Con spirito di cordoglio, un animo scosso ed un cuore intriso di lacrime amare, la commissione per gli affari di pubblico interesse del Comitato Centrale della sezione Atripaldese del Partito degli “scudettari” riuniti da il triste annunzio della prematura, triste ed improvvisa dipartita del compianto compagno Maksim Cygalko, richiamato in queste pagine proprio qualche settimana fa. Questo spazio dedica questo silenzio stampa in sua memoria, nel tentativo di ripagare il compagno Cygalko dei tanti fanta-trofei che i suoi gol ci hanno fatto vincere.
Non fiori, ma opere di bene.
Il compagno Cygalko è morto. Viva il compagno Cygalko! (1983-2020)
Notizie così, la mia generazione non se la sentirebbe proprio di riceverle. Si conclude nel peggiore dei modi questo anno, al quale sembriamo esserci tristemente abituati, questo anno che con l’impeto di uno spietato tiranno ci ha costretto a rivedere molte delle nostre priorità, che ci ha privato delle tradizioni e dei gesti più usuali e comuni.
Natale si avvicina, un certo languore mi coglie impreparato. Il calcio, si sa, è sempre stata distrazione pura, citando Arrigo Sacchi, è “la cosa in assoluto più importante tra quelle meno importanti”. Ma ora come ora neanche questo svago sembra darmi sollievo. Gli stadi desolantemente vuoti, il rumore della palla calciata, le urla dalla panchina…San Siro che ad ogni gol ripropone un jingle ridondante e piuttosto noto a chi, come me, ha seguito con piacere l’hockey su ghiaccio o altri sport americani sperando che certe pagliacciate non arrivassero mai nei campi nostrani. Ve lo confesso, non ne posso più.
during the Serie A match between AC Milan and Genoa CFC at Stadio Giuseppe Meazza on March 8, 2020 in Milan, Italy.
Non ne posso più proprio perché allo sport più bello del mondo è stato momentaneamente (si spera) tolto il suo motore e la sua naturale alimentazione: la gente. Mi è sembrato uno scherzo del destino assurdo, proprio qualche anno fa lamentandomi con un amico ho detto a mezza bocca: il calcio del futuro lo vorranno senza pubblico. Strutture giganti e vuote. Telecamere ovunque, pronte a soddisfare ogni nostra voyeuristica perversione, tecnologia pronta ad eliminare ogni margine d’errore umano. Non avrei mai voluto fare il Nostradamus della situazione, anche se pare che ci ho preso in pieno.
Il mio sangue da “slavo” mancato non può esimermi dal mio essere un inguaribile fatalista. Pertanto non ho faticato nel vedere la dipartita di Diego e Paolo come un segno del destino, proprio in un annus horribilis che sta drasticamente segnando un punto di non ritorno nella storia della fruizione calcistica. Già, Diego e Paolo, entrambi in modi e tempi diversi costretti a giocare il ruolo di capipopolo, a non dover soltanto giocare ma anche a rappresentare. Entrambi ricordati per delle gesta incise nella storia del calcio, entrambi discutibili in molte scelte di vita. Paolo Rossi, l’uomo che fece piangere il Brasile, e Diego Armando Maradona, El pibe de oro, venerato Masaniello, tracotante vendicatore delle isole Malvinas, non ci sono più. Il 2020 li ha portati via lasciandoci dietro tante domande. Risposte? Poche e confuse, in verità.
Ma una certezza ce l’abbiamo: grazie Diego, grazie Paolo. Le vostre gesta riecheggiavano negli anni ’90 nei racconti dei nostri padri. Ed entrambi siete legati ad un fil rouge comune, ad una storia che ogni volta che si ripete riaccende la fiammella del miracolo che ci ricorda il perché rimaniamo ancora ore ed ore incollati a guardare ventidue uomini che si sfidano calciando un pallone: perché abbiamo un tremendo, inguaribile, affamato, malato bisogno di credere in qualcosa, sia pure una volta ogni tanto. Abbiamo bisogno di credere che la storia dei più deboli non è già stata scritta. Ma che quando un debole si incazza può succedere ancora di tutto e può far ammutolire i potenti.
