Rimani, ancora qualche minuto, il tempo di credere che tutto stia già qui

Rimani, ancora qualche minuto, il tempo di credere che tutto stia già qui

Rimani ancora qualche minuto, il tempo di credere che tutto quello di cui abbiamo bisogno stia già qui. Se avremo sete, non mancheranno le birre rigorosamente indipendenti da logiche di mercato; se avremo fame, non mancheranno le nonne, che ancora non si sono estinte perché anche Dio ha capito che potremmo fare a meno persino dell’onestà, ma non di una nonna; se avremo voglia di camminare, non mancheranno i marciapiedi già calpestati dalle nostre suole sporche di speranze disattese; se avremo voglia di fare l’amore, non mancheranno donne ed uomini da amare almeno per qualche secondo.

E se a me non bastasse tutto ciò? Se io volessi qualcosa in più? Se io volessi fuggire da qui perché i miei sogni sono più grandi di un pettegolezzo di paese? Se io necessitassi di un cielo diverso perché il cielo visto da qui ha smesso di turbarmi l’anima persino in estate? E se desiderassi ascoltare canzoni altrove da qui, cosa mi risponderesti?

Io non lo so. Non ho le risposte adatte per convincerti che non fa niente se non incontri il lavoro giusto che potresti trovare in una città più meritocratica. E non ho ancora trovato nemmeno le parole giuste per convincerti che la felicità, in fondo, la si può trovare anche rinunciando a qualche legittima aspirazione personale. Per esempio, io rinuncerei ad un po’ di prestigio se semplicemente qui venissero garantite dignità e meritocrazia.

E lo farei perché a furia di rinunciare a cambiare le cose abbiamo smarrito noi stessi; perché, forse giusto in tempo, ho capito che senza la briscola davanti al bar non esisterebbe nemmeno la Gioconda; perché è giusto fare le esperienze altrove, ma è altrettanto giusto rimanere per proteggere la vita dei piccoli centri altrimenti morirebbe l’intero Paese. Mica per caso avete mai visto una specie progredire uccidendo quelli più in difficoltà?

La storia di una piccola cittadina e della sua aria

La storia di una piccola cittadina e della sua aria

«Lo senti, lo senti l’odore? Napalm figliolo, non c’è nient’altro al mondo che odora così! Mi piace l’odore del Napalm come aperitivo»

Tenente colonnello Kilgore – Apocalypse Now

Un vento freddo ha continuato a tirare in questi giorni in tutte le strade della città. Soffiando senza sosta e senza tregua, sulle bandiere tricolore, già sbiadite, rimaste esposte su qualche balcone dalla scorsa estate, tra le cime degli alberi ancora spogli, tra le strade strette e silenziose del centro storico, tra le vetrate malandate dei tanti palazzi cittadini. Continua a soffiare anche nelle infinite ed infinitesime piazze cittadine o nei grandi spazi aperti, anonimi come pochi, un tempo chiassosi e annoiati ritrovi di una gioventù che non c’è più e diventati sempre più un rifugio silenzioso di auto.

Un vento acre e pungente che si dirama nelle strade e nelle piazze di Atripalda, media cittadina, di una media provincia del Sud e ci prende tutti. Ci prende alla testa quando, rapidamente, risale le narici e quasi in contemporanea scende per la gola e ci lascia con un peso sul petto: respiriamo a fatica e ci costringe al silenzio o all’urlo disperato e ansimato. Due reazioni opposte, ma due reazioni di una stessa condizione.

Il vento di questi mesi, non è frutto di una questione atmosferica, non solo questo. In questi mesi il vento ha assunto un odore chiaro e definito e così Atripalda ha un suo nuovo odore, quello di una comunità frammentata, incattivita e priva di una qualsivoglia speranza.

Niente di originale per una cittadina, che ancora oggi, si nasconde dietro al suo passato perché incapace di lottare per un presente migliore e di costruire un futuro adeguato. E così ritornano aggettivi vecchi e che a tratti risuonano fastidiosi per chi vive tra mille difficoltà:

Atripalda, città del commercio, in mezzo alla recessione e alla crisi!

Atripalda, città della solidarietà, in mezzo alla calunnia e alla violenza verbale e sociale (di alcuni, divenuti tanti)!

Atripalda, città della cultura, dove la cultura deve essere un hobby che qualche giovane annoiato e frastornato dai fumi dell’alcool deve praticare negli anni scolastici a tempo perso, non certo un motivo di emancipazione lavorativa e vita!

Atripalda, città dei giovani, in mezzo a un fiume silenzioso che scorre in senso inverso al nostro fiume Sabato, (che a proposito, non se la passa tanto bene) e che ci consegna un’emigrazione spaventosa!

