Giocare in casa regala sempre grandi emozioni, grandi preparazioni e anche una piccola dose di preoccupazione. Sono le prime cose che ci sono venute in mente quando ci siamo ritrovati a partecipare alla quinta tappa di Cammini Irpini. Insieme a noi un’ospite d’eccezione, la nostra grande amica Alessia Capasso di CperCultura.
11.09.2021 – TAPPA 5 – ATRIPALDA, CENTRO STORICO
Atripalda, circa 8 kmq, pochi se la si osserva su di una mappa, pochissimi se la si immagina in relazione alle sconfinate terre che rendono l’Irpinia una delle province più estese della Campania, riesce a raggruppare, suo malgrado, infinite vite, incalcolabili epoche, sorte una sopra l’altra, una di fianco l’altra.
Lo dimostra il fatto che basta una consonante per ritrovarsi in due luoghi completamente diversi e rapportarsi con due epoche altrettanto differenti.
Provare per credere: chiedete ad un atripaldese di accompagnarvi “nterra a’dogana” e poi ripetete la stessa richiesta, ma questa volta, sostituite la d iniziale con una semplice r e chiedete di portarvi “nterra a’rovana”.
Una consonante è bastata a dividere in due un’intera cittadina, un fiume è servito a dividerla in altrettante parti. Proprio da quest’ultimo siamo ripartiti per questa quinta tappa. Lungo un’unica sponda del Sabato abbiamo trarscorso un’intera mattinata.
Costeggiando gli scavi archeologici della Basilica Paleocristiana abbiamo risalito la strada per raggiungere la chiesa Madre e non c’è voluto molto per imbatterci nelle prime memorie. Lì a Vico la Torre, sotto lo sguardo attento della Madonna di Montevergine, sorgeva un arco, immaginifico per la mia generazione che l’ha visto, e continua a vederlo, sospeso tra le due palazzine, grazie ai ricordi e i racconti ereditati negli anni.
Ricordi di un centro storico scomparso e svanito, a causa di una ricostruzione post sismica non certo chiara e che attraverso una delle prime pratiche di gentrificazione sociale ha privato Atripalda della sua anima, quella popolare e subalterna che un tempo animava queste strade.
Oggi resiste Mamma Schiavona, nella sua edicola, come ultima custode di un mondo che sta svanendo e si pone come anello di congiunzione tra i differenti universi.
Per anni ha accolto, proprio tra la seconda e la terza settimana di settembre, i tanti pellegrini che dai paesi limitrofi si incamminavano di notte per arrivare a Montevergine. Per anni ha dato ospitalità e sollievo ai tanti impegnati in quella che viene universalmente riconosciuta come la juta.
Così la Madonna Nera al nostro passaggio mi ha riportato indietro negli anni, ai tanti settembre della mia infanzia a Rione Mazzini, fatta di odori di nocciole caramellate, di tiro a segno, di spighe bollite e del suono delle zampogne che proprio nei giorni precedenti al 12 settembre annunciavano che quello era tempo di juta.
Ma il tempo dei ricordi scorre veloce, lasciandosi susseguire da altre storie, altre epoche e lo sanno bene anche le Volontarie del Servizio Civile della Pro Loco che ci hanno accolto ai piedi della chiesa Madre e ci hanno accompagnato tra le bellezze artistiche sopravvissute al tempo e al sisma e i disastri architettonici della ricostruzione, prima, e nello Specus Martyrum poi.
Catapultati, freneticamente, tra epoche differenti il passato a noi più vicino è ritornato spesso a farci visita in questa passeggiata. Lo abbiamo visto anche quando Lello Labate, della Pro Loco, ci ha raccontato l’evoluzione abitativa di Atripalda. Trasformatasi sempre più velocemente in un centro densamente popolato, ha visto diminuire drasticamente le piccole case di un tempo, sacrificate a scapito di palazzi sempre più alti. Lo ha fatto anche lui, facendo ricorso alle sue memorie, indicandoci una piccola palazzina che resiste ancora. Lì nei pressi di quel ponte conosciuto come Ponte delle Carrozze accoglie ancora tutti coloro che si dirigono in piazza. Un ponte che ha acceso altre memorie, come i racconti degli tanti anziani che durante gli anni hanno ricordato i tragici momenti in cui una piena lo costrinse a soccombere, mandando nel caos un intero paese.
