Molto spesso tendiamo a dimenticare quello che abbiamo vissuto, soprattutto i momenti più difficili e dolorosi. Non è certo un metodo che applichiamo con consapevolezza, ma è una forma di difesa che la nostra mente tende ad azionare più spesso di quanto potessimo immaginare. È per questo che Cammini Irpini, sin da subito, è diventato qualcosa di estremamente importante.
Anche se giornali e telegiornali continuano a ricordarci dell’esistenza del covid19, abbiamo sicuramente dimenticato quelle che sono state le privazioni, quelle che sono state le rinunce.
Giunti alla sesta tappa di questa magnifica esperienza, possiamo dirlo chiaramente che lo scopo di quanto si sta cercando di costruire è derivato dalle privazioni che in questi due anni la pandemia ci ha costretto ad operare. Rinchiusi per mesi nelle nostre case abbiamo compreso a pieno la bellezza del mondo esterno, di tutto ciò che ci circonda e di quanto fosse necessario per il nostro corpo una funzione tanto umana quanto culturale come il passeggio.
Cammini Irpini ha voluto riportare al centro due delle infinite mancanze di questi ultimi anni: la cura per il proprio benessere psico – fisico e l’attenzione per le nostre strade, le nostre piazze e le nostre città. Da sempre ci troviamo a vivere una sorta di blasé (mi perdonerà Simmel se prendo in prestito questa definizione e la rendo più estesa) che ci aveva reso indifferenti a qualsiasi cosa avesse a che fare con i luoghi da noi vissuti quotidianamente.
Abbiamo così riscoperto che non servono sempre grandi spostamenti per potersi stupire e meravigliare di tanta bellezza e tanta storia che molto frequentemente abbiamo sotto il nostro naso e di cui raramente ce ne rendiamo conto.
18.09.2021 – TAPPA 6 – ATRIPALDA E LA SUA STORIA ANTICA
Quello che più colpisce ed affascina di Atripalda è l’estrema presenza di epoche l’una vicino l’altra. Questo era l’assunto che avevamo definito nella precedente tappa di questo semplice diario dei ricordi che sto provando a creare.
Ripartire da questa definizione è importante per comprendere anche il breve viaggio di sabato. Un viaggio intenso, cominciato con un caldo atipico per una giornata di fine settembre, che per clima e sole non ha avuto nulla da far invidia ai tipici fine settimana di agosto.
Così, in un sabato silente e, al tempo stesso, carico di affanni ci siamo mossi alla volta di via Manfredi. Lungo la strada che si allontana dal centro cittadino ci siamo ritrovati qualche istante prima della partenza.
Abbiamo cercato refrigerio, proprio nei pressi delle mura dell’ex istituto scolastico De Amicis. Da quelle vetrate, più di venti anni fa, volgevo lo sguardo di timido ed annoiato studente dell’ultimo anno di elementari, cercando un insperato rifugio nel mondo esterno. Lì come la filastrocca di Prévert cercavo qualcuno che giocasse con me, che mi aiutasse a fuggire da quel tipo di istruzione meccanica a cui eravamo condannati.
Senza rendermene conto per un anno intero ho avuto modo di convivere con la storia della mia città. Senza rendermene conto, per un anno intero, ogni volta che volgevo lo sguardo all’esterno della finestra le cinta murarie erano lì a farmi compagnia.
Le stesse mura che dopo più di venti anni ci hanno accolto e dove ha avuto inizio un fantastico duetto, in cui si sono alternate nuove e vecchie voci, le volontarie della Pro Loco e Lello Barbarisi di Velecha.
Un susseguirsi di racconti e di spiegazioni hanno accompagnato i nostri passi. Lì tra i resti dell’antica domus siamo ritornati alunni in gita. Ci siamo rivisti nei nostri grembiuli blu passeggiare in fila per due mentre osservavamo incantati le mura, le decorazioni superstiti del tempo e abbiamo assaporato ogni angolo di una storia non sempre accessibile.
Ci siamo ritrovati di nuovo, in quello strano intreccio di ricordi di una comunità che ha provato e prova tutt’ora a rapportarsi con il suo passato più remoto.
Ma come per il sabato precedente il tempo delle riflessioni è stato breve. Riportati al centro di Atripalda, sopra la collina che sovrasta piazza Umberto I ci siamo ritrovati davanti al convento di San Giovanni Battista, da tutti conosciuto con il nome di San Pasquale, per via della venerazione di San Pasquale Baylon. Malgrado l’epoca più recente rispetto alla precedente domus, la tappa non ha certo fatto diminuire il fascino tra i presenti.
