E per un lunghissimo attimo di vita ho abbracciato stretto a me il rifiuto di vivere

E per un lunghissimo attimo di vita ho abbracciato stretto a me il rifiuto di vivere

Per un lunghissimo attimo di vita ho abbracciato stretto a me il rifiuto di vivere. È accaduto così, quasi all’improvviso: semplicemente le cose che mi facevano ridere, come te che parli troppo e mi fai perdere il filo dei pensieri, mi attraversavano senza innescare nel mio cuore il più forte dei big bang. Pure i giorni di pioggia, che da studente squattrinato mi spingevano a correre più forte per non perdere il pullman, avevano me come spettatore inerme, in perenne attesa della fine dello spettacolo, lo stesso che in tanti tentano di prolungare perchè fa paura chiudere gli occhi per sempre senza nemmeno avere la voce di Bocelli.

E negli stessi momenti sentivo in me il rifiuto degli altri, sempre disposti ad aiutarti, sempre troppo distratti per chiedersi il motivo per cui in fondo ai miei occhi c’era esclusivamente una lucciola spenta. Ed io le amavo le lucciole, le amavo tantissimo perchè quando ballavamo in maniera sconclusionata c’erano loro a suonare, un pò alla cazzo di cane ma che fa quando si è felici in questa misera vita italiana.

E non era da meno il rifiuto di me stesso, delle parole che mi hanno sempre teso la mano anche quando il vento era contrario e sarebbe stato più facile farmi andare alla deriva: “Capitano, lo abbiamo perso. Se gli andrà bene avrà visto Cast Away e saprà sopravvivere e tornare a casa per vedere sua moglie innamorata di un altro”.

Questo ero io: il rifiuto di luccicare nonostante le avversità, nonostante gli amori finiti, nonostante non so ancora chi cazzo sia Liberato, nonostante le stramaledette guerre di potere e poveri cristi. Nonostante non saremo mai contenti di chi siamo.

Non so poi come è capitato, ma un giorno stavo fuori casa e ho detto tra me e me: “Ma fammi spostare quel vaso, può darsi che ritrovo le chiavi che ho perso”. E lì, nel meraviglioso silenzio del dolore, ho ritrovato i denti stretti, la spensieratezza di sbagliare e riderne, la consapevolezza che siamo fatti di carne, di ossa e soprattutto di emozioni che si accendono ad intermittenza, ma non c’è da temere quando intorno è tutto buio, calma e sangue freddo e polizia, aiuto. Sto scherzando. Il rifiuto si è trasformato in accettazione che non sono infallibile, che non inseguirò i desideri degli altri né i video motivazionali su TikTok.

Io sono i miei rifiuti che ho combattuto, anche a costo di smarrirmi. E questo nessuno potrà togliermelo.

E siamo soltanto stronzi destinati ad estinguerci

E siamo soltanto stronzi destinati ad estinguerci

La guerra era bella soltanto quando me la raccontava mio nonno. Io, bambino, sulle sue gambe, mentre lui, con occhi e parole, tratteggiava uomini cattivi e cieli colorati di morte e fuoco. Provavo paura, ansia, ma soprattutto la serenità di conoscere già l’esito più importante: ovvero lui lì con me. E mi viene da sorridere ripensando, a questo proposito, uno dei suoi detti più riusciti: “Finché le racconti, le cose, significa che tutto va bene”.

Ora, ed è da egoisti, mi sento smarrito, terrorizzato da una storia di sangue e di merda che non so se potrò raccontare a chi vorrà ascoltarmi. Sono tante le domande che frequentano la mia testa: a cosa servono migliaia di bombe nucleari quando ne sono sufficiente un paio per cancellare l’umanità? Perché gli interessi di poco devono invitare milioni di persone alla morte certa? Come mai ho una sensazione sempre più netta sul fallimento del genere umano?

