L’eredità democratica che sperperiamo ogni giorno

L’eredità democratica che sperperiamo ogni giorno

Io non ho studiato e neanche ho la voglia di infilarmi in un discorso sulla complessità del processo democratico. In fondo fuori ci sono gli ultimi scampoli dell’estate e vorrei trombare. Però, una cosa la vorrei scrivere: siamo stati culati.

Dai, parliamoci chiaro. Se fossimo nati in Afghanistan avremmo avuto soltanto una scelta: morire per mano del potentissimo occidente oppure essere sgozzati da una banda di controfigure di Borat. È questa la democrazia riservata a questo angolo di mondo: la libertà – e neanche tanto – di scegliere da chi essere ammazzati. Noi, invece, abbiamo ereditato le vittorie dei nostri nonni e quindi comodamente seduti nei nostri salotti esclusivi tra flûte di champagne e sardine come antipasti discutiamo su come dialogare con i talebani oppure su come innescare un processo di accoglienza dei profughi (un premio di 1 milione di euro a chi riuscirà a spiegare ai poveri cristi come me che cazzo significa).

Secondo me non ci stiamo rendendo conto che l’eredità finirà prima o poi, così come il culo di cui sopra. Anzi, penso che i conti siano già in rosso: in fondo la maggior parte del popolo è nauseato dal potere e quindi sta venendo meno il principio della democrazia, ovvero milioni di cittadini lontanissimi da chi prende le decisioni che condizioneranno inevitabilmente la nostra vita. Le colpe, poi, sono di entrambe le parti in causa: le nostre, troppo impegnati a combattere contro una vita di merda oppure a discutere in tivvù mentre le piazze (già prima del Covid) sono riservate agli aperitivi; dei politici, che una volta eletti si chiudono nelle loro stanze ed “io sono io mentre voi non siete un cazzo”.

Vi parlo della mia città, Atripalda. Anche qui la democrazia, per come l’abbiamo studiata fin dalle elementari, scricchiola e non poco. Cioè, in diversi processi decisionali fondamentali per la comunità non è stato coinvolto nessun cittadino. So che sembra populismo e forse lo è, ma dico io non è possibile fare un sondaggio e vedere cosa pensa la città su di un determinato fatto?

Non so se sono stato chiaro ma credo che siamo stati culati a nascere in un Paese dove almeno non ti ammazzano ma sono altrettanto consapevole che questa fortuna noi non la stiamo meritando (sicuramente meno rispetto a quegli esseri umani che disperatamente si aggrappano alle ruote di un aereo diretto verso Ovest).

La leggenda metropolitana del Natale al freddo

La leggenda metropolitana del Natale al freddo

E c’era l’asfalto laddove prima vivevano miliardi di granelli di sabbia. A me comunque non dispiace. Non mi inzozzo i piedi e per di più non devo più temere la comparsa di animali mitologici. Insomma, non mi lamento. Certo, la scomparsa del mare non è un dettaglio da trascurare, ma del resto ci siamo abituati già. In fondo, uno dei pochi pregi dell’essere umano è l’adattamento alle cose che roviniamo a causa dell’ossessiva ricerca del business. Basti pensare alla musica che ascoltiamo oppure alle retribuzioni dei lavori moderni: ci adattiamo, ci abituiamo. Io comunque non sapevo nuotare, però non era malaccio vedere i bambini allegri giocare a palla mentre gli adulti si facevano i fatti loro. Almeno, però, ora ci sono cellulari giganti che rendono superflui gli ombrelloni e comunque distraggono i ragazzini.

Se devo essere onesto, di queste nuove stagioni non riesco a sopportare soltanto il Natale con 40 gradi. Cioè più di vent’anni fa ricordo che indossavo maglioncini con le renne disegnate ed era bello assai mangiare tanto senza sudare e stare a casa sorseggiando una cioccolata calda. Ed invece ora con questo caldo assurdo abbiamo dovuto prima di tutto rivoluzionare il menù del cenone (nonna, per fortuna ora non sei più qui). I maglioncini sono stati bruciati e hanno lasciato il posto a magliettine sottilissime. E non si festeggia più a casa bensì in una specie di locali superclimatizzati che prima erano bunker antiatomico inutilizzati perché le guerre sono passate di moda visto che le mezze stagioni non esistono più.

