da Andrea Cerrito | Mar 29, 2022 | Lo sbriglialacci
Nell’ultimo mese stiamo assistendo a qualcosa a cui la mia generazione non credeva di poter assistere, e magari lo sperava: una guerra in Europa. Infatti, le guerre nell’area balcanica dell’ex Jugoslavia e dell’Albania, noi nati a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del ‘900 le abbiamo conosciute ascoltando i commenti che gli adulti, in casa, facevano tra di loro. Eravamo ancora dei bambini, non potevamo formarci un giudizio tutto nostro per le ovvie limitazioni imposte dall’età di sviluppo che ho affrontato in altri articoli su Scarpesciuote a proposito di tematiche diverse. Se è vero che durante la nostra adolescenza, invece, un giudizio più “adultoforme” ce lo siamo creato a proposito delle guerre in Iraq, Afghanistan, Libia e Siria, è pur vero che queste guerre sono state combattute lontano dall’Europa, sebbene sia doveroso precisare che ai tempi dell’inizio della guerra in Siria e in Libia eravamo già al termine della nostra adolescenza. Per non parlare del Medio Oriente, della Palestina e dell’Africa, anch’esse lontane dall’Europa e devastate da guerre a bassa intensità e, purtroppo, bassa copertura mediatica.
Qualcuno potrebbe dire che, dopo quello della pandemia, la mia generazione conoscerà da vicino anche il trauma della guerra. La concezione che oggi abbiamo del trauma, tuttavia, è qualcosa di direttamente riconducibile alle conseguenze della guerra stessa.
Al termine della prima guerra mondiale, molti soldati tornati dal fronte erano affetti da una serie di sintomi mai visti prima. Alcuni di loro rivivevano scene di guerra durante il sonno mimando, da sonnambuli, gesti e azioni compiute in trincea e su fronte. C’era chi sobbalzava allo stappo di una bottiglia di spumante, chi “sognava la guerra ad occhi aperti” rivivendo scene cruente a cui aveva assistito in trincea, chi non riusciva più a sperimentare emozioni positive o a ricordare scene di guerra vissuta, chi evitava luoghi e persone che potevano ricordare momenti di guerra, chi, infine, viveva tutte queste condizioni. All’inizio gli psicologi coniarono il termine shell shock (shock da granate) per ricondurre ad un unico concetto l’insieme di questi sintomi osservati nei reduci di guerra; studi successivi e sistematici hanno messo a punto la definizione di disturbo da stress post traumatico.
A voler essere precisi, tuttavia, bisogna riconoscere che prima dell’osservazione delle conseguenze devastanti sui soldati relative al fare esperienza della guerra, Freud aveva già parlato di trauma alla fine dell’800. Il trauma freudiano si riferisce, però, a esperienze “dimenticate” dei nostri primi anni di vita e, benché metta in moto una serie di meccanismi mentali simili a quelli relativi ai traumi osservati nei soldati, aveva l’obiettivo di rendere evidenti quegli stessi meccanismi mentali appena citati. Con le sue parole, “Il trauma si dovrebbe definire come un incremento di eccitamento nel sistema nervoso che questo non è riuscito a liquidare a sufficienza mediante reazione motoria”. Anche se questa definizione ha circa 130 anni ed è stata rivisitata e aggiornata dagli studi che si sono succeduti, si può dire che nei traumi osservati in guerra quell’incremento di eccitamento nel sistema nervoso assume dimensioni straordinarie, rendendo la reazione mentale e comportamentale immensa e destabilizzante al punto da creare dei sintomi (e disturbi mentali) completamente diversi e più gravi di quelli che Freud aveva osservato nelle sue pazienti.
In altre parole, le conseguenze osservate sui reduci di guerra hanno fatto capire che i normali meccanismi di difesa da eventi che si percepiscono come stressanti, quando davanti a situazioni estreme come quelle che possono vivere dei soldati sul campo di battaglia, non riescono a proteggere adeguatamente la psiche. Di conseguenza, si sviluppa un disturbo mentale che coinvolge la psicologia dell’individuo, la sua socialità e ne altera i normali processi fisiologici.
