
Coraggio e coraggiosi per nascita e per crescita
Il tema del coraggio è strettamente legato a quello affrontato la scorsa volta a proposito dell’emarginazione, o meglio dell’auto-emarginazione. Il collegamento è concepibile se consideriamo il ritiro sociale e il coraggio come una fotografia con il suo negativo (quel “pezzo” di rullino che conteneva l’immagine da imprimere sulla carta fotografica, unico strumento da poter “sviluppare” prima dell’avvento della fotografia digitale). Perché la timidezza provata da chi desidera ritirarsi dalla società si annida laddove viene meno il coraggio di esprimersi in libertà per il timore delle conseguenze a cui si pensa (e si ha paura) di andare incontro.
Come per la timidezza, il coraggio di ciascun individuo è il risultato di una complessa interazione tra diversi fattori che la collaborazione tra diverse branche della scienza non è ancora riuscita a trovare l’equazione che ne spieghi tutti gli aspetti; questi fattori sono ambientali come l’educazione ricevuta o la città e il quartiere in cui si nasce, storici e individuali, questi ultimi divisibili in mentali e cerebrali.
La mente e il cervello costituiscono due facce della stessa medaglia e, sebbene in natura siano considerabili come una unità inscindibile, è necessario considerare prima uno e poi l’altro aspetto per poter cogliere conoscere qualcosa del suo funzionamento. Le persone coraggiose, ad esempio, hanno una particolare caratteristica mentale che li porta a cercare il brivido, a fare cose rischiose per il desiderio di provare la sensazione che ne deriva; questa complessa caratteristica mentale prende un nome inglese che si traduce con “ricerca di sensazioni” e che spiega la voglia di correre rischi da parte di queste persone non tanto sulla base di quello che fanno ma rispetto a ciò che vogliono sentire il che, ad esempio, fa sì che un pilota di formula1 e uno scalatore alpino abbiano la stessa caratteristica mentale, o per meglio dire di personalità.
E che succede nel cervello di queste persone? Nulla che non accada in tutti gli altri cervelli quando ci si trova ad affrontare situazioni pericolose. La differenza sta in alcune strutture del loro cervello che, per come si sono sviluppate nel corso della loro esistenza e per come hanno interagito il genoma, l’ambiente inteso in senso lato e le persone significative, hanno fatto sì che le sostanze chimiche rilasciate dal cervello quando si corre un rischio (a.k.a. i neurotrasmettitori adrenalina e noradrenalina) venissero associate alla sostanza che il cervello rilascia quando si prova piacere, la mitica dopamina.
Il coraggio, ovviamente, non è ad uso e consumo esclusivo dei cosiddetti cercatori di sensazioni sebbene queste persone siano maggiormente propense ad esprimerlo quando, appunto, corrono dei rischi per provare piacere mentale e fisico. E non è neanche scontato che queste persone siano percepite da chi li conosce come coraggiosi, basti pensare che questa caratteristica è tipica dei giocatori d’azzardo incalliti, non proprio dei leoni nell’immaginario collettivo.
Fatto sta che per dimostrare di avere coraggio bisogna provare quella sensazione che viene appositamente ricercata da alcune persone, anche se alla maggior parte degli individui dare una prova di coraggio non porta al soddisfacimento di un desiderio. Ed è anche vero che per dimostrare di avere coraggio non bisogna andarsi a cercare per forza situazioni rischiose: ogni decisione presa come soluzione a qualcosa che avverrà nel futuro richiede una dose di coraggio e poco importa se la nostra storia personale ci ha reso più o meno propensi ad essere coraggiosi.
Prima o poi ogni persona dimostrerà a se stessa di essere stata coraggiosa.
Commenti recenti