Più di qualcuno mi dirà che si tratta di capire, che si tratta di vicende assai più complesse. Io, però, non sono d’accordo. Per me, quelle persone che siamo stati, siamo e saremo anche noi, devono soffrire soltanto a causa delle buste della spesa pesanti, che ti lasciano un segno sulla pelle peggio degli amori finiti, oppure perché i testi di Diritto Privato sono scritti da un alieno capitato sulla Terra per sbaglio. E visto che sono cattivo, si può provare dolore persino a causa di un lavoro sempre troppo precario.

Mai, però, bisogna avere paura per colpa di pochi coglioni che stanno lì a discutere di confini, missili, negoziati. È molto complicato comprendere che i loro interessi ed i nostri sono due rette parallele che non si incontreranno mai? Che lui, noi, tu, vogliamo “soltanto” vivere tutti i giorni per provare a capirci qualcosa di piccole cose come la felicità, l’amore e stronzate simili?

Tuttavia, so che si tratta soltanto di parole scritte dall’ennesimo coglione che, mentre scuote la testa, ha la quasi certezza che ci estingueremo per colpa nostra ed è forse meglio così.

 

 

Abbecedario di provincia: lettera T

Abbecedario di provincia: lettera T

Domenica sera, dopo aver digerito Sanremo e tutte le canzoni (podio e premi giusti, tranne quello per “miglior testo”), insieme alla mia compagna abbiamo seguito l’intervista al Papa da parte del dinamico Fazio. Fino a questo punto non ve ne frega un cazzo e lo so bene, però c’è un punto che credo possa interessare tutti noi. Mi riferisco a quando il Papa ha detto più o meno “Bisogna toccarla la sofferenza, il tatto è il senso più pieno”.

Lì mi sono bloccato un attimo e non era la parmigiana che mi aspettava nel piatto. Erano quelle parole, quello sguardo che sì, era rivolto anche a me, ormai indifferente a toccare con mano la vita degli altri, sempre pronto a fermarmi un passo prima di varcare la soglia del cuore altrui, annusare prima l’aria che tira e poi, eventualmente, accomodarmi dentro. Sì, lo so che il Papa si riferiva a “toccare” soprattutto la sofferenza degli ultimi, però se ci pensate bene abbiamo disimparato a “toccare” anche i dolori di chi ci sta accanto tutti i giorni.

Troppo presi dalla frenesia della vita, dai TikTok e soprattutto dall’egoismo del dolore. L’ho notato soprattutto negli ultimi tempi l’egocentrismo di tutti noi nel mettere al primo posto sempre le nostre sofferenze e liquidare, al massimo con un consiglio svogliato, quelle altrui. Oppure, come accade sempre più spesso, preferiamo proprio non accarezzare le pieghe del dolore, chiudere gli occhi e giudicare senza sapere.

In un mondo dominato dalla virtualità, dall’ansia di essere i “primi” in qualsiasi cosa, dalla pretesa di avere la verità in testa, dalla smania di fare i soldi, abbiamo ucciso il tatto, il toccarsi. E non fate finta di nulla, anche voi, così come me, avete le mani sporche di sangue.

Che Dio ed i suoi fratelli e le sue sorelle salvino le donne!

Che Dio ed i suoi fratelli e le sue sorelle salvino le donne!

La sicurezza, che tema del cazzo abbiamo scelto per questo mese. Ho tante parole che mi frullano nella testa, un sacco di incertezze che mi trascino sulla schiena malandata da quando ho capito che in Italia, almeno ad oggi, la sicurezza per le donne non è affatto scontata.

Ecco, se c’è una preoccupazione che mi assilla ogni giorno è proprio questa, e cioè che le donne non sono “libere” di passeggiare a qualsiasi ora, non sono “libere” di indossare quella cazzo di gonna perché noi uomini siamo animali, bestie assetate di sesso. Le donne, anche in Italia, non possono godersi una sana scopata altrimenti vengono accusate di essere troie.

A me fa paura questa società, profondamente maschilista e femminista soltanto a giorni alterni, soprattutto quando può fruttare qualche voto esclamare “le donne, i diritti delle donne e blablabla”. Io non ce la faccio più, vorrei che uno tsunami spazzasse via tutta la nostra brutta mentalità perché non siamo capaci di cambiare, non abbiamo ancora capito un cazzo. Vorrei che tutto finisse all’improvviso, che calasse il sipario su questo schifo di società e che da domani ogni donna possa cantare alla Luna, al Sole, all’amico, al gatto, senza preoccuparsi di altro.

