Ti ricordi quando ti alzasti sulle punte dei piedi e con le labbra spaccate ci fu un bacio tra di noi bello quanto la città dove hanno girato “Una mamma per amica”? Quel giorno io l’ho cerchiato in rosso sulla mappa che ora mi è capitata tra le mani. Nonostante gli occhiali sporchi di ditate e patate fritte, riesco ancora a vedere i tuoi reggiseni non sempre sexy lì sulla mia sedia, lanciati in aria perché a volte è più importante toccarsi che capirsi. Anche questi momenti sono cerchiati in rosso e mi hanno aiutato a capire che è necessario seguire l’amore o roba simile affinché ogni strada non sia mai quella sbagliata. Con te accanto intenta a cambiare stazione radio, persino quel vicolo cieco dove strusciai tutta l’auto mi sembrò una buona meta.
Sotto un faldone di romanzi non sempre coraggiosi, ho ritrovato anche un’altra cartina che da tempo avevo abbandonato: è quella dove annoto tutte le persone in cui ho seminato un po’ di me (e non siate sempre maliziosi). Negli ultimi anni avevo accantonato questo pezzo di cuore perché stanco di persone e miscredente nell’amicizia, perché in fondo anch’io sono stronzo, perché è indispensabile affrontare tutto il dolore da solo prima di chiedere aiuto a chi vuoi bene. E mi sono emozionato nel rivedere questa mappa ingiallita dalla felicità e dalla tristezza e dai caffè e dalle birre e dalle confidenze e dalle incomprensioni e dalle risate all’alba e dal mare insieme e dalle strette prima di precipitare nel vuoto: non rinunciateci mai a tutte queste meraviglie, a meno che non sia uscita una serie tv figa e allora ci vediamo domani. E perdonatemi la sintassi poco corretta, ma ho scritto e pensato tutto d’un fiato come si fa con le cose importanti.
Prima di spegnere la luce, mi è caduto l’occhio sull’ultima mappa. Per me è la più importante e per questo motivo l’ho nascosta dietro al dvd del film su Lanterna verde: lì neanche il ladro più disperato ci metterà mano. Si tratta della cartina in cui ho disegnato malissimo tutti i sogni che vorrei realizzare. Lo so che non li realizzerò tutti – probabilmente mi va di culo se riuscirò a dire almeno un “sì, questo sogno l’ho vissuto ed è stato bellissimo, peccato soltanto per il caffè troppo schifoso” – però questa mappa è fondamentale perché anche guardandola una solta volta al mese mi ricorderà sempre chi sono.
Vorrei che ti sedessi un minuto accanto a me e che mi sorridessi a squarciagola perché solo così riesco a mettere a tacere tutte le mie piccole paure quotidiane.
Intanto, però, ti confido che ho paura – parola della settimana se non si è ancora capito – di non essere all’altezza degli altri e se a volte in mezzo alle persone mi vedi in silenzio non è poesia né riflessioni ma soltanto il terrore di non piacere ad un cazzo di nessuno. E poi ho paura dell’acqua alta ed è un timore che supera di gran lunga la voglia che ho di nuotare lontano fino a distanziare tutte le rotture di coglioni della spiaggia. Ed invece ogni anno mi ritrovo a combattere quei granelli di merda che si appiccicano alla pelle e a nascondermi da chi ha un fisico più atletico del mio. A riguardo, ho paura di non cambiare mai, di essere sempre lo stesso. A volte nel letto, la sera, fisso il soffitto e vorrei piangere. Non mi sono mai iscritto alla piscina, non ho mai frequentato la palestra con dedizione: lo vedi che non mi muovo in nessuna direzione?
Inoltre ho paura di morire. Ne ho parlato anche con la psicologa che mi ha dato delle spiegazioni che non ho capito perché intanto avevo il naso che colava e già mi vedevo intubato a qualcosa mentre un medico, scuotendo la testa, urlava di averne perso un altro. Ora che ci rifletto bene, però, mi sembra che mi abbia detto, la psicologa, che questa paura dovrebbe spingermi a fare qualcosa di costruttivo, magari provare a realizzare un mio sogno: solo chi ha coraggio deve temere la morte; per uno come me, fermo e pigro, la morte, infatti, sarebbe soltanto un premio.
