Non credo che sia necessario rispolverare vecchie e, come nel mio caso, farraginose conoscenze di filosofia scolastica per ribadire un concetto tanto familiare come quello che in un anno tutti siamo interessati da trasformazioni e cambiamenti. Malgrado ciò ritengo necessario evidenziarlo, soprattutto alla luce del momento storico e sociale in cui le nostre vite si trovano a recitare.
Nel corso degli ultimi mesi ho sentito spesso dire “abbiamo non vissuto” l’anno appena trascorso e che in fondo unica eccezione per il virus “nulla è cambiato”. Niente di più falso, dovrei esclamare, ma il mio animo democratico mi trattiene dal farlo in una forma così drastica e violenta. Vorrei provare a spiegare brevemente in che cosa siamo cambiati e lo farò prendendo come campo di indagine la città.
Nel nostro immaginario collettivo quando sentiamo parlare di città (grande o piccola che sia, in questo caso non farà molta differenza) la immaginiamo in movimento, o meglio immaginiamo la stessa durante una tipica giornata feriale con i suoi abitanti che a piedi o in macchina si spostano da un punto A a un punto B. In questi mesi, la prima trasformazione che ci ha interessato è stata quella legata al nostro modo di intendere la città. Nei mesi di lockdown questa costruzione simbolica è stata messa duramente alla prova, innanzitutto perché abbiamo dovuto ricostruire la rappresentazione della città, priva di movimento, anche di giorno e non solo nelle ore più profonde della notte.
Così, proprio la città ha cominciato a trasformarsi a non seguire più i dettami del tempo e della produzione e allo stesso modo abbiamo cominciato a mutare le nostre abitudini, i nostri modi di intendere e vivere gli spazi e le relazioni sociali.
In seguito ai dpcm, alle regolamentazioni contro il contagio e in base anche alle nostre possibilità economiche e sociali (la nostra unica scelta per mesi è stata quella di preferire il supermercato A che aveva il prodotto B in offerta a scapito del supermercato C) abbiamo ridefinito la nostra vita. Anche quando le nostre città sembravano condannate all’immobilismo le trasformazioni erano in atto e lavoravano anche su noi stessi. In un anno abbiamo più volte dovuto ridefinire gli spazi, le funzioni e i significati ad essi connessi. Un esempio quanto mai interessante lo si può ricercare in risposta alla limitazione di spostamenti entro e non oltre i 200 metri dall’indirizzo di residenza. Anche in una realtà piccola e di provincia come quella atripaldese una cosa del genere ha portato con sé nefaste conseguenze; infatti se per un abitante del centro storico 200 metri dalla propria abitazione offrivano una serie infinita di possibilità, per un abitante di un quartiere periferico come Alvanite 200 metri rappresentano un ulteriore condanna all’isolamento sociale (ricordiamo in questa sede che il distanziamento è fisico e non sociale).
In maniera molto interessante Zerocalcare racconta un po’ le trasformazioni che ci hanno interessato.
Ecco la maggiore trasformazione di questo periodo, nel corso dell’anno abbiamo dovuto ridefinire gli spazi e la nostra vita sociale e il più delle volte lo abbiamo fatto inconsapevolmente, concentrati com’eravamo sul locale che potevamo frequentare o sull’amico che non potevamo visitare. A distanza di un anno il rischio è che permanga in noi la concezione simbolica dell’adattamento alla limitazione. Ma se da un lato il timore di una certa rassegnazione all’adattamento a vivere sempre più limitatamente gli spazi della nostra città è forte, dall’altro lato abbiamo assistito alla nascita di una diversa consapevolezza delle disuguaglianze presenti in città e che a causa di questo periodo si sono acuite.
Proprio su quest’ultima speriamo di fare affidamento perché le potenziali trasformazioni delle disuguaglianze dell’ambiente possono essere affrontate solo in seguito ad una nuova consapevolezza. Una consapevolezza che nasce quasi sempre da un disagio che si vive e che può diventare una spinta per il cambiamento solo attraverso una fase di maturazione collettiva e simbolica.
Abbandonarci, come avvenuto in questi mesi, alla semplice e rabbiosa esternazione di un malessere derivato dalle limitazioni normative e amministrative porterà ad un rapido e continuo aumento delle stratificazioni. Invece, in un momento come questo, ci è richiesta una riflessione più ampia sul modo di intendere e di vivere la città che deve partire dalle libere associazioni di cittadini, dalle lavoratrici e dai lavoratori, ma soprattutto da i più giovani che per una questione generazionale sono coloro che riescono maggiormente a comprendere le necessità delle nostre città. Solo attraverso una riflessione collettiva potremmo trasformare in azione i cambiamenti che ci hanno interessati e non vanificare quanto vissuto in quest’ultimo anno.