Sorto sul finire del 1500 e inizialmente destinato ai barbanti (come venivano chiamati i padri conventuali riformati), negli anni ha visto avvicendarsi diversi ordini, passando per i padri alacantarini scalzi fino ai frati minori. Ma non è stato solo un importante centro religioso cittadino. Negli anni è stato un luogo generazionale non di poco conto. Teatro per decenni di infinite partite di calcio circondato da terre e discese e dove vigeva il motto dialettale “chi tira sa va pesa’” (chi tira la va a prendere, demandando così la responsabilità del tiro e del gesto atletico). Incuria ed intemperie hanno lasciato solo il ricordo di quel campetto in terra ed erba. Negli anni delle nostre adolescenze era un punto di ritrovo visitato soprattutto nei giorni di neve, capace com’era di darci la seconda ottima visuale dell’intera cittadina imbiancata (la prima continuerà a restare la Grotta della Madonna di Lourdes, conosciuta da tutti come Preta ra Maronna).
Anche in questa tappa la conclusione è stata frutto di un crescendo e di una risalita anche geografica della città. Passeggiando lungo via Roma, siamo giunti al confine con Avellino, dove è stato di nuovo Lello Barbarisi a prendere la parola. Tra passione e ricordi di infanzia ci ha parlato della tomba a camera. Inaccessibile cimelio della storia Atripaldese di cui si è fatto strenuo difensore.
Tra le calde luci del tramonto abbiamo concluso la sesta tappa di questo incredibile percorso. Un percorso che ancora una volta ci ha voluto insegnare che dovremmo imparare, nuovamente, a stupirci dei nostri tanti luoghi, luoghi che solitamente diamo per scontati e che in realtà nascondo una storia inaspettata.
Sono giorni difficili. Sono mesi complicati. Sono tempi complessi e molto più spesso di quanto avremmo mai potuto immaginare ci ritroviamo in alcuni momenti del giorno a ripensare al nostro passato. Più precisamente alla nostra infanzia. Con lo sguardo assente di chi si trova altrove, nel tempo e nello spazio, ritorniamo alle nostre infanzie, ovattate e piccolo borghesi. Ripensiamo con assoluta nostalgia a quello che per molti è stato un porto sicuro, lontano da tempeste e mareggiate. Per anni siamo stati al sicuro anche da qualsiasi forma di disagio economico e sociale. Per molti di noi termini come povertà ed emarginazione riportavano alla mente scenari esotici, frutto di qualche, insolita, testimonianza missionaria rilasciata durante la messa domenicale.
Per anni non siamo stati capaci di mettere a fuoco questi fenomeni: eravamo miopi e li consideravamo troppo lontani. Ma col tempo ci siamo dovuti ricredere. La povertà, il disagio economico e sociale, l’emarginazione era sempre stata lì, vicino a noi. Era nelle nostre strade, in fila nei supermercati, nel palazzo di fronte e persino allo stesso bancone del bar. Abbiamo col tempo imparato a conoscere i segni, spesso invisibili, di questi fenomeni. Proprio su di uno vorrei concentrarmi particolarmente, ovvero sulla marginalità giovanile.
L’IRPINIA E I GIOVANI AL MARGINE
In questo periodo è molto difficile intraprendere un itinerario fisico, ma proviamo ad immaginare una provincia del Sud Italia, come quella Irpina. Proviamo ad immaginarla con i suoi 118 comuni disseminati su una superfice di circa 2.800 km². Ma oltre i dati geografici dovremmo sforzarci di immaginarla anche su un piano demografico con la sua popolazione di 410.369 abitanti e con una popolazione giovanile di 146.775, ovvero il 35,7% dell’intera popolazione (fonte Demo Istat,2020). Un dato che se paragonato con l’ultimo disponibile sul sito dell’Istat, ovvero del 2012 è pressoché eclatante. La popolazione era di 428.855 abitanti e i giovani rappresentavano 170.182 unità, ovvero il 39,6% della popolazione. Quello che i numeri possono comunicare è la costante erosione demografica di una terra, che in meno di dieci anni ha perso circa 18mila abitanti. Quello che i numeri non ci raccontano sono le vite, soprattutto dei giovani che “studiano dove si può studiare e lavorano dove si può lavorare, e non tornano più”.
Sono in tanti quelli che si sono ritrovati ai margini della società capitalista, sempre più in crisi, e della sua struttura economica e sociale, che non ha posto per tutti e ha finito con l’escludere una larga fetta di popolazione che così facendo non riesce più a trovare posto nel mondo. Ci si ritrova ai margini in un momento generazionalmente importante, schiacciati da una struttura che valuta l’affermazione dei suoi componenti attraverso il superamento di alcuni riti e l’incapacità dei tanti di assurgere agli stessi. Le reazioni sono fondamentalmente tre, tutte parziali e temporanee: c’è chi continua il proprio percorso accademico/formativo, una punizione da girone dantesco, sperando prima o poi di uscire dal più grande parcheggio italiano, l’università. C’è chi decide di andare via, alla ricerca di un posto nel mondo che in Irpinia non sarebbe mai arrivato.