Grazie Paolo, perché quel pomeriggio a Barcellona non ci credeva nessuno. Ma veramente nessuno. Il Brasile era, a detta di molti, tra i più forti di sempre. Ma Paolo Rossi decise che no, l’Italia operaia, tenace, avrebbe vinto col cuore. Tre gol, Waldir Peres ammutolito, un intero Paese incredulo davanti alla TV piange lacrime amare. Socrates, Falcao e Zico tornano a casa, l’Italia timida e gracile che balbettava ridicola nel girone eliminatorio si trasforma in una corazzata paurosa pronta ad arrivare in fondo alla notte di Madrid. “Paolo Rossi era un ragazzo come noi…” cantava Venditti. Aveva ragione.
Grazie Diego, perché a 24 anni potevi andare dove volevi. E invece hai scelto di salpare in una terra umiliata, ferita, dimenticata e derisa. Grazie perché ci hai messo la faccia, hai sbagliato ed hai pagato. Grazie perché gli inglesi quel pomeriggio a Città del Messico volevano morire, schiaffeggiati in pieno volto due volte: la prima volta beffati da un geniale imbroglio (pensate solo che oggi il var ci avrebbe prontamente negato una gioia simile), la seconda tramortiti da uno slalom leggendario, sbeffeggiante, difficilmente credibile. Grazie perché spesso ci hai mostrato come i più forti sulla carta possano perdere, che il destino può essere sovvertito, che la storia del calcio riparte ogni volta che un bambino in qualche Barrio di Buenos Aires prende a calci una lattina. Abbiamo un tremendo bisogno di crederlo ancora.
Intanto qui il vuoto che ci avete lasciato è immenso. Mentre scrivo queste righe Antoine Griezmann sfodera su Instagram il suo nuovo look modello Pippi Calzalunghe, Lionel Messi lo guarda un po’ preoccupato, della serie “ma guarda un po’ tu dove sono capitato..” Mi guardo intorno e cerco i miei nuovi idoli, ma non ne trovo. Se avessi un figlio piccolo, non saprei proprio dove indirizzarlo. Io da bambino avevo Van Basten, che arrossiva alle domande dei giornalisti sull’amore della sua vita. E poi in campo dava vita ad acrobazie e traiettorie non credibili all’occhio umano.
Oggi qui non arrossisce più nessuno, non sbaglia più nessuno, la mannaia di questi nuovi tempi non risparmia nulla. Tanti soldatini pronti a sfoggiare l’ennesimo look per la nuova campagna anti-razzismo foraggiata da marchi che magari sfruttano bambini del terzo e quarto mondo. Tutti pronti ad indignarsi se un vero figlio della working class come Jimmy Vardy nell’esultare abbatte sbadatamente la bandierina arcobaleno della prezzolata Premier League o se un quarto uomo rumeno fa sfoggio del suo idioma neolatino per comunicare anche nei confronti di calciatori africani in un Paris Saint Germain – Istanbul Basaksehir, due squadre per le quali definirne “losche” le proprietà e i gruppi di investimento in esse coinvolte varrebbe solo come simpatico eufemismo.
Davanti a tanta ipocrisia, non c’è che ripetere infinitamente: grazie Paolo, grazie Diego. Le vostre gesta ci riconciliano con la storia del calcio, che si rinnova ogni volta che in strada prendiamo a calci qualcosa. Ma qualsiasi cosa.
Vi era tutto un mondo videoludico straordinario ad accompagnare la nostra infanzia ed adolescenza, irrimediabilmente malate di pallone fino a divenirne letteralmente ossessionati.
La scelta era bella ampia, le piattaforme non mancavano, la corsa frenetica all’acquisto della PlayStation 1 in quel Natale di fine secolo è ancora impressa nella mia memoria.
È ancora impressa poiché dovetti imparare a mie spese il significato di un verbo fondamentale, del verbo “rosicare”. Vi è sempre un momento in cui sarai costretto a guardare i tuoi amici giocare e tu ne sarai consapevole: volente o nolente ne sei tagliato fuori, i tuoi non te la comprano, al limite si può sperare in un pomeriggio a casa di qualcuno, a fare merenda con i joysticks in mano, con Fifa 98 o Pro Evolution Soccer perennemente in funzione.
