Conflitto continuo

Conflitto continuo

“Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontare, il valore nostro”
Umberto Eco – Costruire il nemico



Penso di non aver mai cancellato e riscritto un articolo come questa volta, mai realmente convinto di ciò che stessi provando ad esprimere. Volevo inizialmente parlare di guerre girate in una serie o in un film, scritte in una graphic novel o addirittura giocate su schermo con un controller in mano e di trovare un collegamento a ciò che sta avvenendo in Ucraina.
Poi mi son ricordato di un testo di Umberto Eco in cui spiegava di una sua esperienza in America in cui gli chiedevano chi fossero i nemici degli italiani, lasciandolo dubbioso sulla risposta da dare e infine scritta sul saggio “Costruire il nemico e altri scritti occasionali”.

Mentre Eco nel suo saggio spiega come un popolo si identifica solo attraverso un nemico, oggi ragiono su un discorso più generico: l’essere umano è il nemico di se stesso.
Per renderci conto di questo non basta vedere lo scoppio di una guerra, basta leggere i commenti ad una notizia, guardarsi intorno per vedere come l’individuo si comporta verso il prossimo o semplicemente collegarsi ad un social per capire quanto i conflitti siano la base dell’esistenza umana. Esagero? Forse. Però è innegabile che nel prossimo ci sarà quasi sempre qualcosa che guarderemo dall’alto in basso, cercando di dimostrare quanto noi siamo migliori di loro; in questo processo tendiamo, chi volontariamente e chi involontariamente, a circondarci di persone che hanno una visione del mondo simile a noi e nel momento in cui c’è un piccolo cambiamento in questo modo di vedere la realtà non facciamo altro che allontanare il prossimo.

Due anni fa il mondo entrava in stato di emergenza per la pandemia e poco tempo dopo si profilarono due schieramenti, da una parte chi diceva che il covid non esisteva e dall’altra chi invece ci credeva; ora non ci sono state vittime per queste discussioni, se non quelle che hanno contratto il virus purtroppo, però era interessante vedere come si trovavano e utilizzavano notizie palesemente false o dati sballati pur di cercare di aver ragione. Ma la cosa che mi ha sorpreso di più è come l’argomento si sia evoluto, prima l’esistenza del covid, poi all’utilizzo o meno delle mascherine per arrivare allo stadio finale: il vaccino e i no vax. Con lo scoppio della guerra in Ucraina sembra che le discussioni siano andate a diminuire ma non l’esistenza costante di due gruppi (e sottogruppi) in continuo contrasto ideologico.

Come si può evitare un conflitto ideologico? Credo che la soluzione migliore sia l’ascolto e il confronto invece che uno scontro continuo con chi ha una visione diversa dalla nostra.

Tell you you’re the greatest
But once you turn they hate us
Oh, the misery
Everybody wants to be my enemy
Imagine Dragons – Enemy

L’emarginazione che non si vede

L’emarginazione che non si vede

Quella appena trascorsa è la seconda Pasqua vissuta in una condizione anomala. Stavolta, però, non vogliamo scrivere di privazioni o mancanze, bensì vorremmo porre l’attenzione su quello che dopo un anno è diventato un fenomeno eccessivamente diffuso: l’emarginazione e la vita vissuta ai margini. Un fenomeno che, con le sue dovute eccezioni, possiamo definire intergenerazionale ed interclassista.

Quello che maggiormente colpisce è l’ambivalenza dello stesso: infatti la visibilità di alcuni fenomeni di marginalità vengono alla luce solo in seguito ad episodi violenti ed irreversibili.

Ma mentre in alcuni casi le conseguenze riescono a far emergere, seppur tardivamente, determinate condizioni di drammaticità, ci troviamo a fare i conti anche con altre forme di disagio che possono essere quello sociale, psicologico ed economico e che interessano, anche e soprattutto i più giovani delle nostre comunità.

In queste due settimane vorremmo, insieme a voi, approfondire questa tematica. Vorremmo parlare di disagio ed emarginazione, cercando di comprendere le biografie dei tanti che vivono in queste condizioni e cercare di trovare delle strade di dibattito e di discussione utili ad accendere un riflettore su un palcoscenico che solitamente resta all’oscuro, senza spettatori.

Andrea Famiglietti

Antonio Lepore

 

 

 

 

 

La ‘rivoluzione’ del tempo di oggi

La ‘rivoluzione’ del tempo di oggi

Che cosa è per noi il tempo? Come lo percepiamo? Ma soprattutto: come lo organizziamo? Nelle prossime due settimane proveremo a rispondere a queste domande, ben consapevoli che sarà un lavoro complesso visto che il tema è stato già dibattuto – con più o meno successo – dai più grandi intellettuali di ogni epoca. Noi, però, vogliamo provarci, anche perché la pandemia che stiamo ancora vivendo ci ha stravolto ogni concezione temporale e quindi avvertiamo l’esigenza di leggere e di raccontare come la nostra generazione sta reagendo a questo ‘rivoluzione del tempo’.

