C’è un orario che in estate aspetto con più impazienza degli altri ed è quando l’orologio segna le 19. Credo che sia l’orario migliore della giornata e poco conta il luogo in cui mi ritrovo ad aspettarle, può essere in montagna o al mare, sarà sempre l’ora giusta per rifiatare dell’incredibile calura giornaliera. L’avevo pensato anche durante quest’ultimo 15 agosto, quando io e la mia amica Alessia eravamo appena rientrati in auto. Avevamo fatto un’incredibile scorta di bottigliette di acqua tiepida in un piccolo bar, lungo quella che aveva tutto l’aspetto di essere la strada principale di Casalbore. Dietro di noi la torre normanna era ancora baciata dal sole, mentre la luce dolce del tramonto scendeva lungo tutto la strada.
Un incredibile spettacolo stava sancendo la conclusione di quel pomeriggio, insolito, passato a passeggiare e a riscoprire i borghi dell’estrema Irpinia e che annunciava la nostra intenzione di rientrare a casa. In auto avevo pensato che come spesso accade in queste situazioni mi ritrovo ad essere il passeggero designato al difficile compito di navigatore. La storia inizia sempre nella medesima maniera, l’autista di turno pronuncia sempre la stessa frase, talvolta anche un po’ seccata:
«Viri no poco ncoppa a Google Maps che ti dice!» che per i non indigeni irpini la si potrebbe tradurre più o meno così «Prendi il navigatore di Google e capisci dove stiamo andando! Ma soprattutto controlla che quella che stiamo percorrendo è la strada giusta».
Una richiesta che ai più potrebbe non destare nessun problema, ma che al sottoscritto, soprattutto dopo questa estate, ha creato non poche difficoltà. Il motivo? Ho letteralmente fatto perdere moltissimi conducenti e amici e non riesco a spiegarmi il perché.
Ovviamente, anche questo 15 agosto non ha fatto eccezione e dopo alcuni momenti di drammatiche imprecazioni e litigi tra me e il navigatore siamo riusciti a ritrovare la strada di casa.
Ma non sono qui per parlare del mio pessimo utilizzo delle mappe GPS, anche perché non riesco ancora a spiegarmi perché senza di esse riesco ad orientarmi discretamente. Quello di cui invece vorrei parlare è di come ogni mappa con cui entriamo in contatto riesce a raccontarci molto di più di quello che leggiamo apparentemente su di essa. Ma soprattutto per dimostrare che nelle nostre quotidianità mappe e mappature sono più presenti di quanto si possa credere. Facciamo, infatti, affidamento a queste per comprendere gli spazi e luoghi nei loro valori sociali, oltre che geografici. Ecco due piccoli esempi.
MARZO 2021 – LA MAPPA DEL DIVIETO
Partiamo dalla fine. Eravamo già preparati a quello che lo scorso marzo ci avrebbe regalato, o meglio credevamo di esserlo. La nostra seconda primavera pandemica sarebbe iniziata nel segno dei colori, un sistema che avevamo ereditato negli ultimi mesi del 2020, quando avevamo visto l’Italia dividersi in differenti zone colorate.
Avevamo atteso l’arrivo della primavera con questa strana consapevolezza, che nel corso dei mesi ci aveva spinto a trovare delle soluzioni per non perdere il contatto con il mondo esterno. Eravamo pronti e avevamo costruito le nostre soluzioni per orientarci e vivere in mezzo alle numerose zone di colore che ci venivano affibbiate, ma non avevamo fatto i conti con le politiche del governatore De Luca. L’introduzione urgente di tre ordinanze ci avevano gettato nella depressione più totale: oltre la limitazione negli spostamenti le giornate di marzo sono state accompagnate dal suono che facevano le nostre piazze vuote.
Una delle tre ordinanze sanciva la chiusura temporanea di tutte le piazze, spiazzi e parchi cittadini, al fine di evitare ogni forma di assembramento. Il suono dell’ordinanza era un’incredibile aria composta dal vento gelido di marzo sul nastro segnaletico usato per delimitare tutto.
Un suono non lasciato inascoltato. Un numero spropositato di servizi giornalistici realizzati dalle televisioni locali ha documentato il silenzio assordante delle piazze principali delle nostre cittadine e con esse l’urlo nero di dolore dei tanti anziani cittadini costretti al nulla.