La mitica modalità indoor di Fifa98
Ecco, il primo sballo aveva pochi pixel, magliette abbozzate e telecronache rudimentali, lo sfizio era giocare per la prima volta con il Trinidad & Tobago o l’Uzbekistan (e con la scusa del calcio…noi maschietti imparavamo pure la geografia!). I primi videogiochi Konami, già fattisi notare nei cabinati delle stupende sale giochi cittadine, facevano capolino stupendo per qualità grafica e giocabilità. A Tokio sapevano il fatto loro.
Una delle nazionali più ambite di sempre dai giocatori di Fifa98
Meglio Fifa o Pes? L’atavico arcano risulta tutt’ora irrisolto, il mondo è schierato in due partiti, due filosofie completamente agli antipodi, a tratti si rischia di sfiorare crisi diplomatiche degne dell’era Reagan – Brežnev . La guerra fredda tra i due blocchi è stata brevemente inframezzata da qualche meteora nata e morta lì (ricordo per un periodo un certo Actua Soccer, con una copertina che poteva fregiarsi della presenza della mitica ala rossonera Ibrahim Ba, giusto per dare idea del potenziale nostalgico del prodotto).
L’urlo di Virtual Striker riecheggia ancora in tutte le sale giochi di provincia
Menzione a parte meriterebbero i giochi a 32 bit per GameBoy, ma soprattutto i manageriali: da PC calcio al monumentale “Scudetto”, le ore passate davanti ai computer non si contano, per la gioia dei nostri genitori riluttanti. La mia generazione di videogiocatori è ancora ossessionata da una sola domanda: cosa starà facendo ora Maksim Cygalko? Magari fa il muratore o l’agente immobiliare a Minsk, magari questo sconosciuto ex attaccante bielorusso non saprà mai che la mia generazione lo venera come un Dio.
Tutti abbiamo sognato di allenare la nazionale dei Titani o qualche altra squadra senza nulla a pretendere. Football manager 2003. C’è ancora qualcuno che non si è ripreso da questo gioco.
Se per i più giovani questo cognome non dice nulla, i più anzianotti come me avranno già capito a cosa mi sto riferendo.
I manageriali ancora oggi resistono ai tempi, aggregando comunità di videogiocatori davvero enormi, le quali hanno sempre più spesso modo di interagire con il calcio reale (la rete di osservatori di Football manager è spesso sfruttata anche da diversi club calcistici).
Ritrovarsi nelle case, stare tutti insieme (alla faccia del distanziamento sociale..) organizzare tornei diventò la norma di parecchi pomeriggi. Le modalità di gioco favorivano la “carriera” o “master League” per gli amici pessari, un’avventura gestionale in cui prendeva vita un rudimentale progetto tecnico in cui era possibile portare il Cambridge o il Torquay (League two inglese, la nostra vecchia C2) a vincere la Coppa dei campioni.
Oppure come dimenticare Winning Eleven, versione nipponica di Pes, ed il cammino da intraprendere con la nazionale giapponese verso i mondiali di Germania 2006? Lo scopo era sempre lo stesso. Partire da zero per arrivare in cima. Con un mio amico un’estate partimmo dall’affrontare Palestina e Birmania nei primi turni, fino alla finale di Berlino contro il Brasile. La telecronaca giapponese entusiasta del trionfo ancora ci ronza nelle orecchie.
Cosa rimane oggi di tutto ciò? Fifa è cresciuto fino ad inglobare quasi tutto il mercato, Pes rivendica con fierezza ma non senza difficoltà una filosofia meno artefatta e più legata al passato. Le nuove modalità di gioco prevedono l’uso dell’online, di carte da gioco virtuali ed altri costosi e per me poco comprensibili escamotage per inchiodare le nuove generazioni alla consolle e, soprattutto, farla spendere di più.
Recentemente Zlatan Ibrahimović e Gareth Bale hanno ufficialmente protestato per l’utilizzo dei propri volti nella serie targata EA sports, a loro dire abusivo. Molti atleti seguono con attenzione spasmodica i propri “rating” sul videogioco più venduto al mondo. Il mondo videoludico sta cambiando prepotentemente. Le dirette Twitch e la creazione di leghe virtuali con vere e proprie squadre di E-sports stanno innaffiando di soldi questo nuovo indotto.
