Sono state giornate incredibili, segnate da piogge intensissime, quelle appena trascorse. In molti dicono che abbiano portato l’autunno tutto in una volta.
Così, mentre in questi giorni di bel tempo ristagna l’aria calda che qualcuno imputa all’estate di San Martino, nella piccola piazza del centro storico di Atripalda l’autunno si è realmente lasciato annunciare e lo ha fatto affidandosi al suo tratto più distintivo, le foglie.
Un’innumerevole quantità di foglie morte ricopre il manto erboso, quasi volesse essere un’enorme coperta dai colori tenui. La piazza è vuota e silenziosa, come non accadeva da mesi.
Della sua storia recente è rimasto ben poco. Le panchine vittime, per una parte, del tempo e dell’erosione e, per l’altra, delle azioni degli incivili di turno, hanno comunque resistito più di tutti. Il gazebo, con i suoi colori un tempo accesi, ora sembra un punto buio ed isolato, quasi fosse estraneo all’intera piazza. Infine le mura macchiate di umido e recentemente imbiancate alla buona e meglio per cancellare alcune scritte.
Nel suo silenzio, ancora irreale, di queste mattine autunnali, mi è capitato di ritrovarmi proprio lì. I disoccupati inglesi passavano le proprie mattine a fissare i treni partire alla stazione, cosa fare se una stazione dei treni Atripalda non ce l’ha? Così, nei miei giorni di non lavoro, non posso nemmeno definirmi disoccupato (per lo stato italiano non sono mai entrato nel mondo del lavoro, anche se ho lavorato per 5 anni) mi ritrovo seduto su queste panchine al centro di questa piazzetta. Il luogo non è stato scelto a caso, è forse il luogo che più ha rappresentato le speranze e i fallimenti della mia città e della mia generazione.
Qui è rinata una città, anche se per poco, ma nello stesso luogo è morta una generazione, stroncata nel bel mezzo della sua fioritura. In questi giorni abbiamo deciso di interrogarci sul significato di fallimento e credo che il mio più grande fallimento sia questo: non essere riuscito a contrastare nel migliore dei modi tutti gli ostacoli che hanno portato alla conclusione di una fantastica esperienza. Un’esperienza questa che aveva riavvicinato i tanti, molti giovani, rimasti ustionati da una realtà difficile, a tratti ostile.
Il fallimento è stato aver illuso tanti amici che qui ad Atripalda (più in generale in una media provincia del sud) si potesse vivere coniugando aspirazioni lavorative e ambizioni sociali e invece ci siamo ritrovati ostacolati e ostracizzati.
Ma non è l’occasione per ripensare al solo fallimento personale, è l’occasione di ripensare a quanto questo sia stato il simbolo di un fallimento comunitario, che si porta strascichi ben visibili. Dopo 5 anni si piange ancora l’abbandono e la decadenza di questa piccola realtà, ma al tempo stesso si è pronti a criticare ed infangare ogni azione volta a contrastarla.
Da qui arriva una grande lezione: il fallimento di un’esperienza può rappresentare una lezione di vita, importante per il futuro, solo se si ha la maturità e la capacità di introiettarla ed elaborarla in maniera adeguata. Un processo che richiede fatica, autocritica e lavoro.
Così mentre sto seduto, da solo, in piazzetta capisco che, a fatica, dopo anni sto cercando di riprendermi da quel tipo di fallimento, provando a costruire di nuovo qualcosa. Mentre ci provo capisco di non essere solo e di avere accanto ancora alcuni di coloro che come me da quella esperienza sono rimasti segnati, nel bene e nel male.
Mi chiedo soltanto se chi, in quei giorni ha deciso di abbracciare un silenzio colpevole,stia facendo lo stesso percorso. Dopotutto continuo a credere che si possa ancora imparare dai fallimenti, ma bisogna avere coraggio e maturità per affrontare gli stessi senza sottrarci dalle nostre responsabilità passate e presenti.
Sono bastate tre settimane per farmi capire che qualcosa con Scarpesciuote è cambiato. Per prima cosa abbiamo alle spalle un anno pieno di attività e di testimonianze di quello che è, a tutti gli effetti un universo, fatto di parole chiave che nascondono vite ed esperienze, di parole chiave che godono di fortune alterne.
Uno spazio fatto di parole che sicuramente non scomparirà, nemmeno quando l’ultimo riflettore dell’ultimo festival sulle aree interne sarà concluso e nemmeno quando gli ultimi bandi o le ultime call decideranno che forse è giunto il momento di concentrarsi su altro che non abbia a che fare con parole a noi care, quali: Sud, Provincia e Aree Interne.