La chiusura delle piazze non ha portato solo disperazione e depressione, ma anche la nascita di piccole soluzioni emergenziali: le strade secondarie e i vicoli più nascosti si sono trasformati in patria di passeggiatori eversivi che hanno, in questo modo, riscoperto luoghi e larghi secondari, da sempre sacrificati in nome del centralismo urbano, e hanno potuto ricostruire, anche se per qualche attimo, quella socialità perduta.
ARGINE – MAPPE GENERAZIONALI
La seconda ed ultima storia prende il via dalla, recentissima, ricerca sociale in cui sono impegnato insieme a due amici e colleghi. La ricerca nasce dalla necessità di raccontare e comprendere meglio una delle realtà più complesse ed inascoltate della città, ovvero i giovani. Per mesi abbiamo ascoltato tantissimi giovani di età compresa tra i 18 e i 29 anni con l’obiettivo di comprendere la concezione e la considerazione che quest’ultimi hanno della propria realtà urbana.
Un lavoro complicato e anche molto stancante che ci ha visto attraversare le diverse stagioni e diversi ambienti, ma che soprattutto ci ha fatto incontrare un numero incredibile di ragazze e ragazzi che avevano e hanno, tutt’ora, molto da dire. Sia ben chiaro, non affronterò nessun argomento rilevante relativo la ricerca, ma partirò dall’impressione personale che queste discussioni hanno prodotto nel sottoscritto e che sicuramente approfondirò.
Ascoltando le molteplici testimonianze una cosa mi ha colpito: i luoghi di aggregazione e socializzazione che elencavano erano completamente differenti dai miei e da quelli della mia generazione.
Un bel risveglio il mio, non c’è dubbio. Ma soprattutto una nuova consapevolezza quella del sottoscritto che le mappe emotive e mentali che costruiamo durante la nostra vita cambiano continuamente. Sono bastate due differenti generazioni di adolescenti per comprenderlo.
Vivere in un mondo in continua trasformazione ci costringe ad adattare, ricostruire e ridefinire i nostri luoghi, ma soprattutto ci porta a riscrivere i significati ad essi connessi. Per la mia generazione, un luogo centrale come la villa comunale era il punto di ritrovo per eccellenza e le nostre mappe (simboliche e mentali) partivano tutte da questo punto. Agli antipodi le ragazze e i ragazzi più piccoli di questi anni hanno costruito una geografia urbana diametralmente opposta quella precedente. Hanno dimostrato, così facendo, che è possibile costruire una nuova mappa della città non necessariamente partendo dal centro. E voi che mappa usate?
Tutto potrebbe avere il giusto cominciamento con una data ricorrente. Potrebbe, difatti, avere inizio in un qualsiasi sei luglio degli ultimi cinque anni. Sarebbe da ipocriti non ammettere che da qualche anno a questa parte questa data, che per i poco informati coincide con il giorno del mio compleanno, ha assunto un sapore diverso.
Rispetto agli anni precedenti in cui ogni pensiero e desiderio era proiettato nel futuro, gli ultimi compleanni mi spingono a riflettere, riportandomi quasi sempre al presente. Ritaglio così una piccola parte della giornata per fare quello che la quasi totalità delle persone decide di fare l’ultimo giorno dell’anno: un resoconto di quella che è stata la mia vita recente fino a quel momento.
Sono tante le cose per cui decido di discutere con me stesso, criticarmi abbastanza ed elogiarmi pochissimo, quel tanto che basta per non deprimermi eccessivamente. Non ci metto molto per passare da una dimensione individuale ad una collettiva e allora non è raro che mi capita di ripensare a cosa significa essere giovane e in che modo devo giudicare la condizione giovanile attuale.
Dare una definizione di giovane non è mai un compito semplice e tantomeno preciso. Ma più che soffermarci su questa definizione potrebbe essere interessante comprendere qual è la condizione che si riserva a tutti gli appartenenti a questo specifico gruppo sociale.
COSA SIGNIFICA ESSERE GIOVANI…OGGI
Nelle scorse settimane ho avuto modo di partecipare ad una riunione in merito ad una specifica esperienza di attivismo sociale cittadina e ho potuto ascoltare l’intervento di un ragazzo di alcuni anni più grandi del sottoscritto che, in riferimento alla realtà politica e sociale provinciale negli anni, ha definito l’attuale generazione di giovani più fortunata rispetto la precedente, che per inciso era la sua.