La tappa ha seguito un suo crescendo anche sotto l’aspetto dell’altitudine cittadina. Infatti spingendoci sempre più su abbiamo avuto la possibilità di visitare la chiesa delle Grazie ed infine di ritrovarci tra gli arbusti e le statue del giardino Caracciolo. Abbiamo avuto modo, anche in questi luoghi, di rivivere i racconti di vite passate, fatti anche di ginocchia sbucciate e di partite di pallone infinite, giocate all’ombra di quel palazzo che oggi ci consegna un presente cadente, ma non per questo fatto di rinuncia ed arrendevolezza.
Non è bastata una giornata a raccogliere almeno la metà delle infinite vite di Atripalda e per questo con le Acli di Avellino, con l’Associazione Terrafuoco di Massimo Vietri, con tanti nuovi ospiti e partecipanti ritorneremo a passeggiare anche questo sabato, tra le storie e le memorie di una città che spesso si dimentica di averne davvero tante da raccontare.
CONSIGLI DI LETTURA TAPPA 5 – CAMMINI IRPINI
«Dopo averlo lasciato per la prima volta a 31 anni e dopo più di 15 anni di assenza, il piacere malinconico, non privo di euforia né di collera e amarezza, che mi dava contemplarlo era uno stato specifico, una corrispondenza fra interno ed esterno che nessun altro luogo al mondo poteva darmi. Come ogni rapporto tempestoso era caratterizzato da un chiaroscuro ambivalente, dove si alternavano commedia e tragedia. Segno, modo o cicatrice me lo porto dietro ovunque vada e questo non cambierà mai».
Il fiume senza sponde – Trattato immaginario, Juan José Saer, La Nuova Frontiera, 2019
quando ero lì con te a Napoli, abitavo in periferia, tu ci abiti tuttora insieme a mamma e papà. Abbiamo sempre vissuto in periferia, prima Frullone, poi Chiaiano. Devo dire, che non mi è mai pesato, forse merito della metropolitana, forse merito dei nonni materni e paterni con casa rispettivamente nella Sanità e a via Marina. Insomma il centro di Napoli l’ho sempre vissuto molto. A parte le scuole primarie e secondarie, liceo e università le ho frequentate al centro, tutti i giorni della mia adolescenza/prima giovinezza li ho trascorsi tra vicoli affollati, opere d’arte a cielo aperto e profumo di pizza e sfogliatelle calde. Se proprio vogliamo dirla tutta per me il centro ha sempre rappresentato casa, la periferia un letto caldo dove dormire.
Poi è arrivato il trasferimento a Parma e i termini di paragone si sono ingigantiti. Non più centro e periferia, ma nord e sud. Su questi due termini la letteratura è molto ampia, i significati molteplici. C’è chi non vede alcuna differenza tra i binomi centro-periferia e nord-sud, chi li ritiene due facce della stessa medaglia, chi due opposti destinati a non avere un punto d’incontro.
Io! Mentre scrivo queste ultime tre parole, mi rendo conto che ora sono io il punto d’incontro tra nord e sud. Una napoletana che ha preso la sua valigia colma di vita partenopea e l’ha portata con sé al nord, ci ha riempito una nuova casa, una seconda vita.
Sì, perché diciamoci la verità, quando ti trasferisci in una nuova città, vicina o lontana che sia, non cambi la vita che avevi, ma ne dai inizio a un’altra. Quella precedente, soprattutto se ci sono ancora dei legami affettivi, è lì che ti guarda, che interagisce con te. Ogni tanto le si volta le spalle per essere più forti, altre volte la si abbraccia per cercare conforto.
La mia seconda vita è interessante. Sento la differenza tra nord e sud? Sì, la sento, è impossibile negarlo. Non sono, però, completamente convinta che tutta questa diversità sia dettata dal passaggio dal meridione al settentrione, o almeno credo che in parte non lo sia.
Certo, ci sono due cose che mi fanno percepire molto la differenza tra il vivere su e il vivere giù, entrambe non dipendenti dalla volontà umana. Sono il clima e il mare. Non ho mai avuto così freddo come qui a Parma e, mi dispiace dirlo, chi è nato tra le braccia del mare non si abituerà mai a questa immensa assenza.
