Oggi parliamo di emarginazione, una parola mai sola, al dispetto della condizione che interessa chi ne è colpito, ma che semanticamente può essere seguita da termini come allontanamento, alienazione. Sono questi i rimandi che la nostra immaginazione ci consegna ogni qual volta in cui ci troviamo a dover ragionare di marginalità.
Ma che cos’è l’emarginazione? Essere emarginati è molto più che una condizione sociale, spesso diventa una condanna esistenziale che ci accompagna in ogni sfera della vita, finanche a quella individuale.
Nella musica la possiamo immaginare come una nota; può essere studiata, ricercata e se collocata nel giusto contesto può assumere un valore ben preciso, ma al tempo stesso, rischia sempre di divenire prima di senso, addirittura stonata. Questa condizione è spesso frutto di una certa superficialità con cui si tende a definire, semplificare qualsiasi cosa che non ci torna a genio. L’emarginazione è spesso frutto di un giudizio, superficiale per l’appunto, che ha in esso la pretesa di sapere cosa è il giusto e cosa è sbagliato.
Non si può parlare di emarginati e di esclusi senza parlare di Fabrizio De André e a tal proposito prendiamo in esame un pezzo storico, “Via del campo”. Una canzone piena di vita. Una canzone, come molte del cantautore genovese, in cui gli ultimi, gli esclusi diventano i protagonisti. Con le sue canzoni De André, anche in quelle più drammatiche, riesce a darci sempre un punto di svolta, improvviso e inaspettato e così Via del Campo diviene, serbatoio di vita, di rinascita, addirittura di riscossa.
Dove l’emarginazione è grande, la voglia di rinascere sarà ancor più grande.
Dopotutto…
«Dai diamanti non nasce niente
Dal letame nascono i fior»
La parola emarginare deriva dal francese émarger ed in genere è utilizzata per indicare una persona, gruppo o comportamento non accettato dalla società. Tutti ,chi più e chi meno, si è ritrovato in questa situazione o ha visto qualcuno che veniva emarginato. E la parte che più spaventa è la quasi totale accettazione di questa condizione. Siamo quasi abituati a rimanere tra le nostre mura mentali ed ignorare ciò che ci circonda che accettiamo e andiamo avanti o aspettiamo che siano altri a risolvere la situazione. Anche nei prodotti culturali, come il cinema o le graphic novel, viene vista come una tematica spinosa e spesso è possibile vedere l’evoluzione che compie il protagonista da emarginato ad eroe; di film, fumetti, videogiochi o serie siamo pieni e spesso l’emarginazione è l’inizio della storia. Di seguito vi parlerò di 47 Ronin e di I Kill Giants,e di come il concetto e la prospettiva sull’argomento possa cambiare a seconda della situazione del protagonista o della protagonista
La locandina del film 47 Ronin con Keanu Reeves
Questione di onore ed emarginazione
Nel 2013 nelle sale cinematografiche usciva il film 47 Ronin di Carl Rinsch e con Keanu Reeves. Visto qualche giorno fa su Netflix, il film è ambientato in Giappone durante lo shogunato di Tokugawa Tsunayoshie precisamente nel dominio di Akō e ci viene mostrato come il governo dell’epoca e le tradizioni fossero dei pilastri della società giapponese. Nella pellicola l’attore Keanu Reeves interpreta un giovane emarginato di nome Kai e la motivazione dietro questa situazione la notiamo dalle sue origini: non è un giapponese puro sangue ma mezzo giapponese e mezzo inglese. Per l’epoca (ma anche oggi per alcuni individui) il non essere un “purosangue” era un motivo più che valido per non accettare la sua presenza e come si denota nel film, la situazione di Kai lo portava ad essere una figura molto servizievole nei confronti dei giapponesi. Questo aspetto del carattere di Kai era dovuto anche alla gentilezza che il daimyō Asano Naganori gli ha mostrato in tenera età. L’onore è una caratteristica che nella società giapponese viene considerata importante, figlio di una serie di tradizioni che arrivano dall’unificazione del Giappone e dallo shogunato di Tokugawa Ieyasu; una tradizione che oggi si è persa però è la figura del samurai, i membri della casta militare del Giappone feudale e i quali prestavano fedeltà ai daimyō; il film qui citato oltre a mostrarci come essere figli di una relazione “non pura” portava ad una vita di emarginazione, ci descrive anche la situazione in cui i samurai non erano riconosciuti più come tali ed erano costretti a vivere come ronin. Per un samurai diventare ronin indicava due situazioni : la morte del daimyō o aver perso la fiducia di quest’ultimo. Nel film Kai riesce a passare dallo stato di emarginato di corte ad eroe proprio per la decadenza del titolo di samurai che colpisce Kuranosuke Oishi e i suoi uomini dopo che il daimyō Asano è costretto a fare seppuku. Durante il periodo Edo il seppuku fu riconosciuto come un rituale del suicidio che portava a lasciare intatto l’onore del samurai che lo praticava. L’onore anche dopo la morte verso il proprio signore porta Oishi e gli altri Ronin ad accettare la presenza di Kai, la stessa figura che in passato hanno rinnegato ed emarginato. E l’onore è il motore che porta ad evolvere tutta la trama del film, portando un emarginato a diventare samurai ed entrare nella tradizione del paese.