A distanza di giorni continuo a ripensare a questa sua affermazione. La considero un esercizio molto diffuso quello di considerare le esperienze successive alle proprie molto più semplici e i protagonisti delle stesse più fortunati.
L’incontro di qualche settimana fa mi ha spinto a riflettere anche in virtù della mia posizione di testimone privilegiato: mi ritrovo in un periodo della vita in cui possiedo la giusta età di distanza per avere un quadro esaustivo di quelli che sono considerati i giovani attivisti del momento e quelli che erano stati i giovani attivisti di un tempo.
Una posizione questa che mi ha permesso non solo di osservare i due diversi contesti, ma di viverli; non di certo da protagonista, sia ben chiaro, ma a modo mio ho potuto percepire e vivere l’ambiente con i suoi problemi, con le sue soluzioni e con i suoi stati d’animo.
Proprio da questo punto di vista provo per prima cosa a darmi una spiegazione a questa tendenza che contraddistingue le generazioni precedenti, quelle “dei fratelli maggiori”, per intenderci, a semplificare la condizione della generazione successiva.
Una pratica questa, che nasce sicuramente in buona fede, per sentirsi più vicini alle generazioni attuali, ma che nasconde in sé il germe della semplificazione e quindi quello del pre – giudizio.
Osservando le differenti esperienze di attivismo giovanile si possono capire molte cose. Tutte queste forme di azione volute e portate dalle differenti generazioni sono state accompagnate da problemi di natura simile, anche se di forme differenti.
Non è forse vero che tutte le pratiche di attivismo nascono da una mancata condivisione dello status quo sociale e culturale? Che i giovani, più sensibili e sicuramente meno accondiscendenti alle pratiche di potere tendono a non accettare di buon grado condizioni del genere?
Vero, tutte le forme di attivismo nascono dalla stessa difficoltà a non voler accettare un contesto sociale che crea stratificazioni e difficoltà, che non permette a tutti di poter vivere liberamente la propria condizione. Da questo problema tutte le varie generazioni di giovani hanno provato a creare la loro alternativa e tutte quante hanno provato a risolverla attraverso il compromesso, il conflitto e la riconciliazione. Tutte hanno vissuto una fase di riassorbimento che ha, però portato con sé, anche una trasformazione del precedente contesto sociale.
Di fronte a queste condizioni le generazioni precedenti e anche quelle attuali dovrebbero comprendere che anche chi verrà in futuro, ed erediterà una società sicuramente differente rispetto alle precedenti, si troverà a fare i conti con le ingiustizie e le difficoltà del contesto attuale e proverà in tutti i modi a combatterle.
Il compito dei “fratelli maggiori” non è quello di equiparare e soppesare le difficoltà, il compito delle generazioni precedenti è quello di fornire esperienze per poter aiutare le nuove generazioni a costruire gli strumenti migliori per affrontare le difficoltà del loro tempo e regalarci un presente migliore.
L’ultimo lavoro di Bernardo Bertolucci è stato un corto di un minuto e mezzo
Una passeggiata nelle sue strade di Roma
Su una sedia a rotelle
La sua
Voleva mostrare le mille difficoltà che ha un disabile a muoversi
Voleva mostrare cosa significa sentirsi emarginati perché sul tuo tragitto manca un marciapiede
O una discesa
O un posto auto dedicato
Voleva mostrarcelo da disabile
Lui che ha girato il mondo senza porsi mai alcun limite
Quel limite lo ha trovato sotto casa
A Trastevere
Quel limite che incontrano tutti i disabili
Quell’emarginazione che continua ad essere un’ offesa
Che io vedo ovunque
Che mi rattrista
“Scarpette rosse” Irpinia 2021
Non credo che sia necessario rispolverare vecchie e, come nel mio caso, farraginose conoscenze di filosofia scolastica per ribadire un concetto tanto familiare come quello che in un anno tutti siamo interessati da trasformazioni e cambiamenti. Malgrado ciò ritengo necessario evidenziarlo, soprattutto alla luce del momento storico e sociale in cui le nostre vite si trovano a recitare.