Per il resto Parma è una bella cittadina, imparagonabile a Napoli per dimensioni e densità abitativa. Che i servizi funzionino meglio, che ci sia meno frastuono, insomma che la qualità della vita sia migliore è cosa ovvia quando c’è meno da gestire.
Il mio modo di vivere è decisamente cambiato, le mie abitudini lo sono. Il trasferimento in un’altra città ha coinciso con il passaggio alla vita adulta, all’abbandono del nido materno, e, di conseguenza, sono passata da una città frenetica a una vita frenetica. Ho dovuto imparare a gestire meglio il tempo, diviso tra casa, lavoro, relazioni e passioni.
Tanti cambiamenti, insomma, molti dei quali, però, non legati al fatto che io sia al nord. Tutto ciò lo avrei dovuto affrontare anche in una città siciliana, a Roma o, a dire il vero, anche a dieci minuti dalla casa natale.
Piuttosto, forse più che essere al nord pesa l’essere molto lontano da Napoli. È vero, con quattro ore di treno sono di nuovo da mamma e papà, ma il lavoro e, in questi tempi, il Covid spesso non lo permettono. Sì, qui ho più o meno creato nuove relazioni, ci sono i miei colleghi di lavoro la cui metà proviene tutta dal sud, ma stare lontani per molti mesi dalle persone a cui tieni, dagli affetti con cui sei cresciuta e che ti hanno vista crescere pesa. La differenza tra nord e sud e tutta lì.
Alzi la mano a chi, in vita sua, non è stata rivolta questa esclamazione, camuffata da domanda?
Alzi la mano chi, in vita sua, in seguito al quesito retorico sopracitato non ha vissuto attimi di esotiche fantasie in cui per un breve momento si è immaginato altrove, alle prese con nuove sfide e nuove avventure?
Sono sicuro che non basterebbe uno stadio per contenere tutte le persone che si sono ritrovate a dover fare i conti con queste parole. Almeno una volta nella vita, ognuno di noi avrà dovuto rispondere all’inquisitore di turno. Almeno una volta nella vita ognuno di noi avrà dovuto rispondere a se stesso. Ma procediamo con ordine.
IL PERCHÉ DELLA DOMANDA
Chi vi scrive quelle parole le ha ascoltate spesso, in forme ed espressioni diverse. Parole che negli anni hanno assunto differenti suoni e flessioni: qualche volta sono state pronunciate come un consiglio fraterno, altre volte come un’esclamazione violenta, sofferente e disperata.
Sprezzata rassegnazione di una generazione, precedente o contemporanea, che di fronte agli invalicabili ostacoli non ha potuto far altro che gettare la spugna. Non ha potuto far altro che immaginare per sé una vita differente che non potrà più esserci, ma che continua ad accompagnare i pasti, gli aperitivi e le notti provinciali di molti.
Una rassegnazione prodotto di una narrazione distorta che riporta la provincia ad essere intesa, analizzata e vissuta come un qualcosa di unidimensionale da cui è impossibile sfuggire. Ma soprattutto la porta ad essere letta solo ed esclusivamente attraverso schemi interpretativi provenienti, e quindi funzionali, dai grandi centri.
Quindi ci ritroviamo immersi in una certa varietà di narrazioni, questo è vero, ma tutte incompatibili tra di loro e soprattutto tutte frutto di un punto di vista esterno. Si fa fede ai diversi modelli standardizzati di provincia tra cui, senz’altro quelli più comuni sono la “provincia presepe” e la “provincia meccanica”.
La prima è il risultato di anni e anni di erosione democristiana che hanno raggiunto l’apice in questi anni con la promozione e diffusione dei servizi del Tg3 regionale in cui presentano paesi e cittadine da piazze inverosimilmente gremite dove ragazze con vestiti tradizionali ballano a ritmo di musica popolare in un’orgia di dolci e piatti tipici e dove le persone festanti si ritrovano in difesa del proprio campanile.
La seconda è il risultato delle trasmissioni pomeridiane dai colori accesi in cui reporter d’assalto si ritrovano catapultati nella provincia di … e nel comune di … e dove si è sempre consumato qualche efferato delitto per cui è bene concludere generalizzando che la provincia è quella parte di Italia dove si consumano le peggiori violenze.