Mentre l’odore continua a spargersi nelle strade cittadine sempre più vuote, un luogo si riempie a dismisura nei giorni festivi della settimana: la piazza centrale. Vetrina di tanti fino a qualche anno fa sconosciuti ai radar geografici cittadini e che oggi si mettono in mostra, ricordandosi di far parte di una comunità che loro stessi hanno provveduto a frammentare e incattivire, ricordandosi di far parte di una città e dei suoi luoghi, fino a qualche mese fa sconosciuti. Incendiari in un conflitto, tutt’altro che a bassa intensità, dove si è tutti contro tutti.

E nel bel mezzo di questo vortice d’aria sempre più pungente, ci ritroviamo, in tanti, a fare i conti con un’esistenza sempre più difficoltosa. Cresciamo in spazi, fisici e simbolici, chiusi. Non esistono luoghi liberi dove incoraggiare l’aggregazione, non abbiamo la possibilità di creare occasioni di aggregazione senza percepire nell’aria (sempre lei) l’odore di qualche mefitico malessere, condito da quel tanto di malafede che vede nella voglia di far uscire in strada le persone un protagonismo che non ci interessa (e non ci compete). Sacrifichiamo le nostre esistenze individuali (è vero, nessuno ce lo chiede, ma lo facciamo per amore della nostra terra e di coloro che decidono di viverla) per restare e fare qualcosa. Non vogliamo andare via!

Ma quest’aria è troppo più forte di noi e si è già impossessata di tanti e ci troviamo sempre più fuori rotta.

Di questi tempi dovremmo lottare, tutti insieme, solidali gli uni con gli altri, contro una crisi economica (quasi ventennale) che ci ha reso tutti più poveri e disperati. Dovremmo lottare per portare avanti i valori e le ricchezze delle nostre diverse esistenze ed esperienze utili a battere nuove strade di rinascita culturale, sociale ed economica. Dovremmo lottare per ritornare in strada, tutti, e impegnarci direttamente per difendere i nostri spazi comuni dall’incuria e dall’abbandono, dimostrando che tutto questo lavoro può essere più efficace di qualsiasi telecamera. Dovremmo lottare per non lasciare più nessuno indietro, per far sentire tutte e tutti parte della Comunità, esaltando le differenze.

Dovremmo lottare per tanto, ma l’unica cosa che percepisco è sempre e solo quest’aria che continua a soffiare, anche dalle bocche di qualcuno.

Così mi ritrovo (costretto) a raccontare di Atripalda, una media cittadina, di una media provincia del Sud Italia di cui nessuno vuole sentir parlare.

Gli obiettivi che fallirò nel 2022

Gli obiettivi che fallirò nel 2022

Gli obiettivi che fallirò nel 2022:

-Sorridere di più anche quando entro nel tabacchino e mi accorgo che mi mancano cinque centesimi per l’acquisto delle cartine e quella stronza mi invita a ritornare più tardi.

-Comprendere che una birra al tramonto significa che hai fregato Dio ancora una volta.

-Smetterla di dirmi “oh, c’è gente in guerra, bambini che muoiono di fame”. Non è colpa mia se il mondo è ingiusto ed io ho il pieno diritto di lamentarmi se si strappa il laccio della mia scarpa preferita.

-Imparare a dire di no a quei cazzo di ambulanti che vendono calzini. La psicologa mi ha suggerito che a causa del mio essere passivo ho speso oltre cento euro in accendini e calzini. “Capo, una cosa a piacere” e allora ti va bene un cazzotto da femminuccia al centro della faccia?

-Far finta a volte di dimenticare il passato e disperarmi e felicitarmi soltanto per ciò che accade avanti ai miei occhi. Qui ed ora.

-Concedere più tempo alle canzoni e alle persone.

-Non farmi fregare dalle cose e dalle persone che hanno un bel packaging.

-Ritornare a fare sogni impossibili, tipo diventare astronauta, ché nella vita non si può mai sapere. Spesso è di merda, però comunque non si sa mai.

-Staccare il telefono almeno un’ora al giorno. Ed in quell’ora scrivere cartoline, piantare fiori oppure più semplicemente allontanare le ansia delle continue notifiche, dell’ennesima email a cui rispondere, dell’ennesima notizia da commentare perché adesso va di moda avere una cazzo di opinione su tutto e tutti.

-Avere la consapevolezza che non potrò accontentare tutti. Deluderò qualcuno, non farò ciò che qualcuno desiderava, ma ehi, sono sempre io. E vi voglio bene.

-Accarezzarti di più e ogni tanto sussurrarti in qualsiasi orecchio che ce la faremo. E che comunque non hai mai visto me e Batman seduti allo stesso tavolo.

-Ricominciare a fare promesse perché una promessa è tipo Dio che ti concede del tempo per fare il possibile e a volte l’impossibile. E soprattutto per far sorridere a chi vuoi bene.

-Volermi più bene.

-Smetterla di masturbarmi per noia.

