La storia del prato sorto nel centro storico di Atripalda

La storia del prato sorto nel centro storico di Atripalda

Per molti, oserei dire per la quasi totalità di noi, questi 366 giorni appena trascorsi sono stati molto difficili e ci hanno messo di fronte a notevoli difficoltà. Un anno in cui abbiamo dovuto affrontare disgrazie d’ogni genere e districarci tra mille peripezie. Proprio per questo in ogni discorso, pensiero o semplice appunto che riguardava il 2020 gli abbiamo dato seguito con i più differenti dispregiativi. Un anno sfortunato, maledetto, sciagurato, strano, dannato. Ma per molti di noi questo è stato anche un anno “non vissuto”, in cui non è “cambiato niente”, quasi come se ci fosse stato un congelamento della vita. È mia intenzione in queste brevi parole affrontare proprio questa definizione, ma procediamo con ordine.

Nella memoria collettiva il ricordo di quanto avvenuto nei mesi scorsi e per questo mi servirò di questa freschezza ed elasticità collettiva per dimostrare quanto segue.

Erano i primi giorni di aprile e tutta l’Italia si stava lentamente riprendendo dal fortissimo crochet che dai primi di marzo ci aveva chiuso all’angolo e ci aveva costretto a familiarizzare con termini quali coronavirus, pandemia, lockdown e così via. Giorni in cui la paura dei singoli si era trasformata in coraggio collettivo. Avevamo riscoperto i primi spazi domestici a noi sconosciuti fino allora, i balconi, e avevamo passato gran parte delle nostre giornate lì, riscoprendoci cantanti, patrioti, ma soprattutto avevamo riscoperto la natura.

Così, mentre gran parte dell’azione antropica si stava ritirando sotto i colpi dei DPCM, la natura stava rinascendo proprio nel suo momento migliore dell’anno: la primavera. L’assenza di traffico e smog aveva portato a un notevole miglioramento della qualità dell’aria e gli stormi in cielo e gli alberi in fiore dimostravano un’altra energia rispetto al solito. Le nostre città hanno assistito a questo miracolo stagionale con estremo stupore. Lo stesso stupore aveva pervaso le strade di Atripalda, invasa com’era delle stesse sensazioni e dagli stessi umori.

Spettatori incolumi di tutti erano i pochi e timidi passanti, impegnati nello svolgimento delle piccole commissioni quotidiane. La città che fino a qualche giorno fa si era mostrata silente ed immutata, celava nei suoi angoli più coperti il frutto di un lavoro di trasformazione continuo e costante che la natura stessa stava operando in quei giorni.

Il cambiamento era avvenuto sotto gli occhi di tutti e sotto l’attenzione di nessuno, in maniera costante. Persino la pavimentazione del centro storico si era trasformata, tra i lisci sampietrini dei vicoli era cresciuta, prima timidamente, poi con maggior rigore l’erba, lasciando così al verde una delle rare vittorie in mezzo all’oceano di grigio che ci circonda quotidianamente. Al posto della strada, un piccolo prato, tra i palazzi e le auto, era rinato.

Per qualche giorno lo stupore dei passanti, compreso il sottoscritto non è stato poca cosa. Lo stesso stupore di quei giorni mi ha invaso mentre mi ritrovo qui davanti alla tastiera cercando di parlare del cambiamento. In molti, tra amici e conoscenti li ho sentiti ripetere che dell’anno trascorso la cosa peggiore è stato la condizione di congelamento in cui abbiamo vissuto e per settimane mi sono interrogato a riguardo. Ma proprio ripensando a questo piccolo avvenimento mi è stato possibile comprendere come anche nella realtà più immobile tale condizione è essa stessa apparente.

Il vicolo del centro storico dove per un breve periodo ha fatto la sua comparsa un inaspettato prato.

Così anche noi in questo anno appena trascorso siamo cambiati non poco e abbiamo vissuto moltissimi cambiamenti. Come per la nascita del prato urbano dovremmo imparare ad osservare e a leggere le nostre strade, le nostre piazze e le persone che le attraversano. Quello che questo 2020 ha fatto emergere è che le città sono ancora il motore di tutto, sia delle nostre disuguaglianze, ma anche delle innovazioni e delle trasformazioni che avvengono continuamente e che appunto avremmo dovuto imparare a leggere proprio grazie a quest’anno così difficile.