Ma a questo punto ti stoppo e ti chiedo: e metti caso che si realizzasse qualche mia aspirazione? Non so come reagirei, quasi sicuramente avrei paura che quel frammento di felicità possa bruciarsi troppo in fretta. Quindi meglio stare fermi, immobili, in balìa degli eventi.
Infine, oltre ad avere paura dei nani e dei maranza, ho paura di non riuscire a riconoscere quando sarà il momento di mettersi finalmente in gioco. Qualcuno, forse un amico, mi disse che ogni attimo è giusto per lasciarsi tutto alle spalle e provare ad essere una persona probabilmente migliore, sicuramente diversa. Io tremo all’idea di non farcela però dentro di me so bene che la paura è sinonimo di“incominciamo a camminare e fa nulla se dovessimo bere un po’ di acqua salata ma sai che bello i cavalloni che ti azzannano le gambe e le risate degli amici ad accarezzare il mare”. Quindi ho un sacco di paure però è giunta l’ora di non allontanarle, ma di abbracciarle e provare a convivere prima che sia troppo vecchio per imparare a nuotare.
«Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena
Potete stare a galla
E non è colpa mia se esistono carnefici
Se esiste l’imbecillità
Se le panchine sono piene di gente che sta male»
Sono in pullman e sono appena partito dalla stazione di Piazza Garibaldi, di ritorno da Napoli, quando il mio vecchio mp3, prima ancora degli spotify e dei deezer di turno, decide di farmi una sorpresa con la sua riproduzione casuale. Lascia risuonare, tra le cuffie consumate dai troppi viaggi, le prime note di Up patriots to arms di Franco Battiato.
Ho la testa poggiata sul vetro del pullman, come non mi capitava da anni, da quando ritornavo dall’università, dopo aver passato un’intera giornata a Napoli. Il vetro del mezzo e i miei occhiali sono in estasi, accolgono e riflettono le luci delle macchine e dei motorini che sfrecciano a destra e a sinistra.
La città, come sempre a quell’ora, sembra fatta di auto, di ingorghi stradali, di motorini che azzardano manovre, di venditori ambulanti che raccolgono nelle solite buste color azzurro la mercanzia invenduta, di impiegati ostinati a non staccare il proprio orecchio dal telefono.
Sono bastati due metri di altezza per farci percepire quel mondo, improvviso e brulicante, come un qualcosa di distante, di non nostro. Protetti dalla nostra distanza dal suolo ci sentiamo al sicuro, ma soprattutto non coinvolti. Non era necessario abitare un monte o il regno dei cieli per provare quella sensazione, sarebbero bastati due metri, per vivere il distacco da tutto quello che accade intorno.
Il mio momento di distratta solitudine si conclude altrettanto improvvisamente. Mentre Battiato inizia a cantare il ritornello, comincio a notare che quelle figure così sfuggenti e così distanti sono delle persone. Persone con una loro vita, con i loro momenti felici e con le loro preoccupazioni.
Quest’ultima frase nasconde in sé una grande bugia: non mi capita quasi mai di immaginare gli altri nei momenti felici. Sia ben chiaro, non è certo per un istito sadico o per altro, ma è per merito di una consapevolezza che ognuno di noi, nei nostri momenti pubblici e sociali, tende a mostrare quasi sempre una sola parte di sé, ovvero quella che ci spinge a dire che va tutto bene e che non ci sono problemi. Tendiamo a nascondere le nostre vulnerabilità come se fossero dei gravi e irreparabili peccati originali.
Così, come dall’alto di quel pullman diventa difficile distinguere ogni singola persona per la propria esistenza, così diventa difficile mostrarsi vulnerabili. Mostrarsi per quello che si è in quel momento diventa un grave problema che ci potrebbe rendere deboli davanti agli occhi di un possibile nemico e quindi continuiamo a sorridere, facendo finta di niente.
Eppure guardandoci intorno, con maggiore attenzione, potremmo finalmente comprendere che molti vivono momenti di difficoltà. Non è necessario andare lontano, potrebbe essere sufficiente andare oltre il nostro naso per riscoprire che la vulnerabilità fa parte del nostro quotidiano. Vulnerabili sono i nostri cari, nelle loro giornate passate lontano da noi, ma lo sono anche i nostri amici nel loro silenzio resistente ed infine lo siamo noi che ci troviamo di fronte a tutto ciò e ci sentiamo soli ed impotenti.