Kai firma l’accordo con gli altri ronin, elevandolo dallo stato di emarginato
A caccia di giganti
Cambiamo epoca e nazione. Il film a differenza di 47 Ronin non viene distribuito al cinema ma viene rilasciato sulla piattaforma di streaming Netflix. Ci troviamo negli Stati Uniti e la protagonista di questo film, tratto dal fumetto I Kill Giants di Joe Kelly, è una bambina di nome Barbara. Non ha amici e si estranea dalla realtà giocando a D&D e immaginando di uccidere giganti nella foresta della cittadina, ergendosi a paladina della propria città. Per questo suo modo di vivere, viene emarginata a scuola e tutti gli studenti la definiscono strana; ma il suo estraniarsi dalla realtà, fuggire in reami lontani con la fantasia non sono altro che degli strumenti di difesa che utilizza per proteggersi da altre realtà: la famiglia. No, nessun problema di violenza domestica o simili ma dei problemi gravi che la portano ad accettare il suo stato di emarginata e ad alienarsi alla sua età, evitando qualsiasi tipo di relazione sociale. I giganti che lei dice di abbattere ed affrontare, sono quei problemi o quelle situazioni scomode che tutti noi magari affrontiamo quotidianamente e che cerchiamo di nascondere sotto al tappeto, aspettando che si risolvano; mentre noi, volontariamente o no, nascondiamo e fingiamo che questi giganti non esistano la piccola Barbara è pronta ad affrontarli e sacrificarsi, per i suoi affetti e i suoi ricordi. Armata del suo martello Coveleski, chiamato in onore del giocatore di baseball, non perde mai il coraggio di affrontare un gigante in battaglia e dimostra di essere all’altezza per situazioni e sfide che chiunque altro non saprebbe affrontare. I Kill Giants è prima una storia e poi un insegnamento che dovrebbe mostrarci come non giudicare gli altri, senza sapere le storie o le situazioni che vivono ma che purtroppo ci risulta difficile seguire. I giganti esistono e solo noi possiamo fare qualcosa per sconfiggerli, trovando il coraggio per affrontare le nostre più grandi paure o fronteggiando quelle situazioni inevitabili che ci portano ad allontanarci da chi in fin dei conti ci vuole bene.
La copertina del fumetto di Joe Kelly
Il tempo passa e il problema resta
Dal Giappone feudale ad oggi, il problema dell’emarginazione resta. In passato la motivazione poteva nascere dalla paura per il diverso e per l’ignoto, per quelle culture o popolazioni che si conoscevano attraverso i racconti dei mercanti come per esempio il pensiero che i gatti neri portino sfortuna ma questa credenza ha origine durante il periodo delle crociate e all’epoca avvistare un gatto nero indicava la presenza di saraceni in zona; oggi viviamo nella stessa situazione nonostante gli strumenti per la comunicazione e la conoscenza dell’altro siano migliorate, basti pensare come le immagini di profughi siano sommersi di commenti quasi increduli, come se scappare dalla guerra non sia una motivazione valida per sopravvivere ma sia una certezza per emarginare. L’emarginazione può colpire tutti, non importa dove sei nato, come sei cresciuto, cosa hai studiato o come ti identifichi; oggi molti combattono questo problema con la speranza di lasciare un futuro più radioso, in cui nessuno possa avere paura di esporsi. Nel nostro paese c’è chi sta operando perché determinate situazioni, atteggiamenti non si ripetano; si ha sempre più bisogno di leggi contro l’omotransfobia, contro la discriminazione, contro il diverso. Oggi siamo tutti emarginati e dobbiamo lottare insieme per migliorarci, per creare una società in cui la paura sia solo un ricordo.