Basti pensare che ci accorgiamo di avere minuti a disposizione che prima non avevamo. Oppure, e quando accade di realizzarlo fa malissimo, ci rendiamo conto di aver destinato troppo poco tempo alle persone a cui vogliamo bene, magari rinviando l’incontro perché troppo stanchi (che poi, stanchi de che?). E perché non vi capita di pensare che rincasando un po’ prima la sera, anche a costo di bere una birra in meno, potremmo donarci un’ora per fare quello che più ci garba lontano dai rumori del giorno e dagli occhi di tutti?

Non sappiamo se riusciremo ad offrirvi spunti interessanti, se vi saremo di conforto e di sprono, però crediamo che il tempo stia cambiando ed inevitabilmente stiamo cambiando anche noi. Buon viaggio, sperando che abbiate qualche minuto da dedicarci!

Andrea Famiglietti

Antonio Lepore

Abbecedario di provincia: lettera B

Abbecedario di provincia: lettera B

Un giorno lessi un proverbio giapponese che diceva “Se posti dieci storie instagram con frasi poetiche ti trasformerai in un monologo di Benigni”. Che poi quel finale con la bandiera americana per vincere l’Oscar, vabbè, non aumentiamo la schiera dei complottisti. In pratica sto tergiversando perché in questa settimana non ho grandi sentimenti da raccontare né emozioni in particolare. Ho soltanto un pensiero più o meno fisso, ovvero la B di Berlinguer e, citando Pino Roveredo, “mio padre votava Berlinguer perché diceva fosse una brava persona” (ricordo a memoria soltanto Gio Evan), quindi anche la B di brava persona.

Ma non voglio parlare di Berlinguer, che al di là di ogni ideologia era davvero una brava persona, ma un po’ di quello che è accaduto alla nostra povera patria negli ultimi tempi, con Renzi che ha deciso di bucare il pallone e quindi nonostante il sole niente partita. Vorrei raccontare – sul piano “sentimentale”, le analisi politiche le lascio a tutti voi che capite sempre prima e meglio degli altri – la “brava persona” che ho visto nel premier uscente Conte. Politicamente mi sono schierato pochissime volte, ho le mie idee ma credo che la fede politica, così come quella religiosa, vada messa in pratica nella vita di tutti i giorni, non urlata sui social o sulle felpe.

Stavolta, però, voglio fare un’eccezione, perché dopo tanti anni, diciamo da Bersani, sia il politico che il cantante, mi sono sentito rappresentato da qualcuno lì a Roma, anche quando ha commesso degli errori, tipo allearsi con Salvini, ma anche mia madre tollera certi difetti di papà, per amore e perché è una “brava persona”. Ecco, ho sempre pensato che le brave persone hanno il superpotere di ingoiare i “rospi sopportabili” perché sanno che conta altro, che può essere la serenità della famiglia oppure dare un cazzo di governo a questo Paese già in ginocchio. Poi, quando si tradisce oppure da ubriaco si balla sulle tette di cubiste in spiaggia, pure le brave persone si spazientiscono e tutti a fanculo.

Però ricordo, e già rimpiango un po’, le sue lacrime quando aumentarono a dismisura le vittime di questo maledetto virus, il suo orgoglio di rappresentare il Paese che ha inventato almeno metà mondo (mentre scrivo questa frase mi viene voglia di affacciarmi al balcone con il petto in fuori e le mani sui fianchi), e l’accettazione della sconfitta, quando ha capito che non c’era più nulla da tenere, tipo mia madre quando lascia sclerare in solitudine papà andandosene in cucina. 

Abbiamo un disperato bisogno di brave persone, di chi pensa ai cazzi suoi, ma dopo aver pensato a quelli degli altri, a chi chiude gli occhi, a volte, soltanto per riaprirli più forte domani (ho anche semi-citato una delle sue frasi più riuscite, forse un po’ commerciale, ma di effetto).

In fondo ti perdono tutto, tranne Casalino.

La città in movimento – breve riflessione sulle trasformazioni urbane al tempo della pandemia

La città in movimento – breve riflessione sulle trasformazioni urbane al tempo della pandemia

Non credo che sia necessario rispolverare vecchie e, come nel mio caso, farraginose conoscenze di filosofia scolastica per ribadire un concetto tanto familiare come quello che in un anno tutti siamo interessati da trasformazioni e cambiamenti. Malgrado ciò ritengo necessario evidenziarlo, soprattutto alla luce del momento storico e sociale in cui le nostre vite si trovano a recitare.

