Il paradosso dell’identità in democrazia

Il paradosso dell’identità in democrazia

La democrazia, per definizione, è una forma di governo esercitata dal popolo attraverso dei rappresentanti delle proprie idee. Di conseguenza, il potere democratico sta nell’affidare le decisioni importanti per una collettività estesa ad un numero ristretto di persone, evitando di concentrare il potere nelle mani di un singolo individuo.

Partendo da questo presupposto, si potrebbe creare un paragone tra quello che succede all’interno della mente di ciascun individuo e ciò che comporta il processo democratico. Più nello specifico, voglio riferirmi al concetto di identità personale ed al suo corrispettivo collettivo: se il processo che andrò a descrivere si riferisce al primo termine assume un significato patologico mentre, sul versante collettivo ne aumenta la capacità rappresentativa.

L’identità di una persona è un concetto che racchiude tutte le forme con cui ciascuno di noi si rappresenta. Inizia a svilupparsi durante la prima infanzia, si consolida con l’ingresso nell’età adulta anche se tende a modificarsi leggermente per tutta la vita. In pratica, l’identità personale è formata da tante piccole immagini (io lavoratore, io figlio, io amico, io fidanzato e così via); queste immagini possono essere una incatenata all’altra e quindi “sopportarsi” tra di loro, oppure contrastare tra di loro e creare un po’ di scompiglio nella mente. Se le varie immagini di sé nel mondo non si escludono l’un l’altra possiamo parlare di un senso di identità personale coeso e coerente, al contrario si parla di diffusione dell’identità. L’identità coesa è alla base del benessere psicologico e presuppone che, per quanto di erse tra loro, le diverse immagini di sé debbano mantenere una certa coerenza (ad esempio, se mi fidanzo con una donna africana non dovrei esprimere idee xenofobe altrimenti è chiaro che c’è qualcosa che non quadra).

Sul piano individuale, quindi, benessere psicologico significa non contraddirsi da soli. Dal punto di vista democratico, invece, avere la possibilità di farsi rappresentare da più persone implica portare nel dibattito da cui emergono leggi e regole di vita comunitaria una molteplicità di idee anche, e soprattutto, se contrastanti tra loro. Per pensare alla democrazia si potrebbe immaginare una serie di rappresentazioni del mondo che ciascun elettore ha e che viene convogliato nelle mani del singolo rappresentante il quale ha la stessa funzione delle immagini individuali di sé nel mondo. Una democrazia che funziona e che quindi gode di benessere istituzionale dovrebbe essere quanto più diffusa possibile! Le idee espresse dai rappresentanti parlamentari dovrebbero coprire tutto lo spettro elettorale, e quindi portare nel dibattito anche immagini tra loro incompatibili. Una democrazia coesa al pari di quanto accade nell’identità personale fa sì che si perda la prerogativa stessa della democrazia, cioè quella di dare la possibilità a tutte le idee di essere rappresentate. La diffusione delle idee in democrazia, invece, è l’espressione più salubre che ci si possa aspettare.

Ps: e poi c’è il fascismo. La storia ci ha insegnato che non è un ideale salubre per la società per cui la democrazia dovrebbe impegnarsi a tenerlo lontano dalle istituzioni tramite continuo dibattito da cui, se ben condotto, l’ideale fascista verrà sempre sconfitto.

Il nostro passato al servizio del futuro

Il nostro passato al servizio del futuro

Parlare o addirittura ripensare al passato è una pratica che ci pone di fronte ad un ampio ventaglio di emozioni e reazioni. Il passato è qualcosa che ritorna spesso nelle nostre vite. I tanti coetanei che vivono e lavorano all’estero o in altre città ne sono un valido esempio.

Questi fanno i conti con il proprio passato ogni qual volta che ritornano in paese. Ritrovano sempre la strada sotto casa un po’ cambiata e al solito bar dove si incontrano le stesse facce, qualcuna presenta sempre qualche ruga in più.

È facile, in questo caso, lasciarsi andare ai ricordi e al passato. Cominciano tutti col ricordare. Basta un semplice pretesto, anche il più piccolo, come quando si osservano dei ragazzini giocare per strada a calcio, per ritornare indietro con gli anni.

Ed ecco che subito ci si volge al passato, anzi ci si rivolge, non senza un certo fondo di giudizio. “Dopotutto le partite erano organizzate sicuramente meglio, anche se gli abiti erano sempre gli stessi, ovvero un paio di scarpe bucate, un paio di pantaloncini e una maglia di calcio falsa comprata in qualche mercato cittadino. Si era sicuramente più genuini. Ci si sentiva comunità, parte di una famiglia allargata. Una condizione che sicuramente i nostri eredi, in abiti all’ultimo grido e con lo smartphone sempre in mano, non potranno comprendere”. Ma sicuramente il discorso prosegue e con esso anche il giudizio. “Non sembrano presi dall’agonismo, quello sano, quello delle fratture e delle ginocchia sbucciate”.

Ma queste affermazioni nascondono altro. Infatti, oltre l’apparente rievocare e giudicare, si cela un’idea di città che si percepisce trasformata e cambiata. Una città diversa nelle sue strutture fisiche e sociali.

Così, il ricordo, lo sguardo al passato diventa uno strumento di lettura ed interpretazione del presente e delle trasformazioni che da esso ne derivano. Ci si risveglia coscienti di aver intorno una città che negli anni è cambiata. Ed è proprio grazie a questa pratica rievocativa che il passato compie l’azione più forte ed importante, ovvero di renderci attenti a ciò che ci circonda quotidianamente.

Non un piano urbanistico comunale (PUC), non una seduta di un consiglio comunale e nemmeno un articolo di giornale. A renderci coscienti di quello che ci circonda sono le memorie, i ricordi che ognuno di noi ha dei luoghi e degli attori ad essi connessi, ma sono poca cosa se non vengono condivisi e resi collettivi.

Un processo comune di memoria invece rappresenta un’importante chiave di lettura delle realtà cittadine ed è anche di questo che avremo bisogno.