«Ti prego, non allontanarti da me» «Come sei romantico, sei l’uomo da sposare» «Non farti strane idee. Io odio muovermi dal mio comune. Quindi se dovessi andare via, io non ti seguirò».
Fu questo il dialogo che determinò la fine della nostra storia d’amore. Lo affermo da subito: io sono stato un precursore della zona rossa.
Lorena mi definì “pieno di pregiudizi”, io, invece, preferisco “ottimo professionista nell’evitare personalità che al sottoscritto stanno sui coglioni”. Però sì, Lorena potrebbe aver anche ragione.
Mentre passeggio per queste strade che conosco a memoria, e questa cosa per me è orgasmica, vi racconto delle innumerevoli serate a cui ho rinunciato per non andare in quel locale fuori città frequentato, così si dice (perché quelli come me mica son certi di quello che affermano) dai cosiddetti radical chic che odiano Verdone, il lessico basilare e la Peroni (tranne in quei periodi in cui fa comunista. Sì, sono patetico anche io). Ed è inutile che tutti miei amici (?) insistono nell’invitarmi: per me quel locale è “zona rossa”. Che poi è un dettaglio se la felicità la fanno le persone, mica i luoghi. Non me ne frega, io lì non ci andrei neanche con me stesso.
«Stasera a noi si uniranno anche altri ragazzi, amici di amici …»
Quando ascolto questa affermazione potrei morire sul colpo. Queste parole, nell’ordine esatto in cui le ho riportate, potrebbero provocarmi un triplo infarto con salto carpiato. Oltre alla zona rossa, sono stato anche un precursore degli assembramenti. Se poi con gente che non conosco dovessimo andare anche altrove dalla mia città di residenza, beh, potrei preferire stringere la mano al Mostro di Firenze (non opporrei neanche resistenza). Eppure ci ho provato a combattere questa parte di me. Con poca insistenza, d’accordo, però ci ho provato.
Una volta una ragazza mi disse che la mia mente era piena di zone rosse (forse non utilizzò questa espressione però il senso era quello). Che non provavo mai nulla di nuovo, che evitavo diverse esperienze perché prevenuto e che soprattutto non incontravo mai gente nuova. Lì per lì non ci diedi peso, pensando soltanto a quanto stessi bene con gli amici (?) di sempre e nei vicoli di sempre.
Quando tornai a casa, però, ammisi l’amara verità: è che sono sempre quel bambino insicuro e spaventato. Come quella volta che mia madre lasciò la mia mano e da solo dovetti trovare la forza per percorrere quel lungo corridoio che avrebbe inaugurato la mia carriera scolastica. Ricordo il sudore che scivolava sulla mia schiena e l’ansia di non essere accettato, di risultare troppo strambo per quella che poi avrei conosciuto come “società”.
Forse sono ubriaco, ma presidente Conte io rifiuto l’offerta e vado avanti: vorrei provare ad evadere dalla mia zona rossa perché credo che più in là del mio naso ci sia qualcosa da apprezzare.
Ormai rappresenta uno sport nazionale, interessante: ci tiene incollati alla tv, ci costringe ad urlare davanti all’ultima diretta in cui ci convinciamo di aver subito qualche torto.
Il giorno dopo leggiamo con la solita poca attenzione i commenti e le analisi, li riproduciamo a modo nostro nei rari momenti di timida collettività, in coda alle poste, al tabacchino o all’edicola, ne scriviamo sui social, insomma ci ha trasformato in milioni di CT-S[1].
Di cosa stiamo parlando?
Non certo della Nazionale, era chiaro. Stiamo parlando dei molteplici colori che la nostra cartina ha acquisito negli ultimi mesi. Per anni siamo cresciuti incapaci di immaginare un colore diverso da quello del verde, immenso, della pianura Padana o del colore marrone, intenso della catena montuosa delle Alpi, o al massimo con in testa la composizione arlecchinesca, di quelle tante cartine amministrative che affollavano le pareti delle nostre classi e che ora affollano i nostri ricordi. Ma al giorno d’oggi, a causa di tutto quello che stiamo vivendo, abbiamo dovuto ridefinire il colore dei confini geografici e amministrativi, regionali e non e così ci siamo ritrovati ad osservare lo stivale con non più di quattro colori.