 

Le mappe che colpevolmente a volte dimentico di consultare

Le mappe che colpevolmente a volte dimentico di consultare

Ti ricordi quando ti alzasti sulle punte dei piedi e con le labbra spaccate ci fu un bacio tra di noi bello quanto la città dove hanno girato “Una mamma per amica”? Quel giorno io l’ho cerchiato in rosso sulla mappa che ora mi è capitata tra le mani. Nonostante gli occhiali sporchi di ditate e patate fritte, riesco ancora a vedere i tuoi reggiseni non sempre sexy lì sulla mia sedia, lanciati in aria perché a volte è più importante toccarsi che capirsi. Anche questi momenti sono cerchiati in rosso e mi hanno aiutato a capire che è necessario seguire l’amore o roba simile affinché ogni strada non sia mai quella sbagliata. Con te accanto intenta a cambiare stazione radio, persino quel vicolo cieco dove strusciai tutta l’auto mi sembrò una buona meta.

Sotto un faldone di romanzi non sempre coraggiosi, ho ritrovato anche un’altra cartina che da tempo avevo abbandonato: è quella dove annoto tutte le persone in cui ho seminato un po’ di me (e non siate sempre maliziosi). Negli ultimi anni avevo accantonato questo pezzo di cuore perché stanco di persone e miscredente nell’amicizia, perché in fondo anch’io sono stronzo, perché è indispensabile affrontare tutto il dolore da solo prima di chiedere aiuto a chi vuoi bene. E mi sono emozionato nel rivedere questa mappa ingiallita dalla felicità e dalla tristezza e dai caffè e dalle birre e dalle confidenze e dalle incomprensioni e dalle risate all’alba e dal mare insieme e dalle strette prima di precipitare nel vuoto: non rinunciateci mai a tutte queste meraviglie, a meno che non sia uscita una serie tv figa e allora ci vediamo domani. E perdonatemi la sintassi poco corretta, ma ho scritto e pensato tutto d’un fiato come si fa con le cose importanti.

Prima di spegnere la luce, mi è caduto l’occhio sull’ultima mappa. Per me è la più importante e per questo motivo l’ho nascosta dietro al dvd del film su Lanterna verde: lì neanche il ladro più disperato ci metterà mano. Si tratta della cartina in cui ho disegnato malissimo tutti i sogni che vorrei realizzare. Lo so che non li realizzerò tutti – probabilmente mi va di culo se riuscirò a dire almeno un “sì, questo sogno l’ho vissuto ed è stato bellissimo, peccato soltanto per il caffè troppo schifoso” – però questa mappa è fondamentale perché anche guardandola una solta volta al mese mi ricorderà sempre chi sono.

Perdersi e ritrovarsi grazie alle mappe

Perdersi e ritrovarsi grazie alle mappe

C’è un orario che in estate aspetto con più impazienza degli altri ed è quando l’orologio segna le 19. Credo che sia l’orario migliore della giornata e poco conta il luogo in cui mi ritrovo ad aspettarle, può essere in montagna o al mare, sarà sempre l’ora giusta per rifiatare dell’incredibile calura giornaliera. L’avevo pensato anche durante quest’ultimo 15 agosto, quando io e la mia amica Alessia eravamo appena rientrati in auto. Avevamo fatto un’incredibile scorta di bottigliette di acqua tiepida in un piccolo bar, lungo quella che aveva tutto l’aspetto di essere la strada principale di Casalbore. Dietro di noi la torre normanna era ancora baciata dal sole, mentre la luce dolce del tramonto scendeva lungo tutto la strada.

Un incredibile spettacolo stava sancendo la conclusione di quel pomeriggio, insolito, passato a passeggiare e a riscoprire i borghi dell’estrema Irpinia e che annunciava la nostra intenzione di rientrare a casa. In auto avevo pensato che come spesso accade in queste situazioni mi ritrovo ad essere il passeggero designato al difficile compito di navigatore.  La storia inizia sempre nella medesima maniera, l’autista di turno pronuncia sempre la stessa frase, talvolta anche un po’ seccata:

«Viri no poco ncoppa a Google Maps che ti dice!» che per i non indigeni irpini la si potrebbe tradurre più o meno così «Prendi il navigatore di Google e capisci dove stiamo andando! Ma soprattutto controlla che quella che stiamo percorrendo è la strada giusta».

Una richiesta che ai più potrebbe non destare nessun problema, ma che al sottoscritto, soprattutto dopo questa estate, ha creato non poche difficoltà. Il motivo? Ho letteralmente fatto perdere moltissimi conducenti e amici e non riesco a spiegarmi il perché.

Ovviamente, anche questo 15 agosto non ha fatto eccezione e dopo alcuni momenti di drammatiche imprecazioni e litigi tra me e il navigatore siamo riusciti a ritrovare la strada di casa.