Parole che tornano di moda con la bella stagione, in momenti in cui è senz’altro più facile vivere e riflettere su di esse. Ma ritorniamo a noi.
Dopo un anno alcune cose sono cambiate: abbiamo lentamente accantonato alcune pratiche impulsive per cercare di operare una serie di riflessioni più acute e più approfondite che avessero cura di considerare quelle nostre parole chiave come una parte di una cornice più ampia.
È in questo senso che vanno lette le ultime tematiche proposte e di conseguenza anche quest’ultima. Tematiche che il caro amico Antonio mi propone settimanalmente provocandomi delle grandissime crisi. Soprattutto perché riesce a farmi rinunciare a quella che a tutti gli effetti considero la mia confort zone. Questa volta mi ha chiesto parlare di amore.
Così, mentre mi dannavo l’anima per trovare la giusta quadra, ho ripensato a queste parole, al loro significato. Di sottofondo il telegiornale riportava una nota dell’ultimo rapporto di Confcommercio sulla disoccupazione giovanile, l’emigrazione meridionale e la costante erosione demografica che sta portando l’Italia ad essere il paese più vecchio della zona UE.
DOPO UN ANNO QUELLO CHE RESTA
Poco più di un anno fa la mia rubrica aveva esordito con un articolo su quello che conoscevo meglio, la realtà irpina, in cui mi trovo a vivere da ormai 30 anni. Avevo colto l’occasione di fare luce sull’insolito rapporto che si crea tra città e giovani. Un rapporto ambivalente che vede i giovani classificati, etichettati ed impacchettati in diverse categorie: vandali, apatici, depressi, sconfitti ecc…
Classificazioni ed etichettature capaci di dare un copione da cui è difficile discostarsi. Almeno questo dovrebbe avvenire tramite le facili letture a cui siamo ben abituati nelle nostre strade e nelle nostre piazze. Se si è giovani non si amano le strade, le piazze e le persone che, indistintamente dal ceto, dalla provenienza e dall’orientamento o dall’opinone, attraversano e vivono. Negli anni abbiamo dimostrato che non è così. Non ci siamo abbandonati all’apatia e tanto meno all’odio e all’esclusione.
Eravamo in tanti negli anni passati e sono in tanti, che ancora oggi si impegnano costantemente in prima persona nei nostri angoli di provincia e nelle nostre, famose, aree interne. Lo fanno sacrificando il lavoro, la vita personale e il proprio benessere.
Arrivano stremati da lavori inappaganti e da situazioni sfibranti. Verranno sempre e comunque giudicati, demonizzati ed infamati. Da una parte ci sarà chi li riterrà poco attivi e dall’altra chi li considererà prezzolati, in malafede e pilotati.
Sono storie di tutti i giorni che capitano nelle nostre province, storie soffocate e non approfondite per far spazio a notizie sensazionali e roboanti.
Sono queste le storie che, insieme alla mancanza di lavoro spingono in molti a partire, ad andare “fuori”, come si dice in gergo. Ed ecco di nuovo le parole chiave delle nostre terre. Quel fuori che si contrappone ad un dentro immenso e soffocante.
Allora perché in molti decidono di restare, di continuare ad andare avanti malgrado le difficoltà, malgrado le diffamazioni, gli ostracismi e le privazioni? Semplice, per amore.
Adesso dovrei stare qui a spiegarvi il perché ho dato questa risposta. Dovrei argomentare e portare esempi, ma finirei col vanificare il mio obiettivo. Quello che invece vi consiglio è di uscire e andare in giro, tra i paesini presepe che dopo un’estate si spopolano, vengono smontati e si riportati in soffitta, di andare nelle strade cittadine, nei luoghi consumati dall’umidità. Visitate quei rari luoghi cittadini dove ancora si intende la cultura non come consumo, dove il termine sociale rimanda ancora a qualcosa di nobile. Lì, in mezzo a tanta depressione, troverete chi è davvero innamorato.
Lì potrete discutere con persone che provano un amore infinito. Lì potrete vedere in azione i giovani innamorati di queste nostre province meccaniche e hanno bisogno di tutto il vostro appoggio e aiuto.