Dovremmo imparare ad osservare un po’ più spesso quello che ci circonda per sentirci almeno un po’ cambiati dal passato, non è un compito facile, ma nemmeno impossibile.

Dopo una festa in villa…ad Atripalda

Dopo una festa in villa…ad Atripalda

Come spesso accade quando qualcosa scuote l’opinione pubblica, e qualche volta anche la coscienza collettiva, ci ritroviamo ad essere sommersi dai pareri più differenti, ma soprattutto ci ritroviamo in balia di tantissime opinioni di sedicenti sociologi e/o criminologi pronti a spiattellare in prima serata qualche polverosa teoria messa a nuovo per l’occorrenza.

Niente di più lontano dalle nostre realtà potremmo pensare, se non fosse che in realtà piccole come le nostre la scossa all’opinione pubblica prova a darla spesso la stampa locale (provinciale e cittadina) che da sempre va a caccia di argomenti capaci di smuovere timidi pomeriggi estivi e anche qualche seduta di consiglio comunale.

Ai più scettici questa cosa sembrerà strana, ma in realtà come in ogni articolo presentato in questa rubrica l’esperienza autobiografica viene sempre in aiuto di chi scrive e anche in questo caso non tarda ad arrivare. Infatti basterà tornare indietro di qualche anno e con la precisione al 2006 per riportare alla luce un caso fortemente esplicativo a quanto scritto poc’anzi.

PERCOCA MECCANICA AD ATRIPALDA

È il 2006 e siamo in piena estate ad Atripalda e come le estati precedenti e quelle successive i cambiamenti sono stati pressoché minimi. Ogni anno per almeno tre mesi si cerca di far fronte, in qualche modo, al caldo reso ancor più insopportabile dall’incredibile tasso di umidità; ma clima a parte, la nostra estate, quell’anno, aveva costruito un percorso parallelo a quello della nazionale di calcio, che dopo anni di cocenti delusioni, si stava apprestando a raggiungere il tetto del mondo ed era così riuscita anche a mitigare l’amarezza delle tante bocciature che avevano colpito la nostra cerchia di amici.

Avevamo così conquistato, nelle nostre vite di adolescenti, qualche settimana di serenità lontane dalle nostre preoccupazioni, quando una scossa improvvisa aveva agitato i pomeriggi estivi atripaldesi. Infatti come un fulmine a ciel sereno la redazione provinciale di un’importante testata giornalistica nazionale aveva deciso di pubblicare in prima pagina le foto tratte da alcuni video YouTube, tutt’altro che recenti e tutt’altro che violenti, cercando di suscitare sgomento nell’opinione pubblica portando alla ribalta delle cronache locali una questione giovanile legata al fenomeno della violenza.

Lungo il fiume Sabato, Atripalda 2006.

Quell’improvvisa scossa aveva raffreddato la nostra estate e ci aveva posto al centro del ciclone, ci aveva trasformato in drughi, intenti ad inscenare quotidianamente dei veri e propri combattimenti tra gladiatori, portando con sé panico e distruzione nella villa comunale.

La notizia di una gioventù violenta non ebbe troppa difficoltà a diffondersi per due ragioni fondamentali: la prima di tipo geografico/urbanistico che vedeva nella villa un luogo di margine dove tutto veniva nascosto dalla sua posizione. La seconda di tipo generazionale, invece, vedeva nei giovani un insieme informe di teppisti e consumatori seriali di droghe.

La diffusione capillare era stata tanto veloce quanto superficiale e la narrazione conseguente era stata universalmente accettata da quasi tutti i partiti politici cui la soluzione proposta fu la stessa ed unanime: in risposta a quegli (presunti) atti andava utilizzato il pugno duro.

Confusi e pieni di rabbia c’eravamo ritrovati impotenti davanti all’incredibile mole di violenza simbolica che ci aveva investito. C’eravamo ritrovati impotenti contro una parte di città che non voleva sapere niente di noi, ma era disposta a giudicarci in maniera dura. A nessuno importava che la nostra sensibilità ci obbligava, già allora a raccogliere anche i rifiuti altrui disseminati nella villa, a nessuno importavano le difficoltà legate alla mancata presenza di un luogo aggregativo.