Nel corso degli ultimi mesi ho sentito spesso dire “abbiamo non vissuto” l’anno appena trascorso e che in fondo unica eccezione per il virus “nulla è cambiato”. Niente di più falso, dovrei esclamare, ma il mio animo democratico mi trattiene dal farlo in una forma così drastica e violenta. Vorrei provare a spiegare brevemente in che cosa siamo cambiati e lo farò prendendo come campo di indagine la città.

Nel nostro immaginario collettivo quando sentiamo parlare di città (grande o piccola che sia, in questo caso non farà molta differenza) la immaginiamo in movimento, o meglio immaginiamo la stessa durante una tipica giornata feriale con i suoi abitanti che a piedi o in macchina si spostano da un punto A a un punto B. In questi mesi, la prima trasformazione che ci ha interessato è stata quella legata al nostro modo di intendere la città. Nei mesi di lockdown questa costruzione simbolica è stata messa duramente alla prova, innanzitutto perché abbiamo dovuto ricostruire la rappresentazione della città, priva di movimento, anche di giorno e non solo nelle ore più profonde della notte.

Così, proprio la città ha cominciato a trasformarsi a non seguire più i dettami del tempo e della produzione e allo stesso modo abbiamo cominciato a mutare le nostre abitudini, i nostri modi di intendere e vivere gli spazi e le relazioni sociali.

In seguito ai dpcm, alle regolamentazioni contro il contagio e in base anche alle nostre possibilità economiche e sociali (la nostra unica scelta per mesi è stata quella di preferire il supermercato A che aveva il prodotto B in offerta a scapito del supermercato C) abbiamo ridefinito la nostra vita. Anche quando le nostre città sembravano condannate all’immobilismo le trasformazioni erano in atto e lavoravano anche su noi stessi. In un anno abbiamo più volte dovuto ridefinire gli spazi, le funzioni e i significati ad essi connessi.  Un esempio quanto mai interessante lo si può ricercare in risposta alla limitazione di spostamenti entro e non oltre i 200 metri dall’indirizzo di residenza. Anche in una realtà piccola e di provincia come quella atripaldese una cosa del genere ha portato con sé nefaste conseguenze; infatti se per un abitante del centro storico 200 metri dalla propria abitazione offrivano una serie infinita di possibilità, per un abitante di un quartiere periferico come Alvanite 200 metri rappresentano un ulteriore condanna all’isolamento sociale (ricordiamo in questa sede che il distanziamento è fisico e non sociale).

In maniera molto interessante Zerocalcare racconta un po’ le trasformazioni che ci hanno interessato.

Ecco la maggiore trasformazione di questo periodo, nel corso dell’anno abbiamo dovuto ridefinire gli spazi e la nostra vita sociale e il più delle volte lo abbiamo fatto inconsapevolmente, concentrati com’eravamo sul locale che potevamo frequentare o sull’amico che non potevamo visitare. A distanza di un anno il rischio è che permanga in noi la concezione simbolica dell’adattamento alla limitazione. Ma se da un lato il timore di una certa rassegnazione all’adattamento a vivere sempre più limitatamente gli spazi della nostra città è forte, dall’altro lato abbiamo assistito alla nascita di una diversa consapevolezza delle disuguaglianze presenti in città e che a causa di questo periodo si sono acuite.

Proprio su quest’ultima speriamo di fare affidamento perché le potenziali trasformazioni delle disuguaglianze dell’ambiente possono essere affrontate solo in seguito ad una nuova consapevolezza. Una consapevolezza che nasce quasi sempre da un disagio che si vive e che può diventare una spinta per il cambiamento solo attraverso una fase di maturazione collettiva e simbolica.

Abbandonarci, come avvenuto in questi mesi, alla semplice e rabbiosa esternazione di un malessere derivato dalle limitazioni normative e amministrative porterà ad un rapido e continuo aumento delle stratificazioni. Invece, in un momento come questo, ci è richiesta una riflessione più ampia sul modo di intendere e di vivere la città che deve partire dalle libere associazioni di cittadini, dalle lavoratrici e dai lavoratori, ma soprattutto da i più giovani che per una questione generazionale sono coloro che riescono maggiormente a comprendere le necessità delle nostre città. Solo attraverso una riflessione collettiva potremmo trasformare in azione i cambiamenti che ci hanno interessati e non vanificare quanto vissuto in quest’ultimo anno.