Infine c’è chi resta e tenta un disperato ingresso nel mondo. Sono in molti a tentare questa strada e le ragioni sono molteplici e vanno dalle questioni personali, sentimentali, familiari, fino a quelle sociali e politiche.
IL PROBLEMA DI CHI RESTA – EMARGINAZIONE CONSAPEVOLE
Quasi tutti quelli che intraprendono questo percorso si condannano ad una consapevole condizione di marginalità che li accompagnerà per anni nella speranza che un giorno possano finalmente uscire da questo limen.
Sanciscono il proprio ingresso nel mondo del lavoro, da giovani, almeno sul contratto. Una miriade sono i sotterfugi per non consegnarli dignità e una paga adeguata. Si inizia quasi sempre come volontari di servizio civile, poi si passa a volontari di garanzia giovani, successivamente si arriva agli stage e nel migliore dei casi al tirocinio aziendale o all’apprendistato. Eccoli i giovaninongiovani caricati di ogni responsabilità al lavoro, ma privati della possibilità di reclamare un proprio posto dignitoso nella società. Sono incapaci di conquistare una propria indipendenza, vivono ad oltranza con le proprie famiglie, accompagnati da un costante senso di alienazione che prende forma ogni mattina dal proprio letto e che li accompagna per tutto il giorno.
Condannati ad essere eternamente ragazzi subiscono le arroganze, lavorative, di diversi esponenti delle generazioni passate. Alcuni di questi non lesinano ostentazioni del proprio estro imprenditoriale e delle proprie capacità di self made men, salvo poi dimenticarsi come hanno costruito le proprie fortune su una delle più grandi tragedie che questa terra ha vissuto. Una tragedia che ha portato con sé morte e distruzione, ma che al tempo stesso ha permesso ad alcuni (un discreto numero di imprenditori delle precedenti generazioni) di ottenere più degli altri a scapito degli altri.
CONCLUSIONE
Vorrei essere più ottimista e regalare una speranza di sicuro stravolgimento delle attuali condizioni, ma purtroppo non è così che funziona. I giovani di questa terra, e più in generale i giovani, dovranno lottare per ottenere ogni minimo cambiamento positivo, saranno spesso ricacciati ai margini, saranno derisi, chiamati sfigati, choosy e bamboccioni. Dovranno liberarsi della più grande sindrome di Stoccolma che una generazione abbia mai vissuto. Solo così potranno cominciare a gettare le basi per sconfiggere questa forma di emarginazione in cui si trovano a vivere.
Quella appena trascorsa è la seconda Pasqua vissuta in una condizione anomala. Stavolta, però, non vogliamo scrivere di privazioni o mancanze, bensì vorremmo porre l’attenzione su quello che dopo un anno è diventato un fenomeno eccessivamente diffuso: l’emarginazione e la vita vissuta ai margini. Un fenomeno che, con le sue dovute eccezioni, possiamo definire intergenerazionale ed interclassista.
Quello che maggiormente colpisce è l’ambivalenza dello stesso: infatti la visibilità di alcuni fenomeni di marginalità vengono alla luce solo in seguito ad episodi violenti ed irreversibili.
Ma mentre in alcuni casi le conseguenze riescono a far emergere, seppur tardivamente, determinate condizioni di drammaticità, ci troviamo a fare i conti anche con altre forme di disagio che possono essere quello sociale, psicologico ed economico e che interessano, anche e soprattutto i più giovani delle nostre comunità.
In queste due settimane vorremmo, insieme a voi, approfondire questa tematica. Vorremmo parlare di disagio ed emarginazione, cercando di comprendere le biografie dei tanti che vivono in queste condizioni e cercare di trovare delle strade di dibattito e di discussione utili ad accendere un riflettore su un palcoscenico che solitamente resta all’oscuro, senza spettatori.
Come spesso accade quando qualcosa scuote l’opinione pubblica, e qualche volta anche la coscienza collettiva, ci ritroviamo ad essere sommersi dai pareri più differenti, ma soprattutto ci ritroviamo in balia di tantissime opinioni di sedicenti sociologi e/o criminologi pronti a spiattellare in prima serata qualche polverosa teoria messa a nuovo per l’occorrenza.