«[Le dimissioni] mettono momentaneamente fine al sogno di un gruppo di aitanti giovani atripaldesi: entrare nelle stanze dei bottoni, capirne il meccanismo, fare “qualcosa” per il Paese, costruire l’alternativa ai pomeriggi a cui siamo tristemente abituati, svegliarlo da un torpore patologico, superare divergenze e colori politici per entrare nel vivo dell’azione, sognare per Atripalda una dimensione locale e, al tempo stesso, globale, dimostrare che qualcosa può ancora partire dal basso nel tentativo di coinvolgere diverse generazioni nel restituire orgoglio alla nostra cittadina martoriata da una crisi decennale che sta straziando portafogli, cuori e cervelli, LAVORARE GRATIS per un progetto dalle sfaccettature complesse, specialmente “in direzione ostinata e contraria”, proprio nell’epoca dove TUTTO HA UN PREZZO. […] Ma del resto, consentitemi, la mia generazione è stata sempre accusata per quell’apatia congenita da “tablet” che la caratterizza da qualche anno a questa parte. Entrando nel Forum dei giovani Atripalda speravo di dare una svolta, posso confermare di aver condiviso questa speranza con molti degli amici che mi hanno accompagnato in questo percorso».
(Giannicola Saldutti, Vice Coordinatore Forum dei Giovani, febbraio 2017)
Uno dei metodi più efficaci per affrontare un argomento è quello di partire da una dimensione personale, autobiografica. Non credo che in questo senso la tematica attuale ci permetta un’eccezione.
La narrativa e la cinematografia sono piene di storie e protagonisti in costante equilibrio tra una o più situazioni di difficoltà a cui è richiesta una prova di coraggio per poter superare gli ostacoli. Un copione che per questioni di tempo e fruizione risulta essere breve ed intenso.
Così ci convinciamo, a tratti ci illudiamo anche, che le situazioni che richiedono il nostro coraggio altro non sono che momenti, attimi in cui è richiesto il massimo sforzo per poi ritornare ad una condizione di normalità. Il protagonista che con una incredibile prova, di coraggio per l’appunto, mette da parte le sue paure e le sue preoccupazioni e tenta un disperato salvataggio. L’eroina che uccide il re della notte con una frase ad effetto.
Ma nella realtà le cose vanno un po’ diversamente. La storia non è veloce, il nemico non è un essere sovrannaturale o un terribile narcotrafficante, il nemico è il tempo che produce ammansisce tutto e tutti.
Chi scrive conosce bene questa sensazione, che rappresenta solo una parte complementare di un quadro estremamente più complesso fatto di moltissime sfumature.
Le realtà di provincia di cui molto spesso abbiamo parlato risultano spesso essere terre di mezzo, dove i valori di media, moda e mediana riescono ad oltrepassare la semplice statistica e diventano espressione stessa di quello che si vive.
Sono i piccoli centri delle grandi classi medie, in cui tutti stanno “non c’è male” e dove le condizioni di disagio estremo sono nascoste, così come quelle di estremo benessere. Le nostre esistenze seguono quasi sempre lo stesso copione, in cui il tempo, che da queste parti si dice “essere galantuomo”, lo si passa sperando che il peggio passi sempre e che il bene arrivi presto. Così nelle nostre vite provinciali le ingiustizie e le disuguaglianze si strutturano lentamente, con la speranza che ogni effetto venga mitigato dal tempo.
Ma più spesso di quanto si possa immaginare ci sono gruppi di persone decise a non accettare passivamente tutto ciò e così capita di trovare giovani impegnati a far rivivere il proprio paese, gruppi di quartiere che riqualificano uno spazio in disuso, famiglie attente a costruire una città su misura dei propri figli, comitati di cittadini e associazioni. Ognuno di questi attori sceglie, decide, sbaglia, gioisce e fallisce, ma soprattutto prova in qualche modo a costruire un’alternativa che ritiene giusta e necessaria.
Le nostre terre sono piene di storie coraggiose e ho avuto modo di vederle in varie forme che vanno dal Forum dei Giovani cittadino e arrivano all’Associazioni delle tante amiche e dei tanti amici che lottano per i propri diritti, passando per le numerose forme di impegno individuale.
Ma come sempre il coraggio non basta, o meglio, contro tutti i problemi e gli ostacoli che ci troviamo ad affrontare la vera necessità per sconfiggere quella terribile tendenza alla mitigazione e di conseguenza all’accettazione passiva di ogni condizione, è quella di creare delle reti con cui scambiare opinioni ed esperienze, creare un progetto duraturo e capace di far mettere da parte i molti narcisismi ed egocentrismi che alcuni protagonisti del sociale tendono ad avere.
Le città, i quartieri e le persone non hanno bisogno di coraggio, non solo di questo, hanno bisogno di unione.
Come spesso accade quando qualcosa scuote l’opinione pubblica, e qualche volta anche la coscienza collettiva, ci ritroviamo ad essere sommersi dai pareri più differenti, ma soprattutto ci ritroviamo in balia di tantissime opinioni di sedicenti sociologi e/o criminologi pronti a spiattellare in prima serata qualche polverosa teoria messa a nuovo per l’occorrenza.