Foto di fine giornata ecologica, tra i tanti anche alcuni dei gladiatori e teppisti, Atripalda 2014.

Avevano già scelto la loro narrazione nei nostri confronti.

EPILOGO

Parco Pubblico, giornata ecologica Forum dei Giovani. Anche qui, tra i partecipanti sono presenti alcuni di quei teppisti. Atripalda 2015.

C’è voluto poco più di una settimana per far scomparire il fenomeno violenza giovanile dalle cronache locali e dai banchi di Palazzo di Città. Atripalda era ritornata al suo solito clima, preoccupata come sempre più dell’umido che delle persone. L’interesse per la questione giovanile era già scomparso e ai giovani era stato riconsegnato il solito posto ai margini della vita comunale; di tutta questa storia, solo quel gruppo di adolescenti non ha mai dimenticato quella terribile ed ingiusta esperienza e proprio grazie a questo ricordo negli anni successivi sono nate le diverse forme di attivismo giovanile che hanno portato la cittadina a vivere alcune forme di rinascita culturale e sociale.

Piazzetta degli Artisti durante il Tricare – festival del perditempo. La quasi totalità dei gladiatori posa a fine festival nella piazza recentemente rigenerata dagli stessi, Atripalda 2015.

Si ringrazia Sabino Battista per le foto.

Telefonami tra 5 anni

Telefonami tra 5 anni

Difficile non notarlo, Atripalda, come tutti gli altri centri della Campania vive uno strano fermento che ormai dura da qualche settimana; anche la strada, con i suoi rifiuti lasciati a terra, ci racconta di questa strana euforia, infatti alle recenti mascherine scolorite dalla polvere e dall’usura, si sono aggiunte delle piccole figurine con su dei volti, accompagnate da un logo e una frase: strani santini che promettono il cielo in terra e la terra in cielo.

Tipica situazione di un semplice condominio di provincia durante il periodo elettorale.

Difficile non notarlo, Atripalda come tutta la Campania è in campagna elettorale e così quei volti sereni e sorridenti che incontriamo sotto i nostri piedi ce li ritroviamo anche appesi ai muri: sono tanti, ringiovaniti e sorridenti, con i loro occhi decisi cercano di rassicurarci, guardano lontano loro. Sono volti e corpi che esercitano una strana attenzione verso i passanti, e anche i più distratti, che non possono fare a meno di voltarsi, anche per un secondo e cercare in loro una qualche risposta.

Difficile non notare che i bar, ancora storditi dall’emergenza Covid19 e dalle relative misure anti-contagio sono in fermento. I caffè pagati non si contano, e come le fredde domeniche di gennaio in cui i bambini scambiano le figurine dei calciatori, dalle tasche di alcuni avventori spuntano mazzetti di santini.

In queste settimane non è difficile farsi delle domande, dopotutto ci si sente al centro del mondo e proprio per questo si trova sempre qualcuno pronto all’ascolto, che promette soluzioni che fino a qualche mese fa sembravano insperate.

Sono giorni opulenti, pieni di fermento in cui anche il più distaccato al processo democratico elettorale riesce a sentirsi ebbro e la politica invade anche il più intimo dei nostri spazi. Ci sentiamo frastornati, come in quegli ultimi dieci minuti che precedono la mezzanotte l’ultimo dell’anno. Ci sentiamo storditi, ma al tempo stesso vigili e presenti: dopotutto nessuno vuole perdersi questo momento e nessuno vuole sentirsi escluso, come la vigilia di capodanno.

Per un momento ognuno di noi si sentirà centro e non più periferia, ognuno avrà i suoi quindici secondi di centralità.

Lo sa bene chi vive in periferia, in quei giorni il quartiere non ha più barriere, le strade deserte già dopo il tramonto sono un lontano ricordo. Lo sanno bene molti giovani che improvvisamente ritornano al centro di qualsiasi agenda politica e anche il proprio curriculum si materializza, come d’incanto, sulle scrivanie degli imprenditori locali. Lo sanno bene gli abitanti dei quartieri e lo sanno bene anche le buche, i lampioni fulminati e così via.