Come molte cose che coinvolgono i processi mentali, non esiste un confine netto tra i sintomi da stress post traumatico e quelli di altri disturbi mentali; basta ricordare che le dinamiche mentali di uno shock shell e di un trauma infantile sono simili benché molto differenti siano gli esiti: disturbo post traumatico da stress (PTSD in breve) il primo, nevrosi il secondo (benché questa parola sia diventata arcaica e oggi rappresenti una serie di disturbi mentali piuttosto che un singolo disturbo). C’è, tuttavia, un elemento che rende più agevole capire quando ci si trova davanti un PTSD rispetto ad altri disturbi mentali: la presenza di un evento traumatico nella storia di vita dell’individuo. Con il termine “evento traumatico” mi riferisco a situazioni di vita pesanti ALMENO quanto aver partecipato ad una guerra tipo Vietnam o guerre mondiali. Credo sia doveroso fare questo appunto, altrimenti si rischierebbe di concepire come trauma mentale anche la fidanzata che ci lascia (e sì, è qualcosa di stressante ma a voler essere precisi no, non è un trauma).
Il trauma si riferisce ad eventi che ci mettono davanti all’evidenza di essere impotenti davanti a determinate forze (come quella di certi individui a cui il potere da alla testa al punto da scatenare una guerra tra popoli o quella della natura). La persona che sviluppa un PTSD prova a “dimenticare” di aver capito che, per quanto possa essere un singolo individuo capace di imprese straordinarie, nulla può davanti a determinate forze. E oltre alla guerra vissuta in prima persona (da soldato al fronte o da civile che vive in una città assediata) mi riferisco ai terremoti, alle alluvioni, alle inondazioni che ti lasciano senza casa, ai grandi incendi, agli incidenti automobilistici gravi (quelli con morti per intenderci), alla morte improvvisa di una persona cara davanti ai nostri occhi, alla violenza sessuale e all’abuso fisico. Se l’evento non fa parte di questo elenco (più qualcosa che di sicuro ho dimenticato) non possiede la forza necessaria di destabilizzarci al punto da determinare un PTSD.
La guerra è un trauma, per chi la subisce da soldato e per chi la subisce da civile. Il trauma è qualcosa di ingestibile per il singolo e riguarda eventi dalla portata catastrofica come quelli della guerra. Il trauma quindi è la cosa più stressante che possa accadere ad una persona. Esistono altre eventualità che possono destabilizzare una persona ma quelle danno vita a disturbi simili ma meno gravi, ma più grave della guerra non c’è nulla: calamità naturali e violenze subite sono gli unici eventi che possono essere comparati.
da Antonio Lepore | Dic 15, 2021 | Editoriale
Anche questo anno si sta avviando verso la conclusione. Qualcuno esclamerà finalmente; altri, invece, incroceranno le dita affinché duri ancora un po’. In ogni caso, è stato un anno complesso, caratterizzato da questa maledetta pandemia che sembra non voler andare via. Altre morti, altri feriti, altre persone che hanno perso il lavoro: insomma, è stata dura per molti. All’orizzonte, però, c’è la speranza rappresentata dai fondi europei. Un’occasione, questa, da non sprecare se davvero abbiamo a cuore le sorti di questo Paese. Non abbiamo granché fiducia nella politica, certo, però saremo contentissimi di essere smentiti.
La nostra banda di scarpesciuote, quindi, nelle prossime due settimane tirerà le somme dell’anno appena “consumato” e volgerà lo sguardo lontano. Chissà quali sogni ci aspettano, quali progetti avvieremo e, soprattutto, chissà quanto batterà il nostro cuore. Sicuramente batterà ancora per questo blog che ci sta regalando tante soddisfazioni e che sta tenendo compagnia a tutti voi. Ce la metteremo tutta, anzi proveremo a fare di più.
Antonio Lepore
Andrea Famiglietti
da Giannicola Saldutti | Nov 1, 2021 | Distinti est
Si, il titolo è provocatorio. Ma ormai qui è questione di culto. Sarrismo, cortomusismo, guardiolismo…gli ultimi campionati (noiosissimi in quanto a suspance e competizione) hanno quantomeno contribuito ad aprire un vero e proprio dibattito nell’ambiente.
