
Grazie, ragazzi
È difficile rendersene conto, anche a mente fredda, passata la sbornia.
L’Italia è campione d’Europa. Nella notte di Wembley, la comitiva azzurra si infiltra tra la spocchia inglese, sabota i fili del gioco dei sudditi di Sua Maestà, supera in scioltezza le provocazioni stucchevoli e rovina la festa ai tre Leoni.
I calci di rigore si confermano benevoli, esorcizzando i fantasmi di noi tanti cresciuti negli anni ’90. L’Italia è in cima al continente, suona inverosimile. Suona inverosimile perché non vi è popolo più avaro quando si tratta di riconoscere i propri meriti, il proprio contributo inestimabile fornito all’umanità tutta, non vi è popolo più parco e timido quando si tratta di sciorinare l’amor patrio.
Eppure dopo la disfatta di qualche anno fa NESSUNO, diciamolo senza ipocrisie od irenismi di contorno, ci avrebbe mai creduto. Ricordo la profonda vergogna contro la Svezia, le lacrime dei senatori, l’onta di non partire per una campagna di Russia che, molto probabilmente, non avrebbe comunque mai dato soddisfazioni. Nessuno avrebbe mai pensato di poter svegliarci oggi da campioni d’Europa dopo aver sconfitto sul campo Belgio, Spagna, nonché la favoritissima Inghilterra. Favorita dalla politica, dalla UEFA, da un torneo ipocritamente (ergo, in linea con lo spirito del tempo) itinerante ma in realtà confezionato sulle esigenze degli amici d’Oltremanica, dagli arcobaleni accattivanti e danarosi, dalla multietnicità sbandierata come valore aggiunto (qualcuno ricorda, per caso, cos’è stato il colonialismo?) dagli inginocchiamenti facili (salvo, poi, fregiarsi di comportamenti infantili ed antisportivi). Perdonate le troppe parentesi, ma questi tempi assurdi di parentesi aperte ne meriterebbero parecchie.
Dunque La rivincita dei lavapiatti di Londra, degli umili immigrati, dei cervelli svenduti, la rivincita di chi con fervore e dedizione ci ha messo l’anima, ha dimostrato gli attributi necessari per presentarsi in un catino ruggente, di fronte a 58mila voci già convinte, scandenti un unico mantra : it’s coming home. Cosa? Non si sa. Chiellini con il sangue agli occhi che bracca il collo del povero ed inesperto Bukayo Saka costringendolo a terra è l’immagine simbolo di una partita giocata con una consapevolezza profonda: oltre qui non si passa. Contro l’Italia non sarà mai più facile. Contro questa Italia serve a poco esultare in anticipo. Questo è il nostro nuovo RINASCIMENTO, come ben ha intuito Puma, il nostro fornitore tecnico nel battezzare la bellissima ed iconica linea di maglie azzurre.
Mancini & co. ci hanno fornito una grande iniezione di entusiasmo. Difficile stabilire, a mente lucida, cosa rimane. Le mie lacrime di gioia miste ad una triste consapevolezza: ho tanto da festeggiare, ma ben poco da festeggiare, domani qui è tutto come prima, i miei soliti guai, una provincia stantia, un lavoro che non c’è, un abbraccio tenero tra le parate di Donnarumma, forse l’ultimo, ad un amore grande quanto impossibile, ad una donna che già non c’è più che mi asciuga il viso.
L’ultimo europeo vinto risale al 1968, ad Atripalda mio nonno era tra i pochi a possedere un televisore a casa. Qualche giorno dopo quell’Italia-Jugoslavia, morì portato via da una malattia. Facchetti alzò la coppa nell’unica diapositiva passata alla storia rigorosamente in bianco e nero. Fu il primo trofeo vinto dal dopoguerra. Si dice che l’Olimpico di Roma si strinse in una fiaccolata silenziosa e spettacolare. Era un altro Paese, rampante, ruggente, libero, sovrano, profondamente ed orgogliosamente ITALIANO. Tra le lacrime sciolgo la mia vita intera e lascio che la storia degli Azzurri compenetri la mia e quella della mia famiglia. I più cinici e disamorati diranno che degli strapagati milionari sono su un aereo a festeggiare i loro privilegi, mentre io non ho un futuro.
Con permesso, ma stasera me ne fotto. Sono italiano. Sono campione d’Europa.
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