Niente di più lontano dalle nostre realtà potremmo pensare, se non fosse che in realtà piccole come le nostre la scossa all’opinione pubblica prova a darla spesso la stampa locale (provinciale e cittadina) che da sempre va a caccia di argomenti capaci di smuovere timidi pomeriggi estivi e anche qualche seduta di consiglio comunale.
Ai più scettici questa cosa sembrerà strana, ma in realtà come in ogni articolo presentato in questa rubrica l’esperienza autobiografica viene sempre in aiuto di chi scrive e anche in questo caso non tarda ad arrivare. Infatti basterà tornare indietro di qualche anno e con la precisione al 2006 per riportare alla luce un caso fortemente esplicativo a quanto scritto poc’anzi.
PERCOCA MECCANICA AD ATRIPALDA
È il 2006 e siamo in piena estate ad Atripalda e come le estati precedenti e quelle successive i cambiamenti sono stati pressoché minimi. Ogni anno per almeno tre mesi si cerca di far fronte, in qualche modo, al caldo reso ancor più insopportabile dall’incredibile tasso di umidità; ma clima a parte, la nostra estate, quell’anno, aveva costruito un percorso parallelo a quello della nazionale di calcio, che dopo anni di cocenti delusioni, si stava apprestando a raggiungere il tetto del mondo ed era così riuscita anche a mitigare l’amarezza delle tante bocciature che avevano colpito la nostra cerchia di amici.
Avevamo così conquistato, nelle nostre vite di adolescenti, qualche settimana di serenità lontane dalle nostre preoccupazioni, quando una scossa improvvisa aveva agitato i pomeriggi estivi atripaldesi. Infatti come un fulmine a ciel sereno la redazione provinciale di un’importante testata giornalistica nazionale aveva deciso di pubblicare in prima pagina le foto tratte da alcuni video YouTube, tutt’altro che recenti e tutt’altro che violenti, cercando di suscitare sgomento nell’opinione pubblica portando alla ribalta delle cronache locali una questione giovanile legata al fenomeno della violenza.
Lungo il fiume Sabato, Atripalda 2006.
Quell’improvvisa scossa aveva raffreddato la nostra estate e ci aveva posto al centro del ciclone, ci aveva trasformato in drughi, intenti ad inscenare quotidianamente dei veri e propri combattimenti tra gladiatori, portando con sé panico e distruzione nella villa comunale.
La notizia di una gioventù violenta non ebbe troppa difficoltà a diffondersi per due ragioni fondamentali: la prima di tipo geografico/urbanistico che vedeva nella villa un luogo di margine dove tutto veniva nascosto dalla sua posizione. La seconda di tipo generazionale, invece, vedeva nei giovani un insieme informe di teppisti e consumatori seriali di droghe.
La diffusione capillare era stata tanto veloce quanto superficiale e la narrazione conseguente era stata universalmente accettata da quasi tutti i partiti politici cui la soluzione proposta fu la stessa ed unanime: in risposta a quegli (presunti) atti andava utilizzato il pugno duro.
Confusi e pieni di rabbia c’eravamo ritrovati impotenti davanti all’incredibile mole di violenza simbolica che ci aveva investito. C’eravamo ritrovati impotenti contro una parte di città che non voleva sapere niente di noi, ma era disposta a giudicarci in maniera dura. A nessuno importava che la nostra sensibilità ci obbligava, già allora a raccogliere anche i rifiuti altrui disseminati nella villa, a nessuno importavano le difficoltà legate alla mancata presenza di un luogo aggregativo.
Foto di fine giornata ecologica, tra i tanti anche alcuni dei gladiatori e teppisti, Atripalda 2014.
Avevano già scelto la loro narrazione nei nostri confronti.
EPILOGO
Parco Pubblico, giornata ecologica Forum dei Giovani. Anche qui, tra i partecipanti sono presenti alcuni di quei teppisti. Atripalda 2015.
C’è voluto poco più di una settimana per far scomparire il fenomeno violenza giovanile dalle cronache locali e dai banchi di Palazzo di Città. Atripalda era ritornata al suo solito clima, preoccupata come sempre più dell’umido che delle persone. L’interesse per la questione giovanile era già scomparso e ai giovani era stato riconsegnato il solito posto ai margini della vita comunale; di tutta questa storia, solo quel gruppo di adolescenti non ha mai dimenticato quella terribile ed ingiusta esperienza e proprio grazie a questo ricordo negli anni successivi sono nate le diverse forme di attivismo giovanile che hanno portato la cittadina a vivere alcune forme di rinascita culturale e sociale.
Piazzetta degli Artisti durante il Tricare – festival del perditempo. La quasi totalità dei gladiatori posa a fine festival nella piazza recentemente rigenerata dagli stessi, Atripalda 2015.
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