i traguardi nei tempi prestabiliti e per aver creduto, ad un certo punto, ai sogni. La società, questa società in cui sputiamo il sangue, in fondo ce lo ricorda tutti i giorni: conta vincere e bisogna farlo anche il più presto possibile. Quindi testa bassa e pedalare e non importa se devi imbrogliare, se devi massacrare la tua umanità: i tuoi obiettivi sono lì e la tua unica religione ti suggerisce di raggiungerli a tutti i costi. E non pensare neanche ai lacci sciolti, lo sai che non hai il tempo di fare un cazzo. Al massimo posta qualcosa su instagram così sazi la tua fame di dimostrare agli altri che sei una bella persona, impegnata e che magari scopa assai bene.
Quindi, sguardo in alto, petto in fuori e mettiti in cammino. Non badare ai morti di fame, è giusto che paghino per i loro fallimenti; scegliti un gruppo sociale dove bere qualcosa e non fare troppo domande su cosa succeda nel mondo mentre tutti noi pensiamo ad una rivoluzione; non mostrare emozioni a meno che non sia necessario per un post motivazionale perché sembra che un traguardo non valga se non lo si sbatte in faccia a tutti; tieni sempre a mente, infine, che ora sei un animale e devi sbranare tutto ciò che si muove tra i tuoi occhi ed il successo.
Potrai vivere giorni in cui ti mancheranno le incertezze, le canzoni da cantare chiuso nella tua stanzetta ma passeranno presto, te lo prometto. Lo vedi quel tale con gli occhiali e la camicia a quadri? È in attesa di morire perché non è riuscito ad uccidere quell’ansia di fallire che ci inoculiamo da soli ogni giorno e tu non devi fare la sua stessa fine. Mi raccomando, non piangere, non essere debole: ricordati che in palio c’è la tua sopravvivenza in questo mondo.
È accaduto che ad un certo punto ho dimenticato chi fossi e dove stessi andando. Dal nulla svanisce la magia, quella scintilla che quotidianamente illumina il tuo vero obiettivo. A soffiarci sopra diversi nemici: dall’ansia del futuro ad un Paese come l’Italia che ti stritola fino ad ucciderti dentro all’alba dei trent’anni. Del resto Gianni Morandi era stato un ottimo profeta: (soltanto) uno su mille ce la fa. E gli altri 999?
Gli altri 999 smarriscono completamente la bussola a furia di reinventarsi. Il lavoretto per avere una cosa di soldi in tasca, l’ossessione per il posto fisso perché arrivato ad una certa devi tirare le somme, i pasticcini da mangiare la domenica, l’immancabile viaggio a Londra per fare il cameriere e ritrovare se stessi. Insomma, veniamo risucchiati da un gioco infernale ed una volta conquistato l’ultimo livello – nella maggior parte dei casi somigliante ad una vita tipo “50 volte il primo bacio” – ti accorgi che hai dimenticato chi sei e cosa pretendevi dalla tua vita, magari quando nel cuore sentivi quella meraviglia di irrequietezza adolescenziale.
Si può interrompere questo gioco? Si, è possibile, mica è Squid Game. Ma vi anticipo che è una faccenda assai complessa. Più avanzi e più ti convincono di quanto fosse sbagliato avere quelle specifiche aspirazioni: non si può campare di parole, per fare l’architetto ne devi mangiare di pane, per la start up devi chiedere un prestito che la banca non ti concederà mai. Sono diversi, dunque, i trucchi che utilizzano gli agenti dalle tute arancioni per farti desistere.
Anch’io stavo vincendo alla grande in questo gioco al massacro, però poi in auto mi è capitata una canzone che avevo completamente scordato che fa così:
“Voglio essere superato,
come una Bianchina dalla super auto
come la cantina dal tuo superattico,
come la mia rima quando fugge l’attimo.
Sono tutti in gara e rallento, fino a stare fuori dal tempo
Superare il concetto stesso di superamento mi fa stare bene,
con le mani sporche fai le macchie nere
vola sulle scope come fan le streghe,
devi fare ciò che ti fa stare
devi fare ciò che ti fa stare bene”. (Caparezza- “Ti fa stare bene”)
Sembra scontato, ma un bug del gioco è proprio questo: fare ciò che ti fa stare bene, prendendoti i tuoi tempi e fregandotene degli altri. Non fermatevi alla banalità di questo concetto: ricordiamoci che le cose preziose spesso vengono nascoste in piena vista.
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