Meglio il gioco o il risultato? La concretezza arida o l’appassionata poesia del rischio di veder dominata una partita, seppur uscendo sconfitti? È meglio arrivare secondi dando spettacolo con la bellezza di 91 punti totalizzati, oppure arrivare con metodica tristezza a 92 per prendere tutta la posta in palio?
La conferenza stampa di Allegri, ormai divenuta riferimento di culto, ha fatto scuola ed ha tracciato, col pragmatismo toscano che contraddistingue il tecnico, una strada ed un estemporaneo manifesto: corto muso vince, secondo perde. Facile. Come nelle corse dei cavalli. Una visione tanto piatta della realtà del calcio quanto funzionale alla nostra mentalità.
Proprio questa, infatti, è la chiave risolutiva: la filosofia calcistica del nostro Paese è stata sempre fortemente inclinata verso una interpretazione pragmatica del gioco, il rischio è sempre stato visto con un certo carico di paura, in un ambiente pronto a processare chiunque osi fallire. Allegri lo sa, lo ha sempre saputo. Sembra quasi che la serie A odierna sia il suo habitat naturale, capace di esaltare le sue qualità e la sua visione: il bel gioco non serve a nulla se non è accompagnato dal risultato finale (che per la verità ultimamente…latita!).
È uno slogan funzionale, che parla alla pancia, capace di convincere i più scettici proponendo all’orizzonte la gioia più ambita: la vittoria. Eppure da un punto di vista più ampio (che non sia solo quello del fruitore finale dello show o del tifoso sfegatato), i dati dimostrano chiaramente che il calcio italiano, nonostante la piacevolissima notte di Wembley, sta perdendo pericolosamente appeal.
I risultati europei purtroppo lo dimostrano e le parole pronunciate da Adani pochi giorni fa ci rispediscono dritti dritti a contatto con la realtà dei fatti: guardare Inter-Juve per chi è abituato ai ritmi e all’attitudine di una Man United-Liverpool risulta un’impresa per cuori forti. I ritmi compassati, l’esasperazione tattica, la paura di perdere, il difensivismo ad oltranza… ciò che venti anni fa sembrava essere una sfida allettante oggi si è trasformato in un grande disincentivo capace, molto probabilmente, di allontanare spettatori, quindi soldi, quindi nuovi campioni.
Lo “scenario” non aiuta: gli impianti sono fatiscenti e desueti, le misure anti-Covid hanno minato fortemente la fruizione dal vivo. Diciamo che il “corto muso” di Allegri fa vincere gli scudetti ed ottenere risultati, ma sul lungo periodo l’applicazione pedissequa di un pragmatismo poco coraggioso porta inevitabilmente a ingessare l’ambiente, rendendolo brutto, tignoso, poco spettacolare.
Si, ma…”i campioni d’Europa siamo noi” direte voi. Guai però a confondere l’estemporanea vittoria di un collettivo affiatato e compatto con lo stato di salute generale del nostro movimento calcistico e della nostra massima serie, peraltro sempre più infarcita di stranieri dalla dubbia qualità.
Personalmente credo che la vittoria sia sempre piacevole, ma il perseguimento della stessa non può intaccare ed ingessare l’ambiente dietro una coltre di difensivismo ad oltranza. Del resto, la notte di Wembley non può cancellare un dato: l’ultima Champions italiana è targata 2010, l’Europa League non è stata mai vinta. Provate voi a resistere all’appeal di un Udinese-Torino giocata di lunedì sera!
da Antonio Lepore | Mag 6, 2021 | Riflessioni non richieste
In auto con il finestrino a metà penso a quanta serenità mi restituirebbe vivere in un Paese diverso da te. E non è colpa tua se desidero essere altrove. Tu sei sempre bellissima, soprattutto nei tuoi angoli più nascosti, lì dove un anziano custodisce la chiesa più meravigliosa come l’ultimo cimelio ancora in piedi su questo mondo cattivo.