Niente di più lontano dalle nostre realtà potremmo pensare, se non fosse che in realtà piccole come le nostre la scossa all’opinione pubblica prova a darla spesso la stampa locale (provinciale e cittadina) che da sempre va a caccia di argomenti capaci di smuovere timidi pomeriggi estivi e anche qualche seduta di consiglio comunale.
Ai più scettici questa cosa sembrerà strana, ma in realtà come in ogni articolo presentato in questa rubrica l’esperienza autobiografica viene sempre in aiuto di chi scrive e anche in questo caso non tarda ad arrivare. Infatti basterà tornare indietro di qualche anno e con la precisione al 2006 per riportare alla luce un caso fortemente esplicativo a quanto scritto poc’anzi.
PERCOCA MECCANICA AD ATRIPALDA
È il 2006 e siamo in piena estate ad Atripalda e come le estati precedenti e quelle successive i cambiamenti sono stati pressoché minimi. Ogni anno per almeno tre mesi si cerca di far fronte, in qualche modo, al caldo reso ancor più insopportabile dall’incredibile tasso di umidità; ma clima a parte, la nostra estate, quell’anno, aveva costruito un percorso parallelo a quello della nazionale di calcio, che dopo anni di cocenti delusioni, si stava apprestando a raggiungere il tetto del mondo ed era così riuscita anche a mitigare l’amarezza delle tante bocciature che avevano colpito la nostra cerchia di amici.
Avevamo così conquistato, nelle nostre vite di adolescenti, qualche settimana di serenità lontane dalle nostre preoccupazioni, quando una scossa improvvisa aveva agitato i pomeriggi estivi atripaldesi. Infatti come un fulmine a ciel sereno la redazione provinciale di un’importante testata giornalistica nazionale aveva deciso di pubblicare in prima pagina le foto tratte da alcuni video YouTube, tutt’altro che recenti e tutt’altro che violenti, cercando di suscitare sgomento nell’opinione pubblica portando alla ribalta delle cronache locali una questione giovanile legata al fenomeno della violenza.
Lungo il fiume Sabato, Atripalda 2006.
Quell’improvvisa scossa aveva raffreddato la nostra estate e ci aveva posto al centro del ciclone, ci aveva trasformato in drughi, intenti ad inscenare quotidianamente dei veri e propri combattimenti tra gladiatori, portando con sé panico e distruzione nella villa comunale.
La notizia di una gioventù violenta non ebbe troppa difficoltà a diffondersi per due ragioni fondamentali: la prima di tipo geografico/urbanistico che vedeva nella villa un luogo di margine dove tutto veniva nascosto dalla sua posizione. La seconda di tipo generazionale, invece, vedeva nei giovani un insieme informe di teppisti e consumatori seriali di droghe.
La diffusione capillare era stata tanto veloce quanto superficiale e la narrazione conseguente era stata universalmente accettata da quasi tutti i partiti politici cui la soluzione proposta fu la stessa ed unanime: in risposta a quegli (presunti) atti andava utilizzato il pugno duro.
Confusi e pieni di rabbia c’eravamo ritrovati impotenti davanti all’incredibile mole di violenza simbolica che ci aveva investito. C’eravamo ritrovati impotenti contro una parte di città che non voleva sapere niente di noi, ma era disposta a giudicarci in maniera dura. A nessuno importava che la nostra sensibilità ci obbligava, già allora a raccogliere anche i rifiuti altrui disseminati nella villa, a nessuno importavano le difficoltà legate alla mancata presenza di un luogo aggregativo.
Foto di fine giornata ecologica, tra i tanti anche alcuni dei gladiatori e teppisti, Atripalda 2014.
Avevano già scelto la loro narrazione nei nostri confronti.
EPILOGO
Parco Pubblico, giornata ecologica Forum dei Giovani. Anche qui, tra i partecipanti sono presenti alcuni di quei teppisti. Atripalda 2015.
C’è voluto poco più di una settimana per far scomparire il fenomeno violenza giovanile dalle cronache locali e dai banchi di Palazzo di Città. Atripalda era ritornata al suo solito clima, preoccupata come sempre più dell’umido che delle persone. L’interesse per la questione giovanile era già scomparso e ai giovani era stato riconsegnato il solito posto ai margini della vita comunale; di tutta questa storia, solo quel gruppo di adolescenti non ha mai dimenticato quella terribile ed ingiusta esperienza e proprio grazie a questo ricordo negli anni successivi sono nate le diverse forme di attivismo giovanile che hanno portato la cittadina a vivere alcune forme di rinascita culturale e sociale.
Piazzetta degli Artisti durante il Tricare – festival del perditempo. La quasi totalità dei gladiatori posa a fine festival nella piazza recentemente rigenerata dagli stessi, Atripalda 2015.
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