Ma non sono qui per parlare del mio pessimo utilizzo delle mappe GPS, anche perché non riesco ancora a spiegarmi perché senza di esse riesco ad orientarmi discretamente. Quello di cui invece vorrei parlare è di come ogni mappa con cui entriamo in contatto riesce a raccontarci molto di più di quello che leggiamo apparentemente su di essa. Ma soprattutto per dimostrare che nelle nostre quotidianità mappe e mappature sono più presenti di quanto si possa credere. Facciamo, infatti, affidamento a queste per comprendere gli spazi e luoghi nei loro valori sociali, oltre che geografici. Ecco due piccoli esempi.

MARZO 2021 – LA MAPPA DEL DIVIETO

Partiamo dalla fine. Eravamo già preparati a quello che lo scorso marzo ci avrebbe regalato, o meglio credevamo di esserlo. La nostra seconda primavera pandemica sarebbe iniziata nel segno dei colori, un sistema che avevamo ereditato negli ultimi mesi del 2020, quando avevamo visto l’Italia dividersi in differenti zone colorate.

Avevamo atteso l’arrivo della primavera con questa strana consapevolezza, che nel corso dei mesi ci aveva spinto a trovare delle soluzioni per non perdere il contatto con il mondo esterno. Eravamo pronti e avevamo costruito le nostre soluzioni per orientarci e vivere in mezzo alle numerose zone di colore che ci venivano affibbiate, ma non avevamo fatto i conti con le politiche del governatore De Luca. L’introduzione urgente di tre ordinanze ci avevano gettato nella depressione più totale: oltre la limitazione negli spostamenti le giornate di marzo sono state accompagnate dal suono che facevano le nostre piazze vuote.

Una delle tre ordinanze sanciva la chiusura temporanea di tutte le piazze, spiazzi e parchi cittadini, al fine di evitare ogni forma di assembramento. Il suono dell’ordinanza era un’incredibile aria composta dal vento gelido di marzo sul nastro segnaletico usato per delimitare tutto.

Un suono non lasciato inascoltato. Un numero spropositato di servizi giornalistici realizzati dalle televisioni locali ha documentato il silenzio assordante delle piazze principali delle nostre cittadine e con esse l’urlo nero di dolore dei tanti anziani cittadini costretti al nulla.

La chiusura delle piazze non ha portato solo disperazione e depressione, ma anche la nascita di piccole soluzioni emergenziali: le strade secondarie e i vicoli più nascosti si sono trasformati in patria di passeggiatori eversivi che hanno, in questo modo, riscoperto luoghi e larghi secondari, da sempre sacrificati in nome del centralismo urbano, e hanno potuto ricostruire, anche se per qualche attimo, quella socialità perduta.

ARGINE – MAPPE GENERAZIONALI

La seconda ed ultima storia prende il via dalla, recentissima, ricerca sociale in cui sono impegnato insieme a due amici e colleghi. La ricerca nasce dalla necessità di raccontare e comprendere meglio una delle realtà più complesse ed inascoltate della città, ovvero i giovani. Per mesi abbiamo ascoltato tantissimi giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni con l’obiettivo di comprendere la concezione e la considerazione che quest’ultimi hanno della propria realtà urbana.

Un lavoro complicato e anche molto stancante che ci ha visto attraversare le diverse stagioni e diversi ambienti, ma che soprattutto ci ha fatto incontrare un numero incredibile di ragazze e ragazzi che avevano e hanno, tutt’ora, molto da dire. Sia ben chiaro, non affronterò nessun argomento rilevante relativo la ricerca, ma partirò dall’impressione personale che queste discussioni hanno prodotto nel sottoscritto e che sicuramente approfondirò.

Ascoltando le molteplici testimonianze una cosa mi ha colpito: i luoghi di aggregazione e socializzazione che elencavano erano completamente differenti dai miei e da quelli della mia generazione.

Un bel risveglio il mio, non c’è dubbio. Ma soprattutto una nuova consapevolezza quella del sottoscritto che le mappe emotive e mentali che costruiamo durante la nostra vita cambiano continuamente. Sono bastate due differenti generazioni di adolescenti per comprenderlo.

Vivere in un mondo in continua trasformazione ci costringe ad adattare, ricostruire e ridefinire i nostri luoghi, ma soprattutto ci porta a riscrivere i significati ad essi connessi. Per la mia generazione, un luogo centrale come la villa comunale era il punto di ritrovo per eccellenza e le nostre mappe (simboliche e mentali) partivano tutte da questo punto.  Agli antipodi le ragazze e i ragazzi più piccoli di questi anni hanno costruito una geografia urbana diametralmente opposta quella precedente. Hanno dimostrato, così facendo, che è possibile costruire una nuova mappa della città non necessariamente partendo dal centro. E voi che mappa usate?