E lo so che abbiamo riso assieme, quando rischiavo di affogare nel tuo mare blu Modugno ed il tramonto era storpiato dall’abusivismo edilizio. Ma non era colpa tua: noi uomini siamo ritornati bestie. E sai, a volte in me viveva la consapevolezza che in te c’era qualcosa di Dio: una bellezza a cui non credi ma che ti aiuta a sperare che tutto sia possibile, anche Fedez che assurge a nuovo paladino contro la censura del libero pensiero. Sulla Rai, in mezzo a mille sindacati che se ne fottono di un padre di famiglia che ieri in lacrime mi ha chiesto un euro. Si, anch’io mi sto facendo trasportare dal qualunquismo, ma sai, ho perso qualsiasi ideale.
Forse l’ultima goccia che ha fatto traboccare la mia ultima resistenza è caduta quando ho accompagnato l’ennesimo amico in aeroporto. Piangeva, ma dopo qualche mese rideva di gusto perché viveva finalmente una vita dignitosa (sti cazzi se la pasta è sempre scotta oltre le Alpi). E ora che si parla di un nuovo inizio, vorrei che oltre ogni incentivo e investimento, quegli stronzi che abbiamo votato facessero una promessa: vi promettiamo, pena il nostro esilio, che ognuno di voi potrà vivere con dignità. Forse da lì potrà riscoccare il mio amore per te.
da Andrea Famiglietti | Mag 5, 2021 | Riflessioni
Per uno come me è sempre un’impresa parlare di futuro e la tematica di questa settimana mi mette in una posizione non certo facile, da cui comunque proverò ad uscirmene.
Mi perdonerà Antonio, amico e compagno di viaggio, ma dovrò sottopormi ad un esercizio un po’ più complesso per raggiungere l’obiettivo preposto. In fondo, credo che per immaginare o sperare un paese futuro si debba essere saldamente ancorati al proprio presente e a quello che è il mondo che ci circonda. Parlare di ciò ci riporta immancabilmente di fronte alle necessità che sono diventate ormai delle urgenze.
Ognuno di noi sogna un futuro fatto di crescita e benessere, questo è innegabile. Così, in diversi momenti delle nostre vite e a seconda dei tempi in cui esse prendono forma e si muovono, ci ritroviamo ad immaginare un futuro “nostro”. Un futuro che risponde certo a delle criticità e che ci costringe a trovare delle soluzioni.
In un’economia globale sconvolta da continue recessioni, dove le trasformazioni violente dell’ecosistema rivelano orribili conseguenze per l’intera specie e non, ci guardiamo disperatamente intorno, spaesati, temendo per la nostra stessa presenza nel mondo e siamo così pronti ad immaginare il cambiamento. Immaginiamo una svolta verde, una svolta tecnologica, immaginiamo le smart cities, che siano sostenibili e resilienti.
Le immaginiamo e siamo pronti a sceglierne una, la più affine, la più credibile, la più convincente e anche la più pragmatica. Impariamo così l’intero vocabolario capace di metterci a nostro agio nelle conversazioni al bar, capace di farci stare bene con il nostro self, perché in fondo una scelta l’abbiamo compiuta. Ci sentiamo assolti e pensiamo che avendo immaginato un futuro preconfezionato il nostro compito sia finito. Ma non è così, le soluzioni che riteniamo giuste devono partire dai territori, devono essere discusse, condivise, ibridate ed elaborate. Immaginare un paese futuro richiede fatica, richiede riflessione, confronto e talvolta anche scontro.
Mi perdonerà Antonio, e con lui tutti coloro che avranno ricercato in questo articolo una qualche soluzione. Non riesco ad immaginare cosa vorrei per la mia terra, figurarsi per l’intero paese, ma sono sicuro che una delle necessità da cui si dovrebbe ripartire per immaginare un futuro migliore è quella di mettere al centro i territori con i tanti, diversissimi attori, capaci di comprendere ogni differente sfaccettatura, ogni necessità per rendere le nostre realtà migliori. Non è certo un percorso facile, ma non è nemmeno impossibile!
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