Ora che ci penso bene, mi rattrista non vedere più tanti animali che prima mi facevano sorridere. E mi immalinconisce anche aver dovuto rinunciare a scrivere una poesia nei Paesi nordici come i Kings of Convenience. Ma va bene così: alla fine piove soltanto due o tre volte l’anno e se sopravvivi è sempre estate.

La “minoranza” di chi mangia le patatine fritte senza sale

La “minoranza” di chi mangia le patatine fritte senza sale

Tutti noi facciamo parte di una minoranza. Anche quelli che sbraitano slogan imbecilli in salotti televisivi più vecchi di mia nonna che almeno sa cucire maledetti maglioni che graffiano la pelle. Il problema è che non lo accettiamo, spesso addirittura lo ignoriamo.

Parlo di me, ad esempio. L’altro ieri, mentre pranzavo, mi sono accorto che sono tra i pochi a preferire le patate fritte senza il sale. E non sottovalutate l’impatto che ha avuto questa mia preferenza nella società odierna. Non sono stati pochi gli sfottò ricevuti da parte di chi, anche inconsapevolmente, affermava la sua maggiore intelligenza rispetto alla mia: «Le patatine vanno salate, non esiste alternativa». Ed invece no. Esiste sempre l’alternativa nella vita, anzi la diversità. Che non è un male e nemmeno una brutta parola, anche se in questi giorni tutte le parole sembrano sbagliate quando alziamo gli occhi dal nostro telefono e ci accorgiamo che c’è chi ama diversamente da noi, chi ascolta Gigi D’Alessio mentre io nelle cuffie Gazzelle e Calcutta, chi per andare a correre preferisce indossare un jeans e ‘sti cazzi se per noi è sbagliato.

Però, salvando la libertà di pensiero, c’è anche chi deve romperti per forza i coglioni. Come ad esempio quel mio zio che insiste che devo mangiare la pasta col sugo “perché la mangiano tutti” e non capisce che un giorno di questi gli farò fare la stessa fine del bambino in “Matilde sei mitica”, quello che scoppia di torta al cioccolato. Io credo che fin quando non limito la libertà altrui, il prossimo può fare ciò che vuole. Tutto qua. Sarò stato banale, ma è la risposta che avrei utilizzato anche per confutare la tesi della nota coppia formata da tali Pio e Amedeo. Utilizzare il termine “frocio” è sempre sbagliato, al di là del contesto: è una parola che limita la libertà del nostro prossimo. È non basta riderne sopra, anche se purtroppo scaturisce più risate dei loro film.

Io non riuscivo a ridere quando mi insultavano perché troppo grasso o troppo magro oppure perché scrivevo le poesie mentre bisogna esclusivamente scopare. Io che ho fatto parte di tante minoranze – tifo Benevento ad Avellino – penso che nessuno ha il diritto di romperti il cazzo se per te il cielo non è la casa di Dio ma il mare post sbronza.

Stavolta voglio combattere la zona rossa

Stavolta voglio combattere la zona rossa

«Ti prego, non allontanarti da me»
«Come sei romantico, sei l’uomo da sposare»
«Non farti strane idee. Io odio muovermi dal mio comune. Quindi se dovessi andare via, io non ti seguirò»
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Fu questo il dialogo che determinò la fine della nostra storia d’amore. Lo affermo da subito: io sono stato un precursore della zona rossa.

Lorena mi definì “pieno di pregiudizi”, io, invece, preferisco “ottimo professionista nell’evitare personalità che al sottoscritto stanno sui coglioni”. Però sì, Lorena potrebbe aver anche ragione.

Mentre passeggio per queste strade che conosco a memoria, e questa cosa per me è orgasmica, vi racconto delle innumerevoli serate a cui ho rinunciato per non andare in quel locale fuori città frequentato, così si dice (perché quelli come me mica son certi di quello che affermano) dai cosiddetti radical chic che odiano Verdone, il lessico basilare e la Peroni (tranne in quei periodi in cui fa comunista. Sì, sono patetico anche io). Ed è inutile che tutti miei amici (?) insistono nell’invitarmi: per me quel locale è “zona rossa”. Che poi è un dettaglio se la felicità la fanno le persone, mica i luoghi. Non me ne frega, io lì non ci andrei neanche con me stesso.