Abbiamo imparato a dare un nuovo significato a quei colori, abbiamo dovuto ridefinire i nostri spazi, i nostri modi di viverli attraverso una nuova linea del colore. Con trepidazione controlliamo le informazioni relative alle “nostre zone”, invidiamo chi ha un colore meno allarmante del nostro e desideriamo libertà altrui.
Ci siamo subito convinti di vivere una condizione del tutto nuova e particolare, ci districhiamo all’interno di questo “nuovo” sistema, muovendoci con una consapevolezza differente, anche e soprattutto nelle nostre stesse città.
In queste due settimane vorremmo riflettere proprio sul nostro modo di intendere e vivere gli spazi e del cambiamento provocato dalle zone di colore, da sempre esistite e di recente definizione per mano di un DPCM.
«Lo sanno tutti, pure le pietre, 2020 è anno bisesto, anno funesto!».
Un’esclamazione che è ritornata spesso in questi mesi, nelle più differenti forme e composizioni.
Così abbiamo avuto modo di esternare la nostra insofferenza per questo anno, abbiamo avuto modo di farlo in ogni contesto geografico e sociale inimmaginabile.
Lo abbiamo detto mentre eravamo in fila, tutti perfettamente distanziati, fuori dal panificio, mentre con guanti e mascherina tracciavamo raggi immaginari al fine di rispettare il distanziamento fisico che ci era stato raccomandato. In quelle file in cui ci siamo ritrovati improvvisamente ad essere protagonisti di uno di quei tanti film dispotici, dove a causa di un virus letale l’umanità è minacciata. Siamo stati protagonisti, per l’appunto, con la stessa sicurezza di chi sa che anche con qualche acciacco sarebbe giunto ai titoli di coda sano e salvo.
Abbiamo attraversato con una certa noia la nostra estate italiana, con la mascherina legata al gomito e abbiamo avuto modo di esclamare quella frase mentre seduti al bar la vita riprendeva il suo corso.
Ma lo abbiamo detto anche a denti stretti, quando con il sopraggiungere dell’autunno gli alberi hanno lasciato cadere le foglie così come i governatori lasciavano cadere le minacce di ulteriori blocchi.
Sono sicuro che lo diremo, tirando un grande sospiro di sollievo, anche alle 23:59 del 31 dicembre come se sperassimo che d’incanto nei successivi 60 secondi saremmo capaci di metterci alle spalle tutto quello che questo 2020 è stato.
Tutte le sofferenze, i dolori, le promesse che abbiamo ripulito nel nostro personale lavello della memoria, come quando i baristi risciacquano i bicchieri appena usati prima di metterli nella lavastoviglie.
Dimenticheremo tutte le mancanze che abbiamo dovuto sopportare in questi mesi, forse ci metteremo un po’ di tempo, ma l’oblio è sempre dietro l’angolo. Ci sono molte mancanze, ma di alcune non voglio dimenticarmi. Alcune di queste le troverete qui di seguito.
LA MANCANZA DELL’OGGI E DEL DOMANI – ESSERE UN UNDER 35
In questi mesi in cui ci siamo ritrovati davanti a tutti gli schermi possibili immaginabili ad ascoltare le dirette dei diversi protagonisti, che su base nazionale e regionale, con fare paternalistico e salvifico ci raccomandavano la rinuncia a qualsiasi cosa, ci incoraggiavano allo sforzo, a non uscire e ci promettevano tutele e ricompense alla fine del grande sforzo collettivo.
In questi mesi ci siamo ritrovati, incolumi spettatori di non tanto improvvisati cabaret comici che ci hanno portato a conoscere Benny il coniglietto o ci hanno portato a conoscenza dell’incredibile capacità dei carabinieri a maneggiare il lanciafiamme in caso di feste di laurea.
In questi mesi abbiamo assistito a tutto ciò e abbiamo atteso, pazientemente, la fine della tempesta per scoprire che di noi, ragazze e ragazzi under 35, nessuno ha parlato. Eppure rappresentiamo un universo numeroso ed eterogeneo: siamo lavoratori precari, laureati, disoccupati, ma soprattutto siamo persone a cui il diritto al domani è stato più volte strappato con una sostanziale differenza dalle precedenti volte, questa volta siamo stati condannati all’invisibilità.
Ci ritroviamo costretti a fare gli equilibristi sopra i banchi con le rotelle di cui abbiamo parlato fin troppo in questa estate.
LA MANCANZA DI UN SISTEMA SANITARIO DI PROSSIMITÀ UMANO
Con questa emergenza si è palesata, agli occhi di tutti, un’altra mancanza. La mancanza di cui parlo riguarda l’assenza di una forma di assistenza sociale e sanitaria adeguata.