Così mentre Battiato ripete un’ultima volta il ritornello, capisco che basterebbe non soffermarsi ad una prima risposta, ad una prima vista per comprendere il reale stato delle cose e che forse è da queste pratiche che potrebbe partire una risposta reale, capace di coinvolgere e aiutare tanti di noi a reagire.
Il dubbio. Mi ha insegnato con le sue parole tutte incasellate alla perfezione il culto del dubbio. E cioè che anche le nostre certezze più forti possono e devono essere messe in discussione se qualcun’altro o le esperienze della vita ci confidano che forse non è così, che forse le nuvole non sono bianche ma semplicemente assumono il colore del cielo che non è affatto blu. Prima di conoscerlo, sottovalutavo l’importanza del dubbio. Anzi credevo che avere sempre dubbi provocasse l’indecisione cronica. Ed invece ero uno stupido. Il dubbio ti spinge a strabuzzare gli occhi per sentire cosa si dice al di là del nostro naso, a non ascoltare soltanto noi stessi ma anche gli altri, per scoprire, magari, che forse ci sbavagliamo, che il caffè anche freddo può essere buono.
E poi, prima che venga giù il diluvio – pessima idea quella di scrivere fuori al balcone – mi ha insegnato a stravolgere i pieni fatti il giorno precedente. Il protagonista di questo abbecedario, infatti, è un ingegnere che da un giorno all’altro ha abbandonato tutto per inseguire il sogno di raccontare la filosofia e altri fatti meravigliosi utilizzando un linguaggio popolare, distante secoli luce dai salotti buoni della cultura. Io non so se avrò mai la forza e l’ispirazione necessaria per chiudere in una valigia “le sicurezze” e mettermi alla rincorsa dei sogni. Però, anche se lui non lo sa, mi ha trasmesso la forza di incominciare a pensarci su e difatti adesso – mentre vorrei semplicemente riposare in mutande – mi ritrovo a scrivere di getto questa dedica sconclusionata.
Oggi e ieri mi manca. Non siamo mai stati amici – avrebbe potuto darmi almeno due o tre consigli buoni anche su quella ragazza che poi mi ha appeso – però con la sua umanità mi ha accarezzato l’anima anche quando sentivo un groppo in gola. E, infine, per uno come me sempre avverso all’élite della cultura ha rappresentato una speranza. Grazie di cuore per tutto.
C’è soprattutto una barriera che mi provoca lunghissimi attimi di panico ed innumerevoli difficoltà: fare cultura in un piccolo centro, tipo quello in cui vivo consumando serate bevendo birre rigorosamente di tipo industriale.
Senza effettuare troppi voli pirotecnici, mi piacerebbe piazzare delle tele bianche tra i vicoli e scoprire se c’è qualcuno che propone un nuovo punto di vista sul cielo blu oppure noleggiare tre videocamere ed affidarle ai più piccoli e premiare chi riesce a fotografare con l’anima la propria città.
Ed invece siamo ancorati allo stesso punto di decenni fa. Fare cultura in piccole città spesso equivale ad organizzare un convegno che nel migliore dei casi sarà frequentato dai soliti “dinosauri” che magari guardano una faccia di culo come la mia con sdegno e superiorità. Scusate se vi appaio sboccato e incazzato in questo pezzo, però dopo anni di immobilismo e barriere innalzate ad ogni nuova idea, mi sono rotto il cazzo.
Io, invece, vorrei che soprattutto nei paesi si promuovesse il coraggio della cultura. Quella libera da “conoscenze” e lontana dai salotti, quella che puzza di tabacco e di parole magari scritte su di un muro traboccante lontano dalla piazza, quella che potrebbe far capire ai più piccoli che sì, è possibile che qualcuno sogni una principessa non in cerca del principe azzurro e lo esprima attraverso fumetti realizzati su pavimentazioni pubbliche luride.
Sono consapevole che per abbattere questa barriera è necessario molto di più del recovery plan e di un candidato che parli di giovani giusto per accalappiare qualche applauso di uno che casomai pochi minuti prima dormiva in platea. Però sono altrettanto consapevole che per scorgere un po’ di luce sia necessario distruggere questo muro di troppe sagre sconclusionate e dibattiti social. Che poi, vedete bene, far entrare la luce è fondamentale per capire dove pulire meglio e se c’è qualche crepa di troppo. Altrimenti si corre il rischio che da un giorno all’altro crolli tutto. E fare cultura in modo coraggioso è tipo spalancare miliardi di finestre in contemporanea.
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