Nel corso degli ultimi mesi ho sentito spesso dire “abbiamo non vissuto” l’anno appena trascorso e che in fondo unica eccezione per il virus “nulla è cambiato”. Niente di più falso, dovrei esclamare, ma il mio animo democratico mi trattiene dal farlo in una forma così drastica e violenta. Vorrei provare a spiegare brevemente in che cosa siamo cambiati e lo farò prendendo come campo di indagine la città.
Nel nostro immaginario collettivo quando sentiamo parlare di città (grande o piccola che sia, in questo caso non farà molta differenza) la immaginiamo in movimento, o meglio immaginiamo la stessa durante una tipica giornata feriale con i suoi abitanti che a piedi o in macchina si spostano da un punto A a un punto B. In questi mesi, la prima trasformazione che ci ha interessato è stata quella legata al nostro modo di intendere la città. Nei mesi di lockdown questa costruzione simbolica è stata messa duramente alla prova, innanzitutto perché abbiamo dovuto ricostruire la rappresentazione della città, priva di movimento, anche di giorno e non solo nelle ore più profonde della notte.
Così, proprio la città ha cominciato a trasformarsi a non seguire più i dettami del tempo e della produzione e allo stesso modo abbiamo cominciato a mutare le nostre abitudini, i nostri modi di intendere e vivere gli spazi e le relazioni sociali.
In seguito ai dpcm, alle regolamentazioni contro il contagio e in base anche alle nostre possibilità economiche e sociali (la nostra unica scelta per mesi è stata quella di preferire il supermercato A che aveva il prodotto B in offerta a scapito del supermercato C) abbiamo ridefinito la nostra vita. Anche quando le nostre città sembravano condannate all’immobilismo le trasformazioni erano in atto e lavoravano anche su noi stessi. In un anno abbiamo più volte dovuto ridefinire gli spazi, le funzioni e i significati ad essi connessi. Un esempio quanto mai interessante lo si può ricercare in risposta alla limitazione di spostamenti entro e non oltre i 200 metri dall’indirizzo di residenza. Anche in una realtà piccola e di provincia come quella atripaldese una cosa del genere ha portato con sé nefaste conseguenze; infatti se per un abitante del centro storico 200 metri dalla propria abitazione offrivano una serie infinita di possibilità, per un abitante di un quartiere periferico come Alvanite 200 metri rappresentano un ulteriore condanna all’isolamento sociale (ricordiamo in questa sede che il distanziamento è fisico e non sociale).
In maniera molto interessante Zerocalcare racconta un po’ le trasformazioni che ci hanno interessato.
Ecco la maggiore trasformazione di questo periodo, nel corso dell’anno abbiamo dovuto ridefinire gli spazi e la nostra vita sociale e il più delle volte lo abbiamo fatto inconsapevolmente, concentrati com’eravamo sul locale che potevamo frequentare o sull’amico che non potevamo visitare. A distanza di un anno il rischio è che permanga in noi la concezione simbolica dell’adattamento alla limitazione. Ma se da un lato il timore di una certa rassegnazione all’adattamento a vivere sempre più limitatamente gli spazi della nostra città è forte, dall’altro lato abbiamo assistito alla nascita di una diversa consapevolezza delle disuguaglianze presenti in città e che a causa di questo periodo si sono acuite.
Proprio su quest’ultima speriamo di fare affidamento perché le potenziali trasformazioni delle disuguaglianze dell’ambiente possono essere affrontate solo in seguito ad una nuova consapevolezza. Una consapevolezza che nasce quasi sempre da un disagio che si vive e che può diventare una spinta per il cambiamento solo attraverso una fase di maturazione collettiva e simbolica.
Abbandonarci, come avvenuto in questi mesi, alla semplice e rabbiosa esternazione di un malessere derivato dalle limitazioni normative e amministrative porterà ad un rapido e continuo aumento delle stratificazioni. Invece, in un momento come questo, ci è richiesta una riflessione più ampia sul modo di intendere e di vivere la città che deve partire dalle libere associazioni di cittadini, dalle lavoratrici e dai lavoratori, ma soprattutto da i più giovani che per una questione generazionale sono coloro che riescono maggiormente a comprendere le necessità delle nostre città. Solo attraverso una riflessione collettiva potremmo trasformare in azione i cambiamenti che ci hanno interessati e non vanificare quanto vissuto in quest’ultimo anno.
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