Schiacciati da queste forme di narrazioni ci si convince, a seconda del caso, che le realtà in cui viviamo sono terre di sole e nacchare durante il sabato e la domenica e terre senza dio dal lunedì al venerdì. Schiacciati da ciò ci si convince che forse l’unica soluzione giusta è quella di lasciare casa e raggiungere altre sponde.
IL PERCHÉ DELLA RISPOSTA
Alla visione unidimensionale si contrappone un universo pieno di sfumature e difficile da definire ed interpretare attraverso una sola chiave di lettura. Lo dimostrano i 150 metri quotidiani che dividono la mia abitazione dal luogo in cui lavoro.
In meno di un chilometro è possibile raccontare diverse forme di provincia con le sue problematiche e le sue battaglie.
Una provincia che si sveglia ogni mattina e deve fare i conti con il continuo tasso di inquinamento dell’aria e delle falde.
Una provincia che nel corso degli anni 80 ha vissuto una delle prime forme di gentrificazione del centro storico, “grazie” alla ricostruzione del post terremoto.
Ma in quei 150 metri che mi separano da casa al lavoro è possibile vedere la voglia e la capacità di una generazione di non arrendersi agli schemi prestabiliti per loro, che ha tentato di riscrivere quel piccolo pezzo di vita che li aveva già assegnati ai soliti consumi e ai soliti divertimenti.
Così quando mi dicono: Che fai ancora qui? Perché non te ne vai?!?
Ripenso a quante storie quei 150 metri riescono a contenere e a quanto sia necessaria una nuova politica del fare, come scriveva spesso Manlio Rossi Doria, e quanto sia importante il nostro ruolo qui, per non dover andare altrove a cercare un racconto di noi che è qui ed ora.
Un antico detto che abbiamo avuto modo di ascoltare spesso nel nostro viver quotidiano è stata l’espressione colorita e gergale che ci è venuta in soccorso quando ci siamo ritrovati a commentare quanto accaduto lo scorso 6 gennaio a Capitol Hill.
Certo ci saremmo, e forse avremmo, dovuti abbandonare ad un’analisi più profonda di quanto successo in quel giorno a Washington, ma un po’ per la pioggia battente, un po’ per la zona arancione che non permette altro che fugaci incontri, non abbiamo avuto altro modo se non quello di affidarci a questo detto che dalle nostre parti viene utilizzato anche con troppa leggerezza.
Così mentre l’umido inverno avellinese ci mostrava il suo lato piovoso (e forse peggiore) abbiamo cominciato a riflettere su i tanti se e i pochi ma che quell’episodio aveva suscitato in gran parte dell’opinione pubblica. Rifiutando il più grande errore che un altro detto ci consegna, ovvero che la storia non si fa con i se e con i ma, abbiamo avuto modo di riflettere più in generale sulle tante differenziazioni a cui spesso assistiamo, che spesso viviamo e a cui spesso ci ritroviamo ad essere incolumi fautori.
Una su tutte ci ha sempre interessato e rappresenta uno dei tanti perché che ci ha spinto a intraprendere l’avventura di Scarpesciuote ed è la relativa dicotomia centro – periferia, meridione – settentrione. In questi mesi ci siamo mossi in un terreno di accentuata coscienza delle problematiche che ci circondano e che viviamo, senza cadere nell’infantile neoborbonismo dei tanti e ai loro continui richiami ad un periodo d’oro artefatto. In questi mesi abbiamo cercato di analizzare le contraddizioni che ereditiamo per questioni geografiche, sociali e culturali e di cui siamo vittime e carnefici.
Quindi vorremmo parlare di queste contraddizioni attraverso il racconto delle nostre realtà politiche, sociali e culturali che ci hanno accompagnato e che abbiamo avuto modo di scoprire mettendo a paragone le nostre vite con quelle degli altri nostri coetanei che sono cresciuti e che continuano a crescere in contesti urbani e sociali differenti e in questo caso più centrali delle nostre.
Per questo ritorniamo al punto di partenza e per queste due settimane ci vogliamo chiedere chi siamo noi? Figli o figliastri?
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