Ultimamente si dice che le nuove generazioni a dispetto di cotanta offerta siano meno interessate allo sport, al mondo del calcio in particolare. Credo sia giustificabile in quanto stia venendo meno una certa magia. Il business è talmente invasivo da risucchiare tutto, le immagini dei gesti tecnici vengono lordate da sponsorizzazioni a iosa, i social non lasciano un minuto di tregua, la bravura tecnica scarseggia, i ritmi di gioco rendono la disciplina forsennata, le personalità dei calciatori sembrano essere preimpostate, meccanicizzate, prima animali social, poi sportivi: macchinoni, profili Instagram, tatuaggi, magari carriere parallele da djs, rappers o influencers nel campo della moda (come Memphis Depay o Hector Bellerin, due personalità di tendenza).
Il videogioco ne risente, esplodendo di forma, ma peccando sempre più di sostanza. Stadi, volti in HD, divise licenziate e multicolori, calcio di strada funambolico, storie accattivanti, abbigliamento street, calcio femminile. Credo che il fondo lo si sia toccato qualche giorno fa, con un annuncio shock della casa di produzione canadese più famosa al mondo: su Fifa si potrà giocare a calcio impersonificando niente poco di meno che…la popstar Dua Lipa.
In fondo…pecunia non olet. Arriva però un momento in cui non ci si capisce più niente, tutto sembra così strano e insensato. Come la prima volta che ascoltai un pezzo trap. Vuoi vedere che sto davvero invecchiando?
Sarà… però io pure stanotte non prendo sonno continuando a chiedermi: ma di preciso, che fine avrà fatto…Maksim Cygalko?!
Mi ritrovo molto spesso in questa fase della mia vita a riflettere sul significato della parola sconfitta, a quanto questa condizione abbia influenzato e continui ad influenzare la mia esistenza.
In un’epoca dominata da un’“effimera positività” veicolata dalle mostruosità social noto sempre più l’enorme difficoltà dell’individuo nell’ammettere la sconfitta in ogni sfera dell’esistenza, nel tollerare anche solo la possibilità di rientrare per una volta nella tanto temuta zona oscura del fallimento. Lo sport e la sua immagine riflessa nei circuiti mass-mediatici degli ultimi decenni ne è la prova lampante: non è difficile rilevare come fama e prestigio, biografie e celebrazioni vengano ormai misurate nell’ unico ed imperante metro di misura ad oggi valido, ossia quello delle bacheche dei trofei, individuali o collettive.
Quanti soldi hai, quante donne hai, quanti followers hai, quanti trofei hai vinto: è il “cretinismo economico” di gramsciana memoria sollevato a parametro risolutore di ogni tipo di valutazione. Un giudizio di valore calante a mo’ di spada di Damocle sulla testa di ognuno di noi, che non potrà mai sfuggire alla fredda condanna della matematica. Sarà per questo che, nel campo del mio sport preferito, sono sempre stato legato a figure che, oltre alle vittorie, hanno saputo scandagliare a fondo anche l’altra metà del cielo, più oscura e scomoda, quella della sconfitta, in campo così come nella vita. Ed ecco che alla cantilena recitata dei ricchi palmares di Cr7, Messi o Ibrahimović (lo dico da milanista sfegatato, quanto mi tedia ormai la stantia narrazione di supereroe invincibile!), ho sempre preferito i colpi pazzi e sregolati di Savicević, Gasgoigne, Cantona o Tino Asprilla.
Cantona dopo il celebre episodio che lo tenne lontano dai campi per mesi (Credit: PA Wire) .
Le ultime sonnacchiose partite a porte vuote giocate dalle nazionali mi hanno fatto profondamente riflettere, non solo su quanto la geografia del football stia drasticamente cambiando, ma su come certe attitudini, in fondo, non cambino mai. E se vi è un popolo che più mi ricorda l’attitudine alle pazze vittorie e alle tragiche sconfitte è sicuramente quello jugoslavo, un popolo che oggi, ironia della sorte, non esiste più se non nei cataloghi della Jugonostalgija o negli aneliti sopiti delle ormai tristemente vuote cattedre di lingua serbo-croata. Frammentati in sei repubbliche, i balcanici sanno ancora offrire spettacoli ai miei occhi bellissimi e rocamboleschi.