L’ultimo lavoro di Bernardo Bertolucci è stato un corto di un minuto e mezzo
Una passeggiata nelle sue strade di Roma
Su una sedia a rotelle
La sua
Voleva mostrare le mille difficoltà che ha un disabile a muoversi
Voleva mostrare cosa significa sentirsi emarginati perché sul tuo tragitto manca un marciapiede
O una discesa
O un posto auto dedicato
Voleva mostrarcelo da disabile
Lui che ha girato il mondo senza porsi mai alcun limite
Quel limite lo ha trovato sotto casa
A Trastevere
Quel limite che incontrano tutti i disabili
Quell’emarginazione che continua ad essere un’ offesa
Che io vedo ovunque
Che mi rattrista
“Scarpette rosse” Irpinia 2021
Come un enorme Uccello che s’interpone
tra il sole e la specie,
arriva l’antica notte
con il suo occhio rannuvolato
e le sue gelate di granchio.
La stessa notte di Caedmon,
in cui i fuggitivi trovarono riposo.
La stessa notte di Blake,
in cui i lupi e le tigri ulularono
sperando d’incontrare il loro destino.
Cade con una vista accecante.
cade sugli uomini selvaggi
che cantarono e ballarono sulla
baia verde, le coste del loro andare.
La stessa notte di Whitman,
in cui descrisse le pallide
facce degli emarginati.
La stessa notte di Beddoes
che lanciò sul mondo il suo piumaggio di nebbia.
forse in passato mi sarebbe risultato più facile parlare di emarginazione e altrettanto facilmente mi sarei inserita nella schiera delle persone che durante la propria vita hanno vissuto momenti di marginalità. Mi verrebbe da pensare a quando da adolescente venivo un po’ presa in giro all’uscita di scuola, a quando non accettavo né il mio corpo né certi aspetti del mio carattere e quindi mi rintanavo in un mondo un po’ in disparte, a quando alcune delusioni mi hanno trascinata in condizioni di sconforto e alienazione.
Secondo te, in quei momenti ero – o meglio eravamo – delle emarginate? Non so te, ma mi risulta difficile dare una risposta a questa domanda.
L’emarginazione è una cosa molto seria, specchio di una società che sembra non avere spazio per accogliere tutti nel suo ventre materno. O meglio, lo spazio c’è, ma solo per coloro che dimostrano di avere i numeri giusti per entrare a farne parte. Si accettano solo i figli prediletti ed è qui che quell’aggettivo che richiama la maternità assume le sembianze di una nota stonata.
Siamo nell’era dell’omologazione, del “se sei come me sei ok”. Un’eterna selezione basata su parametri ben definiti: o sei così o sei fuori. L’ambizione a una società perfetta, fatta di persone brillanti e di successo che non ammette sbagli e soprattutto diversità. Un’utopia, insomma.
Eppure dietro a quest’utopia l’uomo, creatura dotata di intelligenza, ci corre ancora dietro, convinto che prima o poi questo teatrino possa trasformarsi in realtà. È dietro il sipario, però, che vi è il mondo reale. Un mondo dove alla nascita non tutti vengono forniti degli stessi strumenti per farsi largo nella strada della vita.
Siamo davanti a una gara impari e di conseguenza nulla, ma sembra che più o meno tutti facciano finta di non accorgersene. Non se ne accorgono coloro che quegli strumenti li hanno sempre avuti in dotazione e qui prende vigore l’idea dell’uomo come essere egoista; non se ne accorgono gli emarginati stessi che il più delle volte accettano la loro condizione di perdenti in una gara mai iniziata. E così facendo, questi ultimi non fanno altro che accettare e rafforzare l’idea di una società perfetta che non ha spazio per loro.
La mia non è un’accusa, ma amara consapevolezza. Credo che questa sia una condizione senza via di uscita e che non esisterà mai una società in cui ognuno abbia accesso al proprio successo personale senza tener conto da dove proviene e di cosa possiede.
Ecco, se c’è una cosa in cui siamo tutti assolutamente uguali è l’accettazione. Nasciamo, cresciamo e viviamo in un mondo preconfezionato: è già lì quando veniamo alla luce ed è a quello che ci dobbiamo adeguare perché non ve ne sono altri. Un dio, insomma, che dobbiamo venerare affinché non ci riversi contro disgrazie. Non è una cosa alla quale siamo obbligati. Secondo me, tutti noi veneriamo la società in cui viviamo e ne vogliamo far parte. Durante le manifestazioni, di qualunque tipo esse siano, alla fine mi sembra che si combatta sempre per non essere ritenuti diversi, per avere il riconoscimento dei propri diritti al pari degli altri, per avere un lavoro, una condizione economica come gli altri, per essere gli altri.
“La diversità è un valore aggiunto” è lo slogan del momento da anni e anche io lo credo fortemente. Poi, però, mi guardo intorno e mi accorgo che chi è diverso, chi non sta al passo, è emarginato per volontà propria e della società in cui vive.
Commenti recenti