Ieri, mentre passeggiavo tra i vicoli della mia città, ho guardato il cielo. Era sporco di inquinamento e altre schifezze, ma comunque ho chiesto a Dio e ai suoi fratelli di salvare il sorriso delle donne, l’unica cosa per cui vale la pena vivere. Peccato che siamo talmente stupidi da non capirlo. Vorrei che non ricucissero più le loro ferite ma soltanto vestiti, vorrei che piangessero per un amore finito e non per un amore malato, vorrei che si sorprendessero di ciò che sono e non di quanto un uomo possa fare schifo. Vorrei, poi, che un’esplosione di felicità le colga di sorpresa.

Spero che la mia preghiera venga accolta. E non rompetemi i coglioni, la preghiera è l’ultima possibilità visto che noi uomini siamo imbecilli e meritiamo l’estinzione (non tutti, ma una buona parte sì).

 

Abbecedario di provincia: lettera E

Abbecedario di provincia: lettera E

E in mezzo a tutte quelle birre sgolate avrei voluto stringere quell’amico mio fraterno in un abbraccio e urlargli con il mio cuore malconcio che commettiamo errori ogni santo giorno. Io, per prendere uno stronzo qualsiasi, incominciai a sbagliare all’età di 4 anni, quando in un negozio di fumetti papà mi chiese quale acquistare ed io scelsi quello che sulla copertina aveva un uomo vestito da pipistrello. Non sapevo che dalla prima pagina in poi – ovvero fino ad oggi – sarei convissuto con la pressione che un uomo, soltanto con la volontà, sia in grado di sconfiggere esseri alieni con superpoteri e salvare una città infernale quasi ogni giorno.

Sono quasi convinto che siamo destinati a commettere errori fino a quando non verremo sotterrati con il prete che, magari commosso, recita “era un uomo così misurato, sempre la parola giusta al momento giusto”. Ed invece, mio caro don Matteo no, io non sono quell’uomo e non lo sarò mai. E neanche i miei amici. Noi siamo errori che proviamo a trasformare in sorrisi amari quando ci rendiamo conto che chiedere scusa è l’unica soluzione per voltare pagina e sperare che domani, anche se è un’utopia, andrà meglio.

Io commisi l’errore di non chiedere aiuto quando il dolore si nutriva della mia anima e raccontavo a me stesso che tutto andava bene, che in fondo stare in mezzo agli altri era sempre spettacolare quando se avessi avuto un fucile probabilmente non avrei visto l’ultima puntata di “Striscia la Notizia”. Poi, un bel giorno come nelle favole, quando il cielo era stupendo, cazzo sì che era stupendo, vidi le rughe sulla faccia di mia madre e mi resi conto che ne avrei voluto contare altre perché quella conta forse somigliava al ritmo della felicità. Allora, dopo essermi masturbato la razionalità per bene, ammisi di avere sbagliato di credere che potessi fare tutto da solo.

Un altro errore fu scegliere quelle scarpe di colore beige. Sono difficili da abbinare a qualsiasi pantalone e guardandomi allo specchio, lo ricordo come se fossi ieri, mi diedi una pacca sulla spalla e mi chiesi scusa per essere stato così ottimista di aver pensato che, sì, sarebbe stato semplici indossare quelle scarpe.

E, guardando i suoi occhi, intuì che fino a quel momento avevo convissuto con l’errore più ingenuo e drammatico: quello di sperare nell’eternità. Ed invece Baggio invecchia e si ritira, Valentino Rossi non vincerà più dieci gare ad ogni campionato ed io, forse già oggi, avrò qualche pelo bianco nella barba.

Allora vedi amico mio, io ti posso dire soltanto queste poche parole: non possiamo sfuggire agli errori, fanno parte di noi. Però possiamo perdonarci e provare ad accarezzarci con maggiore amore.