Jugoslavia anni 90.
La Serbia di Milinković-Savić è fuori dagli Europei, capitola a Belgrado dopo la lotteria dei rigori contro una modesta Scozia, tornata sulla ribalta internazionale a 24 anni dalla rassegna iridata di Francia ’98. “Possono vincere contro chiunque e perdere contro…chiunque!”: eccolo il motto che da sempre accompagna il calcio balcanico. Sarà per l’orgoglio ferito o per il sangue bollente che scorre a fiotti da quelle parti, ma dopo pochi giorni le Orlovi (le aquile, questo il nomignolo affibbiato alla selezione serba) asfalta i fratelli russi con un pesante 5-0 in un innocuo incontro di Nations League. A Belgrado l’importante è esagerare, in negativo o in positivo… poco importa.
Serbia – Russia
La Macedonia “del Nord” (la geografia politica dell’ultim’ora impone nomi tanto nuovi quanto vecchi…) mette la testa fuori dal sacco qualificandosi per la prima volta ad una rassegna internazionale. Il “nostro” affezionatissimo Goran Pandev si prende scettro ed opale alla conquista del continente, è il nuovo Alessandro Magno: in una fredda notte caucasica piega la Georgia e scrive una nuova e bella pagina di cultura sportiva in un Paese ancora alla ricerca della propria identità nazionale, impegnato a litigare con greci e bulgari, a turno.
Pandev festeggia la storica qualificazione della Macedonia del Nord agli Europei.
La festa impazza per le calde strade di Škopje, dove è ancora vivido il ricordo dell’ultimo macedone ad aver scritto il proprio nome nella storia. Parliamo del mitologico Darko Pančev, macchina da gol alla Stella Rossa, clamoroso bidone all’Inter, un Giano bifronte del pallone dai tratti inspiegabili, che ha incarnato tutto lo spirito sornione, tragicomico, fatalista e stralunato di questo popolo capace di tutto.
Giocatori come Savicević, capaci di leziose e tanto “montenegrine” dormite colossali, ma anche di guizzi risolutori da capogiro (per info contattate Andoni Zubizarreta, vedete che vi dice…), ci riconciliano con l’umana esistenza, con la complessità delle nostre vite, in un mondo dove valiamo sempre e solo se vinciamo e possediamo qualcosa o nei casi peggiori, qualcuno. Spesso mi vengono in mente le lacrime di Baresi a Pasadena e credo proprio che certe esternazioni siano state cancellate dalla circolazione: mai piangere, sempre sorridere, mai perdere. Eccola, la vera tristezza. In questa ottica non mi meraviglio dello scalpore che hanno suscitato nel mondo del web le dichiarazioni rilasciate da un gigante come Maldini (è il quarto rossonero che cito, lo so, perdonatemi…): “sono uno dei calciatori più perdenti della storia”. Una frase tagliente, spiazzante, quasi da sembrare ironica, proferita con una fermezza ed una lucidità disarmante, capace di scioccare anche i suoi colleghi più prossimi, costernati: “Paolo, ma…ma che stai dicendo?”. Immaginate un Cr7 o un Ibra dire una cosa del genere. Non ci riuscirete.
Sarà che oggi il “Sole dei vinti” ci risulta più pallido e freddo che mai (passatemi la citazione che qualcuno potrebbe trovare…scomoda…), ma credo che cancellare la sconfitta dalle nostre vite e dalle nostre bacheche sia come perdere due, tre, quattro volte. E allora amici in alto i calici… brindiamo a quel sangue balcanico che di volta in volta ci ricorda che essere uomini vuol dire trattare successo e disgrazia come lo stesso impostore (ops, altra citazione). Ogni mattina faccio come Maldini e mi guardo allo specchio: “sono Giannicola, sono uno dei più perdenti della storia”. Accenno un sorriso che assomiglia a un ghigno. Fine. Sipario.
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