Sembrerà strano, ma quando si parla di servizi socio – sanitari, il termine socio sta per sociale. Ma questo spesso lo dimentichiamo, abituati a convincerci che una persona possa affrontare un qualsiasi percorso medico semplicemente sotto il piano sanitario essendo così considerato al pari di un prodotto difettoso che viene portato in garanzia per poter essere aggiustato (sia ben chiaro, sempre se il gioco vale la candela).
Così senza dover scomodare Foucault ci si ritrova ad essere spostati ed allontanati dalla società perché reputati dannosi, difettosi, per qualsiasi fine produttivo e sociale. Una volta messi in isolamento cessiamo di esistere in quanto individui, come se una vita potesse essere messa in stand by.
Il congelamento del cittadino quando diventa contagiato (paziente) è stata la più grande scoperta per gran parte degli italiani.
Così per giorni molti connazionali hanno vissuto quello che in molti vivono quotidianamente nelle loro lunghe ed estenuanti trafile di degenti.
Una mancanza che sicuramente non dovremmo dimenticare soprattutto quando vengono proposti tagli alla sanità eai servizi sociali e assistenziali che vengono spesso ceduti a cooperative senza scrupoli dove il burnout è clausola immancabile di qualsiasi contratto propinato ai lavoratori.
QUELLO CHE NON HO E QUELLO CHE MI MANCA
In un’ottica democratica decido di fermarmi qui e di concedere a chiunque di voi, qualora ne abbia voglia, di proseguire con questo elenco. Ma prima di chiudere vi svelo un segreto queste mancanze non sono venute fuori con la pandemia, con il lockdown e con i DPCM, queste mancanze sono sempre esistite e sono sempre state al nostro fianco, fanno parte del sistema in cui viviamo, un tempo si sarebbero definite strutturali.
La pandemia ha semplicemente allargato la platea di coloro che sono colpiti da queste mancanze. Ma promesso mi fermo qui, la penna passa a voi…e intanto aspettiamo il prossimo anno che sarà di 364 giorni più 1.
A me il virus non fa paura. Cioè sì, è ovvio che mi faccia paura, e già mi sale l’ansia solo al pensiero, però, oltre all’ultimo film di Vanzina, mi causa più terrore un possibile ritorno del famigerato “lockdown”. L’ipotesi che io possa stare altri due mesi in esclusiva compagnia di me stesso mi fa accapponare la pelle. Ricordo, con un certo saporaccio in bocca, che talmente dall’esaurimento, verso metà aprile, all’improvviso pensai che il personaggio di “Baywatch” Mitch (vado un attimo su Google) Buchannon (spero lo abbia copiato bene) avrebbe avuto il sacrosanto diritto di essere incluso nella squadra degli “Avengers”. In fondo anche lui è un supereroe, soprattutto per uno come me che non sa nuotare.
È innegabile che dopo le prime settimane in cui pizze, urla a casaccio dai balconi, la solita storiella della solidarietà (se solo fosse vera e disinteressata), ci siamo rotti i coglioni. Vabbè, lo ammetto: è che a me questa quarantena mi ha convinto di aver voglia di stare con gli altri. E questa nuova consapevolezza mi ha fatto crollare un muro di certezze che giorno dopo giorno avevo costruito con pazienza e tempo infinito dedicato a film, libri, musica e sì, almeno nel week end, qualche comparsata sociale. Poi ho avvertito la mancanza dei discorsi stupidi che affrontiamo quando un po’ tutti siamo scoglionati e non vediamo l’ora che qualcuno si alzi e dica: “Che ne dite di sciogliere la seduta?”. Figuratevi, ad una certa ho provato una forte malinconia nel notare l’assenza della fatidica domanda: “Che facciamo stasera?”. Sbattevo come un pazzo la testa contro il muro –che clichè di merda- e più Conte emanava DPCM e più io avrei abbracciato chiunque. Nel momento in cui non ero costretto ad utilizzare scuse per non uscire dal mio mondo, avrei dato qualsiasi cosa in cambio (tranne il mio pupazzo di Homer) per chiedere scusa a tutti i miei affetti più cari per tutte le volte che ho respinto le loro offerte di birra e altre cose.
Quindi sì, la quarantena, credo, mi abbia reso un uomo migliore: un uomo capace di accettare che abbiamo voglia e necessità di condividere anche uno stupido momento insieme ad un’altra persona. Maledetto Covid: hai ribaltato uno dei miei dogma.
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