In quei giorni la fiducia nel processo democratico elettorale è alle stelle e i telefoni che squillano più del dovuto ce lo dimostrano. Ma come nella notte di San Silvestro il giorno successivo il silenzio si è già riappropriato delle strade. La città si risveglia da un lungo sogno chiassoso e colorato, lo fa in maniera silenziosa e disattenta, quelle poche macchine che passano non riescono a spezzare questa atmosfera, anzi in alcuni momenti l’acuiscono.

Il silenzio comincia piano piano ad impossessarsi della città e del suo tempo, lo fa in maniera costante e lo fa senza abbandonarci per anni. In quel lungo lasso di tempo i telefoni smettono di squillare, i problemi non si attenuano e con essi anche le domande che prima erano state sommerse di risposte adesso si ritrovano, inspiegabilmente, irrisolte. E allora ci si affida all’unico termometro capace di misurare lo stato di salute della città: la fila, anch’essa silenziosa, che ogni settimana si crea davanti l’ufficio del sindaco di turno. Questa misura lo stato influenzale delle nostre realtà.

NOI COSA POSSIAMO FARE? UNA MATTONELLA A PIAZZA GARIBALDI

All’iniziale fermento elettorale, fa dunque seguito un periodo lungo di gestione della cosa pubblica dove maggioranza e opposizione si trincerano, il più delle volte, nelle stanze del palazzo di città cercando di affrontare a distanza i problemi di una comunità di cui hanno perso i connotati. I volti sicuri e sereni tappezzati per la città sono solo un lontano ricordo.

La sfiducia invade i bar, per strada gli ondulamenti di testa in segno di sconforto raggiungono un numero talmente elevato che è facile perdere il conto. In molti, in questi momenti, sono pronti a denunciare il fallimento della democrazia, dopotutto i lampioni sono ancora fulminati, le strade ancora pericolose, il verde pubblico pieno di rifiuti, le strade piene di buche e la pavimentazione delle piazze sempre più distrutta.

Lo sa benissimo anche piazza Garibaldi dove per qualche settimana la pavimentazione, nei pressi delle panchine, è rimasta sprovvista di mattonelle. Lo sa benissimo chi ci passa perché nel corso delle settimane ci è inciampato spesso e lo sa benissimo anche chi ha provato ad allertare chi di dovere.

Per settimane quella piccola parte di piazza è rimasta sprovvista di mattonella, fino ad una mattina quando improvvisamente quel vuoto è stato colmato artigianalmente dall’unione di diversi pezzi di marmo.

Ritrovando quel pezzo di piazza pieno ho ripensato ad una frase di Stephane Hessel letta durante gli anni dell’università:

«Il peggiore degli atteggiamenti è l’indifferenza, dire “io non posso niente, me ne infischio”. Comportandovi così, perdete una delle componenti essenziali che ci fa essere uomini. Una delle componenti indispensabili: la facoltà di indignazione e l’impegno che ne è la diretta conseguenza.»

Un piccolo gesto ci ha ricordato che quando le istituzioni non riescono ad ascoltare quello che la città ha da dire tocca a noi agire, dimostrando innanzi tutto che la democrazia non ha fallito e che il nostro compito non si conclude quando usciamo dall’urna, ma continua ogni giorno in strada.

Nel corso degli anni ho avuto la fortuna di assistere e partecipare all’inserimento di moltissime “mattonelle” volte a colmare i vuoti del tessuto sociale e urbano atripaldese: lo hanno fatto molti giovani nei quartieri insieme agli abitanti, lo hanno fatto molti altri giovani nelle aree verdi della città, nei parchi e nelle ville, lo hanno fatto in molti in piccolissimi e tanti punti della città che non sono balzati agli onori delle cronache locali.

In tanti hanno dimostrato che la partecipazione attiva alla vita pubblica è fondamentale tanto quanto il processo elettorale e che la vita democratica non si esaurisce nell’arco di pochi giorni all’anno, ma è parte attiva di qualsiasi comunità. Grazie a questa ogni cittadino riesce a far sentire la propria voce anche oltre il periodo elettorale, ma soprattutto è grazie a questa che chi ci rappresenta riesce a venire, o quantomeno dovrebbe riuscirci (qui entra in gioco la maturità e onestà politica dei rappresentanti che negli ultimi anni difficilmente si è palesata), in contatto con le problematiche che ha deciso di risolvere intraprendendo la vita politica istituzionale.