«Stasera a noi si uniranno anche altri ragazzi, amici di amici …»

Quando ascolto questa affermazione potrei morire sul colpo. Queste parole, nell’ordine esatto in cui le ho riportate, potrebbero provocarmi un triplo infarto con salto carpiato. Oltre alla zona rossa, sono stato anche un precursore degli assembramenti. Se poi con gente che non conosco dovessimo andare anche altrove dalla mia città di residenza, beh, potrei preferire stringere la mano al Mostro di Firenze (non opporrei neanche resistenza). Eppure ci ho provato a combattere questa parte di me. Con poca insistenza, d’accordo, però ci ho provato.

Una volta una ragazza mi disse che la mia mente era piena di zone rosse (forse non utilizzò questa espressione però il senso era quello). Che non provavo mai nulla di nuovo, che evitavo diverse esperienze perché prevenuto e che soprattutto non incontravo mai gente nuova. Lì per lì non ci diedi peso, pensando soltanto a quanto stessi bene con gli amici (?) di sempre e nei vicoli di sempre.

Quando tornai a casa, però, ammisi l’amara verità: è che sono sempre quel bambino insicuro e spaventato. Come quella volta che mia madre lasciò la mia mano e da solo dovetti trovare la forza per percorrere quel lungo corridoio che avrebbe inaugurato la mia carriera scolastica. Ricordo il sudore che scivolava sulla mia schiena e l’ansia di non essere accettato, di risultare troppo strambo per quella che poi avrei conosciuto come “società”.

Forse sono ubriaco, ma presidente Conte io rifiuto l’offerta e vado avanti: vorrei provare ad evadere dalla mia zona rossa perché credo che più in là del mio naso ci sia qualcosa da apprezzare.

Mi mancano gli occhi dei camerieri

Mi mancano gli occhi dei camerieri

Una pandemia mondiale e tu che, tra lenzuola sempre troppo pesanti per me, ridevi. Pensavi che avrei dovuto smetterla con i b-movie americani, di quelli che danno la domenica pomeriggio dove gli abitanti di una città con due case ed un fast-food si mettono ai ripari da alieni con la testa gigantesca.

Ed invece guardaci ora, rigorosamente da lontano. Probabilmente è la prima volta che non ci vediamo e non è colpa di qualche mia cazzata. In realtà, oltre a tutte le romanticherie, mi manca la tua pelle. E credo che neanche un bonus da 1.000 miliardi, Salvini che te possino, possa colmare questa mancanza (oppure giusta rinuncia per evitare di occupare un posto in ospedale da coglioni). Forse in questi mesi ho capito che ad un certo punto vale soltanto il tempo vissuto insieme a “te”.

Poi se ci penso un po’, mi manca cercare l’ispirazione ovunque. Questo maledetto virus ha rapito l’ovunque e chissà dove l’ha nascosto, probabilmente nelle rinunce che non riusciamo ad accettare perché troppo egoisti. Ed io che credevo che tutto fosse lì, bastava un passo e potevamo essere ovunque. Ma lo libereremo, prima o poi, e forse non saremo gli eroi biondi della Disney, ma son convinto che sporchi di birra e briciole di patatine riusciremo ad evolverci, a rinunciare a spostarci per spostarci più forte domani (sì, è una mezza citazione di Conte, anche perché io sono una bimba di Conte).

Gli occhi dei camerieri. Sì, mi mancano. Io che inizio a sudare freddo perché non ho deciso ancora con cosa strafogarmi e mi sento colpevole di procurare loro un ulteriore motivo per spararci in fronte. Si trattava di una “cosa semplice”, ma sì, “ci mangiamo una cosa veloce” ed invece all’improvviso abbiamo svaligiato i supermercati di lievito di birra e sentirci fighi per aver impastato una pizza che poi neanche la forma (quindi pensate che supereroi i camerieri e gli chef che insultiamo per un’attesa in più oppure per un pizzico di sale in meno).

E, infine, mi mancano le mie mani sporche d’inchiostro e polvere. Mettermele in bocca e pensare perché il cattivo in un film impiega sempre troppo tempo per uccidere il buono. E poi per fantasticare su come sarebbe bello il mondo se tutto finisse ora, scendere in piazza a bruciare l’Amuchina e riacquisire la fiducia nel prossimo e non vederlo più come un potenziale attentato alla nostra incolumità. Però ci tocca resistere, e non so se queste mancanze ci hanno reso migliori. Sento che siamo ancora troppo egoisti, me compreso, anche se ieri, mentre mi recavo a lavoro, ho visto un bambino indossare la mascherina e aiutare, a voce, il nonno ad indossarla meglio: forse laddove noi abbiamo fallito, ci penseranno i piccoli.